martedì 3 aprile 2012

La guerra dei fuochi (Racconto) di Ezio Scaramuzzino


La guerra dei fuochi
Il 19 marzo, festa di San Giuseppe, al paese ogni rione accendeva il fuoco, ma i preparativi  incominciavano qualche giorno prima. Nel rione Colla, che era il mio, soprattutto i bambini eravamo in fermento da almeno una settimana. Bisognava raccogliere legna e frasche, in abbondanza, perché era considerato vergognoso approntarne uno  modesto e ancora più vergognoso risultare l’ultimo rione nella classifica dei falò. All’uscita da scuola, tutti i bambini ci ritrovavamo insieme a scorazzare in lungo e in largo sulle colline dei dintorni. Raccoglievamo sterpaglie e cespugli  e non disdegnavamo di spezzare rami e talvolta di abbattere modesti alberelli che con la loro presenza avevano contribuito a spezzare l’aridità di quelle lande desolate. Anche gli adulti e le donne spesso davano una mano, per il prestigio del rione e con la segreta speranza che il proprio fuoco alla fine sarebbe durato più degli altri, oltre a risultare il più bello e il più grande.  Verso l’ora del tramonto si potevano vedere lunghe file  di persone che ritornavano in paese portando  a spalla fascine  di legna. Tutto veniva poi depositato in luoghi preposti, dove si formavano cataste che crescevano a vista d’occhio, giorno dopo giorno.
Ma non  finiva qui. Dopo aver depositato la legna, erano necessari dei turni di guardia, anche durante la notte, perché era considerato lecito rubare quella degli altri, se rimaneva incustodita, e non era ritenuto vergognoso rimediare botte in eventuali tentativi di furto andati a male.  Ovviamente per questi compiti di sorveglianza si facevano avanti sempre i ragazzi più robusti, i quali, oltre a dar prova di coraggio, consideravano un onore il poter difendere in tal modo la “proprietà” ed il buon nome del rione. Si formava ogni anno una vera e propria classifica. Franco, mio cugino, era il capo riconosciuto dei sorveglianti: era lui a distribuire responsabilità e turni di guardia. In tale classifica io mi ero rassegnato ad occupare sempre uno degli ultimi posti. Ero più piccolo d’età e poi ero gracile e scarsamente incline alla violenza, tanto che, le poche volte che facevo a botte, riuscivo sempre ad avere la peggio ed a ritornarmene a casa piangendo.    Ma non potevo rifiutare i turni di guardia e quando Franco, che pure spesso mi risparmiava qualche compito particolarmente gravoso, mi assegnò il turno  della vigilia, non battei ciglio ed accettai. Avevo un po’ di timore, perché in quella notte  le cataste di legna erano al massimo e richiedevano grande attenzione, ma  con me c’erano anche Franco ed Albertino, un altro ragazzo che non gli era da meno.
Quella sera, dopo la cena, dissi chiaramente che durante la notte avrei  sorvegliato la legna di San Giuseppe. Mia madre non si oppose, ma mi obbligò a infilare un altro maglione sopra quello che normalmente portavo, mi procurò un berretto di lana e si limitò a darmi qualche consiglio, raccomandandomi soprattutto di trovare un buon riparo e di non prendere troppo freddo. Verso le 11 mi ritrovai con Franco e Albertino a dare il cambio al turno precedente. Su un fianco della catasta era stata ricavata una sorta di grotta, nella quale ci mettemmo al riparo, mentre le frasche tutte attorno ci proteggevano un pochino dal freddo della notte. Albertino aveva portato una grossa pila, rimediata chissà dove, che tenevamo accesa per far sapere ad eventuali “visitatori” che “noi c’eravamo”. Parlammo a lungo quella notte, per evitare di addormentarci e Franco ci intrattenne con storie di fantasmi e di morti, che contribuirono non poco a tenerci svegli. Verso le tre del mattino, la pila, ormai esaurita, si spense, mentre  Franco ed Albertino, che avevano  cessato di lottare contro il sonno, si erano addormentati. Io cercavo ostinatamente di tenere gli occhi aperti e ci riuscivo solo perché ero rimasto abbastanza scosso dai racconti di Franco.
In questo dormiveglia credetti di sentire, anzi sentii distintamente un rumore attutito di passi. Poi sentii delle voci sommesse e non mi ci volle molto a capire che c’erano dei “visitatori”. Senza gridare, diedi uno strattone ai miei due compagni e li svegliai subito. In silenzio sgattaiolammo fuori della grotta e vedemmo  un gruppo di ragazzi,  riconosciuti distintamente come provenienti dal rione Chiano, che stavano portando via legna e frasche. Erano cinque o sei quei ragazzi ed erano capeggiati da Salvatore Drappi, autentica ira di Dio e famoso  per quanto era considerato pericoloso:bastava la sua presenza per tenere alla larga dal suo rione tutti gli altri ragazzi del paese, che, quando lo vedevano da lontano, a volte preferivano perfino cambiare  strada. Ma quella sera Salvatore non ci fece paura.  Sarà stata l’incoscienza, ma ci mettemmo a gridare e ci lanciammo a corpo morto contro quei ragazzi, che in un primo momento presero a lottare per difendere quel che avevano rubato, ma poi, ad un fischio lanciato da Salvatore, abbandonarono tutto e se la diedero a gambe. Eravamo esausti, ma felici per essere riusciti a sventare il colpo,  e stavamo riportando indietro la legna trafugata, quando mi accorsi di avvertire una strana sensazione di calore sul volto. Mi toccai con una mano e mi accorsi che il mio volto era pieno di sangue, anzi capii quasi con terrore che da un occhio non ci vedevo più.
Mi misi a correre verso casa, mentre Franco e Albertino mi correvano dietro. Caddi perché non ci vedevo bene, poi mi rialzai e ripresi a correre, ma caddi un’altra volta  e allora quei due, piangendo, mi sollevarono, mi presero in braccio e mi  portarono fino a casa. Quando mia madre, svegliata dalle grida e dai pianti, vide il mio volto lordo di terra e di sangue, lanciò un grido lungo e straziante, che mi sarebbe rimasto nel cuore per il resto della vita. Fui portato a braccia, di notte, dal medico Mauro, che per noi del paese allora era tutto. Egli era il  medico, il chirurgo, il farmacista, ma era anche un padre, una madre, uno zio affettuoso, al quale ricorrere per ogni esigenza. Il medico non si spazientì quella notte, per essere stato svegliato a quell’ora:con calma e premura mi ripulì il volto e vide che sulla palpebra sinistra avevo una ferita, da cui sgorgavano numerose gocce di sangue. Mi suturò la ferita ed io non emisi neppure il più piccolo lamento, tanto ero atterrito.
La sera successiva, gli altri ragazzi accesero il fuoco di San Giuseppe. Dopo circa mezz’ora arrivai anche io, con una benda che mi ricopriva la sutura, ma mi fasciava anche la testa, come  un turbante. Tutti avevano saputo degli incidenti della notte e mi osservavano con curiosità. E io avanzavo e giravo intorno al fuoco con lentezza, quasi volessi assaporare intensamente  il mio   momento di gloria. Guardavo  a mia volta gli altri e mi veniva  voglia di dire che, se essi avevano potuto accendere il fuoco e godere delle sue fiamme e del suo calore, lo dovevano a me, che avevo lottato per quel fuoco e per quelle fiamme. Poi vidi il gruppo dei miei compagni tutti assieme, in piedi  e stranamente silenziosi: mi sentivo come un generale che passa in rassegna le sue truppe. Ma fu un attimo. Tutti insieme, gridando, corsero verso di me e mi abbracciarono. Poi ci unimmo ai  cori delle donne che invocavano  San Giuseppe:

