martedì 12 giugno 2012

Guerra di sarti(Racconto) di Ezio Scaramuzzino



Negli anni Cinquanta e Sessanta c’erano al mio paese solo due sarti, Candido Morigi e Giulio Correale, miei parenti e anche parenti tra di loro, seppure alla lontana. I due si guardavano in cagnesco, nonostante la parentela, certo per motivi di concorrenza, ma anche perché molto diversi di carattere. Un po’ chiuso e introverso il primo, estroverso e gioviale il secondo. Entrambi sposati e con figli, ed il secondo ne aveva una nidiata, sopravvivevano alla meno peggio, cucendo qualche vestito nuovo per Natale e per Pasqua e per il resto dell’anno limitandosi a qualche piccolo lavoro di riparazione o rivoltando qualche cappotto e qualche giacca. Anche nel modo di lavorare erano diversi. Metodico e tradizionale Candido, sempre rintracciabile nella sua bottega artigiana e puntuale nelle consegne, piuttosto eccentrico Giulio, che si concedeva un qualche tocco di originalità nelle sue creazioni  e che lavorava in modo irregolare e soprattutto quando non era distolto da altri impegni  più importanti. Entrambi avevano imparato il mestiere  da bambini, frequentando le botteghe di altri sarti, ed anche loro tenevano a bottega un nugolo di mocciosi, che avrebbero dovuto imparare il mestiere, mentre in realtà erano tenuti lì dai  genitori solo perché si sentissero impegnati a fare qualcosa, nelle lunghe ore del pomeriggio, libero da incombenze scolastiche.
Anche io, da bambino, frequentai la bottega di Candido Morigi, ma solo per qualche mese e fino a quando non mi convinsi che a me, di fare il sarto da grande, importava poco o niente. Abbandonai la bottega senza alcun rimpianto, felice di poter dedicare i miei pomeriggi alla lettura dei libri che tanto amavo, ma soprattutto inconsapevole del fatto che di lì a qualche tempo le vicende della vita mi avrebbero un’altra volta coinvolto nel mondo dei sarti e delle sartorie.
I due sarti  continuavano intanto a lavorare ed il loro duopolio sembrava destinato a durare per decenni, anche se il lavoro diventava sempre più precario, perché incominciavano a spuntare dovunque i negozi di moda pronta e anche a Scandale, chi voleva un capo nuovo trovava molto più comodo andare a Crotone e rifornirsi da Capuano o da Macirella.
     Passarono gli anni e una mattina di Aprile di tanti anni fa, tra una partita e l’altra di Terziglio, apparve al Bar Centrale  Giovanni Parrilla, trentenne, che non vedevo da qualche tempo, perché era emigrato a Milano. Eravamo stati amici una volta, nonostante la differenza di età, e, quando mi vide seduto sulla veranda a guardare annoiato la piazza circostante, venne a sedermi vicino, con spontaneità e naturalezza, quasi a voler riprendere un discorso interrotto. Mi raccontò che a Milano aveva lavorato nella sartoria del Teatro alla Scala, dove inizialmente era stato assunto con umilissime mansioni, riuscendo però ad imparare benissimo il mestiere ed a farsi apprezzare dalle maestranze. Da qualche anno però aveva dei problemi all’apparato respiratorio ed i medici gli avevano sconsigliato l’aria di Milano, inducendolo quindi a ritornare al paese natio, dove aveva intenzione di aprire una bottega artigiana e continuarvi la sua attività di sarto per uomo e per donna.
Giovanni non impiegò molto ad affermarsi, tanto che i due vecchi sarti, che prima si detestavano cordialmente, non tardarono a capire che dovevano allearsi contro il “Milanese”, così i due lo chiamavano per dileggio, se volevano avere qualche speranza di sopravvivere. Ma ogni alleanza fu vana: il nuovo arrivato spopolò, grazie soprattutto alle signore, che pregustavano il piacere proibito di farsi manipolare da un giovane sarto piuttosto che da una delle vecchie sarte di paese. Inoltre egli non aveva esitato a praticare prezzi stracciati, tanto da riuscire concorrenziale perfino rispetto ai nuovi magazzini di moda pronta. Il “Milanese” aveva decisamente  successo ed il coronamento di tale successo fu il suo fidanzamento con Luisa, la figlia un po’ attempata di uno dei benestanti del paese, che, una volta resasi conto che stava per rimanere zitella, aveva deciso di ripiegare su Giovanni, accettandone le discrete, ma molto interessate  profferte amorose.
Anche io un giorno varcai la porta della sartoria di Giovanni. Non ci tenevo a farmi confezionare un vestito da lui, anche perché non volevo guastare i rapporti di parentela, che mi legavano a Candido e a Giulio, ma finii col cedere alle sue insistenze.
