martedì 29 maggio 2012

Bozzetto di paese(Racconto) di Ezio Scaramuzzino


Bozzetto di paese
Tra i giuochi della mia fanciullezza c’era quello d’ “u vettu e ra squigghia”, oggi del tutto scomparso e sostituito da ben altri giochi e passatempi. A quel che ne so, il giuoco ha tanti nomi diversi nei vari dialetti,  come “lippa” o “scianco”, ed era anche praticato con un’infinità di regole diverse. Al mio paese si giocava con due legni, di cui uno più lungo, il vettu, e l’altro più corto e appuntito sui due lati, la squigghia. Si scavava per terra una piccola fossa lunga e stretta, dove si poneva la squigghia, che veniva fatta rimbalzare e colpita in aria con il vettu, allo scopo di farla andare il più lontano possibile. Vinceva chi mandava la squigghia più lontano degli altri. Ma c’erano alcune varianti e soprattutto esso era molto pericoloso. Quella squigghia spesso volteggiava in modo inaspettato e non era infrequente che cadesse sulla testa di qualcuno, ma anche il vettu faceva la sua parte, perché era spesso maneggiato in modo maldestro e tante volte, invece di colpire la squigghia, colpiva la testa di qualche malcapitato, quando non sfuggiva dalle mani di qualcuno, con esiti del tutto imprevisti.
In genere, proprio per evitare incidenti agli estranei, si andava a giocare su una collinetta  fuori paese,il “timpone”, oggi deturpata dalla speculazione edilizia, ma allora ricoperta interamente di ulivi. Tra i rami di quelle piante spesso finiva col  posarsi la squigghia, che poi cercavamo di recuperare con un fitto lancio di pietre e con qualche pericolo supplementare per le nostre teste.
Allora i bambini erano spesso rasati a zero, forse per motivi di prevenzione, perché i pidocchi non erano degli animaletti del tutto sconosciuti nelle aule scolastiche, ma anche per motivi economici, perché così si poteva maggiormente diluire nel tempo il successivo taglio di capelli. In quelle circostanze, i bambini esibivano le cicatrici sulla testa  come dei trofei di guerra e non era da escludersi che qualcuno, che si fosse trovato con la testa completamente liscia, se ne vergognasse un pochino.
Ogni tanto, dopo l’uscita da scuola, specie in inverno quando le giornate erano corte e al pomeriggio non  si aveva molto tempo a disposizione, non disdegnavamo di fare una partitella veloce, anche per strada o addirittura nella piazzetta principale del paese. Le strade erano  in terra battuta ed era facile scavare la fossetta di partenza per la squigghia. Le auto erano rare e, quando se ne vedeva qualcuna, ci si fermava per un po’. Più frequenti erano gli asini, ma in quel caso ci si limitava solo a qualche precauzione, consapevoli del fatto che gli asini, abituati alle legnate dei contadini, probabilmente non avrebbero fatto caso all’eventuale colpo della squigghia. Qualche volta passavano greggi di capre o di pecore, di ritorno dalla campagna, e allora l’interruzione era lunga, perché in quel caso bisognava anche aspettare che si diradasse il polverone suscitato da centinaia di animali, chiaramente non disposti a sollevare le zampe per consentirci di riprendere subito il giuoco.
              Se poi passava qualche persona, ci si regolava  di volta in volta, a seconda della suscettibilità e della pericolosità degli interessati. Quando  passava nonna Betta, c’era poco da scegliere: ad evitare guai, bisognava solo smettere. Nonna Betta era una simpatica vecchietta di circa ottanta anni, vispa e incline a scherzare un po’ con tutti, ma che non sopportava in alcun modo gli schiamazzi e gli strilli dei bambini. Sembrava farlo apposta: non appena si accorgeva che noi stavamo giocando nello spiazzo antistante la cappelletta di San Leonardo, appariva sulla porta di casa e noi ci facevamo subito un cenno d’intesa. Poi, lentamente e con apparente noncuranza, andava a fermarsi proprio sulla fossetta della squigghia, che lei ricopriva completamente con la sua  gonna larga a campana e lunga fino ai piedi. Non si moveva da lì e allora qualcuno, impaziente di riprendere il giuoco, infilava una mano sotto la sua gonna per riprendere la squigghia, che però risultava quasi sempre bagnata, mentre la fossetta a terra era inumidita o ripiena di un liquido giallastro chiaramente identificabile.
Con tanta pazienza provvedevamo a creare un’altra squigghia e a scavare un’altra fossetta. Ma, dopo un po’, lei abbandonava la sua postazione e, come nel gioco dei Quattro cantoni, si posizionava sulla nuova fossetta e sulla nuova squigghia, che provvedeva subito ad irrorare con il contenuto di quella che a noi  appariva come una vescica gigantesca ed inesauribile. Il giochino poteva essere ripetuto all’infinito, perché evidentemente nonna Betta aveva un’incredibile capacità di immagazzinamento, di controllo  e di distribuzione  diretta  e senza ostacoli dei suoi liquidi, talché il più delle volte decidevamo di ritirarci, pur con qualche imprecazione, rinviando il tutto a momenti più fortunati.
Si giocava così al tempo della mia fanciullezza, in modo semplice e con giuochi costruiti interamente da noi stessi.  Non si pretendeva molto dalla vita e si era felici quando si poteva giocare  e si poteva trascorrere qualche ora in modo spensierato. Ma qualche volta i problemi nascevano e comportavano spiacevoli conseguenze.