San Giuseppi, mastro d’ascia, chi facia tavuti e casci, li facia senza dibruni , San Giuseppi ni pirduna.
E nu m’indi vaiu di ccà, si la grazza nun mi fa,e fammilla, Madonna mia, chi ‘ndaiu ‘na grandi necessità.

Qualcuno ballava, accompagnato dalla  fisarmonica di Silvio Scalise, considerato allora al paese insuperato ed insuperabile fisarmonicista, mentre altri pensavano ad alimentare il fuoco.  Ad un certo punto arrivò il convito, cioè un pentolone di pasta e ceci, accompagnato da altre cibarie: era  il culmine della festa. A distanza di tanti anni, ricordo ancora quella pasta e quei ceci, così squisiti, così gustosi, che non avrei mai più mangiato per il resto della vita. Poi a gruppi ci si spostava nei vari rioni, per vedere i fuochi degli altri, per mangiucchiare qualcosa e alla fine compilare quella classifica ideale, che non vedeva vincenti e perdenti, ma tutti ci accomunava nel gioco della vita, dove ogni cosa  era semplice e dove tutti in fondo erano felici, magari senza saperlo. Verso mezzanotte i fuochi si spegnevano. Qualche vecchietta raccoglieva in un secchio un po’ di braci da portare a casa, qualche ragazzo provava a camminare sulla cenere, che incominciava ad essere sollevata e dispersa dal vento. Alla fine anche i ritardatari  decidevano di ritirarsi e  anche io, tra gli ultimi, rientravo a casa. Quella sera, mentre cercavo di addormentarmi, sentii  il canto di un viandante solitario  e quel canto, allontanandosi  lungo le strade e i sentieri, moriva a poco a poco. Sentii una stretta al cuore.
Ezio Scaramuzzino


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