Appena varcai la soglia, Giovanni interruppe ogni altra incombenza e si dedicò a me. Mi fece scegliere un modello su un catalogo, decise lui il tipo e la qualità della stoffa, mi prese le misure e poi, riprendendo a lavorare, mi intrattenne sugli ultimi accadimenti della sua vita, informandomi in particolare sul suo recente fidanzamento. Notai che la sartoria era piuttosto modesta: un unico vano, piuttosto ampio, ma che era diviso in due parti disuguali da un grande tramezzo dietro il quale, evidentemente, i clienti, ma soprattutto le clienti, potevano spogliarsi per i necessari cambi d’abito. Avvicinatomi al tramezzo, notai che in un angolo era stato praticato un foro, non molto ampio, ma che dava la possibilità di sbirciare, senza essere visti. Non potei fare a meno di pensare, conoscendo Giovanni, su quanti glutei e quanti fianchi debordanti egli avesse posato lo sguardo attraverso quel foro. Notai anche una porta laterale, attraverso la quale sentivo provenire una voce di donna e quella cinguettante di alcuni bambini. Mi spiegò che quella donna era la padrona di casa, una delle tre fornaie del paese, che arrotondava le sue entrate con il modesto ricavato di quella stanza in affitto.
Conoscevo quella donna, come conoscevo le altre due fornaie del paese, un po’ perché nei paesi ci si conosce  un po’ tutti, ma soprattutto perché le fornaie allora, dalle nostre parti, erano conosciute ed apprezzate per delle qualità particolari. Non ho mai saputo o capito per quale motivo o in virtù di quali antiche consuetudini ciò avvenisse, ma le fornaie non si limitavano a produrre e a sfornare  un pane fragrante e saporitissimo, ma si consideravano ed erano da tutti considerate le uniche donne veramente “libere” del paese. Era normale che chi praticava quel mestiere avesse  figli ottenuti con uomini diversi: la cosa non costituiva scandalo ed era considerata nell’ordine delle cose naturali, come il sole che sorge al mattino o la pioggia che bagna i prati.
Chiesi a Giovanni se anche lui avesse deciso di contribuire alla riproduzione della specie con quella donna ed egli mi confidò che non solo era caduto nella tresca, ma che non sapeva come uscirne fuori. Mi scongiurò di non dire niente in giro e mi salutò con un abbraccio. Ma non ci fu bisogno che io parlassi. In vece mia parlava, in maniera fin troppo eloquente, la pancia della fornaia, che di lì a  qualche mese prese ad aumentare di volume, un po’ come la pasta levitata che lei utilizzava per preparare il pane. Nel paese non si parlava molto di quella  gravidanza, considerata quasi ovvia e naturale, ma ne incominciarono a parlare con insistenza i due vecchi sarti, i quali, senza dimostrare alcuna incertezza, ne indicavano l’origine nel loro giovane rivale e non tralasciavano di  informarne con ricchezza di particolari la sua promessa sposa .
Un giorno di Luglio mi trovavo nella bottega di Giovanni. Ero andato a provare dei pantaloni di lino, che egli aveva voluto cucirmi senza essere pagato e solo, diceva, in nome della nostra vecchia amicizia. Avevo già provato i pantaloni, li avevo riposti su una corda che fungeva da  appendiabiti e mi apprestavo a rivestirmi. Improvvisamente si sentì un colpo secco all’uscio: le due ante si aprirono con violenza ed apparve nella stanza Luisa, che afferrò al volo un forbicione e si diresse risoluta verso il fidanzato. Giovanni non seppe far di meglio che saltare da una finestra fortunatamente aperta per il caldo e sparì nel vuoto. Restavo io che ero  come inebetito di fronte alla furia della donna e mi ritrovavo ancora bloccato, con una gamba già infilata nei pantaloni ed una gamba fuori. La donna, lanciandosi come un toro inferocito, riversò la sua furia verso di me, gridando che io ero complice delle malefatte del fidanzato e puntandomi col forbicione. Feci appena in tempo a svegliarmi dal mio torpore  ed a spostarmi con uno scarto improvviso, nonostante fossi ostacolato dai pantaloni che ancora reggevo con una mano. Arretrando, feci un capitombolo su me stesso e finii riverso sul pavimento. Ero riuscito ad evitare il colpo  di Luisa, ma non riuscii ad impedire che lei, trascinata dalla sua rincorsa, centrasse con le forbici proprio i miei nuovi pantaloni di lino appesi alla corda e li bucasse da parte a parte.
Dopo un po’ apparvero  sull’uscio anche Candido Morigi e Giulio Correale, che certamente non si trovavano lì per caso. Sorreggevano Giovanni, che avevano  raccolto ammaccato e sanguinante sotto la finestra, e lo adagiarono su una poltrona. Mi accorsi che, nel far questo, non mancavano di dare qualche strattonata supplementare e qualche calcetto non richiesto negli stinchi del malcapitato, provocandone altre sofferenze ed altri lamenti. I due poi si dedicarono a Luisa, che riuscirono a calmare e a riportare via.
  Infine restammo soli io e Giovanni: lui che continuava a lamentarsi delle ammaccature e dei dolori che avvertiva in tutto il corpo, io, ancora mezzo nudo e steso per terra, che non riuscivo ad infilare quei benedetti pantaloni. Poi mi avvicinai a lui e  cercai di consolarlo. In fondo non ci potevamo lamentare: alla fin fine io ci avevo rimesso solo un paio di pantaloni nuovi e lui ci aveva rimesso solo una fidanzata. Poteva anche andare peggio.
Ezio Scaramuzzino