In un giorno particolarmente rigido di Dicembre, le fontanelle pubbliche erano  ghiacciate e presentavano al posto dell’acqua  delle strane stalattiti che  consentivano ai bambini un insolito passatempo. Anche lungo le strade, là dove una volta si formavano delle pozze d’acqua, si vedevano delle incredibili lastre di ghiaccio, ma questo non ci aveva impedito, all’uscita da scuola, di dedicarci  un po’ al nostro giuoco preferito. Quando arrivò il mio turno di battuta, dopo aver fatto rimbalzare la squigghia, riuscii a colpirla  con precisione. Il legnetto volteggiò nell’aria, favorito anche dal leggero vento di tramontana, poi, con una parabola morbida e sinuosa, roteò su se stesso e sembrò finalmente volersi posare per terra. Ma finì su una lastra di ghiaccio, schizzò un’altra volta in aria e ultimò la sua rincorsa su una finestra della bottega artigiana di   mastro Eugenio, calzolaio, che proprio dietro quella finestra stava dando gli ultimi colpi di martello ad una scarpa che aveva appena finito di aggiustare.
Un sordo rumore di vetri infranti fu l’ultima cosa che sentimmo, perché, già un attimo dopo, tutti eravamo scappati via e la strada si presentava incredibilmente  e misteriosamente deserta. Ma mastro Eugenio non impiegò molto a sapere quel che era successo e soprattutto chi era il colpevole. Lo capii un paio d’ore dopo, quando mi decisi a rientrare a casa, cercando di assumere un atteggiamento che avrebbe voluto essere disinvolto. Mia madre, come talvolta faceva in circostanze del genere, me le diede di santa ragione. Incominciai a covare un sordo rancore nei confronti di quell’omino basso e spelacchiato, che oltre tutto aveva preteso anche la riparazione del danno, cosa che, in quei tempi di ristrettezze, non era senza conseguenze per i bilanci familiari.
Qualche giorno dopo, quando il mio rancore era ancora ben lontano dall’essere sopito, sul far della sera, vidi mastro Eugenio che aveva chiuso la bottega e si apprestava al ritorno a casa. Nascosto dietro un muretto, tirai fuori la fionda che portavo sempre con me, la caricai con un bel ciottolo, presi la mira e lanciai. Forse mai in precedenza mi era riuscito un tiro migliore. Il ciottolo si diresse inesorabile verso il bersaglio, ma sfiorò soltanto la testa di mastro Eugenio, colpendo in pieno il bel Borsalino nero che egli portava sulla capoccia, certo per difendersi dal freddo, ma soprattutto per nascondere la calvizie, che molto lo angustiava. Il calzolaio sentì solo il soffio del ciottolo che l’aveva sfiorato, ma vide il suo cappello rotolare nel fango e fece una rincorsa per recuperarlo. Gridò disperato, quando vide che il suo bel Borsalino nero e ancora nuovo, che aveva comprato solo qualche giorno prima a Crotone da Macirella, pagandolo ben tremila Lire, orbene quel Borsalino presentava sulla parte posteriore un ampio strappo, che l’aveva irrimediabilmente rovinato. Poi si girò attorno, per cercare di capire quel che era successo, da dove era arrivato quel ciottolo, ma non vide nulla: la strada era deserta e poco si poteva distinguere  nelle ombre della sera.
Mastro Eugenio andò a protestare un’altra volta a casa mia, ma questa volta non aveva prove e soprattutto non aveva testimoni. Mio padre lo cacciò fuori di casa in malo modo e questo fu solo l’inizio di una lunga serie di incomprensioni, e talvolta di litigi, che alla fine sfociarono  in una vera e propria inimicizia, che in seguito avrebbe caratterizzato  i rapporti tra le due famiglie.
Non so se mastro Eugenio si rassegnò mai alla perdita del suo Borsalino nuovo. Qualche tempo dopo, mentre ero intento a gustare per strada dei “crustoli” natalizi, mi sentii afferrare dalla collottola. Era lui. Mi venne l’istinto di scappare, ma lui non mollò la presa con le sue mani che odoravano di sego e di cuoio, mi tranquillizzò sulle sue intenzioni e mi disse: “Senti! Tu puoi giocare quanto vuoi con la squigghia o con la fionda, ma  di questo a me non interessa proprio niente. A me non interessa niente neppure del cappello. L’unica cosa che mi sta a cuore è quella di non passare per fesso e io non voglio passare per fesso e  non voglio stare con questo rovello che mi frulla continuamente nella testa. Tu mi devi solo dire se sei stato tu a bucare il mio Borsalino  e poi  ti lascio andare, amici come prima. Perciò, guardami negli occhi e dimmelo. Sei stato tu?”
Fui costretto a deglutire a vuoto prima di rispondere. Poi inghiottii il “crustolo” che avevo ancora in bocca e, quando finalmente mi sentii tranquillo e libero di rispondere, avevo già preso una decisione sulla risposta. Riuscii a guardarlo negli occhi e gli dissi: “Mi dispiace, mastro Eugenio, ma non sono stato io e non so chi è stato. Mi dispiace”. Mastro Eugenio mi strattonò un poco, poi mollò la presa e si allontanò, sbraitando: “Tutti uguali questi ragazzi di oggi, tutti, tutti uguali. Ma non è ancora finita! Tutti uguali, tutti…”.
Ezio Scaramuzzino

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