giovedì 26 luglio 2012

Esami di maturità (Racconto) di Ezio Scaramuzzino



Per tanti anni il mio incubo ricorrente sono stati gli esami di maturità. Sognavo di fare gli esami e poi, quando andavo a vedere i risultati, mi accorgevo di essere stato bocciato. Oppure mi trovavo allo sportello di qualche ufficio e l’impiegato mi chiedeva il certificato. Lo cercavo e mi accorgevo che in realtà io non avevo mai superato quegli esami. Qualche volta mi svegliavo, contento di constatare che era stato solo un brutto sogno. In realtà gli esami di maturità sono stati veramente una gran paura, forse una delle prime grandi paure della mia vita.
Fu il 1962 l’anno dei miei esami: USA e URSS si minacciavano a vicenda durante la crisi di Cuba, l’Italia giocava in Cile i mondiali di calcio e si faceva eliminare ingloriosamente, Gianni Morandi cantava dicendo di andare a cento all’ora, nei cinema si proiettava Divorzio all’italiana di Pietro Germi.
Da tanti anni mi alzavo ogni mattina alle sei , per prendere l’autobus che mi portava a Crotone al Liceo Pitagora, e la cosa non mi era mai pesata più di tanto. Ma in terza Liceo i miei stabilirono che non dovevo  più stancarmi, per poter arrivare fresco agli esami, e così mi misero a pensione presso un’ anziana vedova, donna Veneranda, che ricordo ancora con affetto per quanto era premurosa  e gentile nei miei confronti. Viveva sola in un piccolo e modesto  appartamento e  mi accolse solo perché conosceva mia madre e, a quel che capii, intendeva sdebitarsi per qualche favore ricevuto ai tempi lontani della guerra.  Lavorava sempre ai ferri e, quando mi vedeva rientrare, mi invitava a fermarmi e poi incominciava a pormi delle domande.  Non mi chiedeva mai come andassi a scuola. Voleva invece sapere  se il cibo che mi preparava era di mio gradimento, se dormivo bene la notte, se sentivo freddo nella mia stanza e immancabilmente finiva col chiedermi se ero “regolare di corpo”. La rassicuravo con un sorriso e lei si sentiva tranquilla e soddisfatta.
Verso il mese di Febbraio pagai anche io il mio tributo ad una prassi ormai consolidata ed indiscutibile: in terza Liceo, per arrivare preparati agli esami, bisognava andare a scuola privata. Mia madre mi chiese se avevo bisogno di qualche ripetizione e io le dissi che non ne avvertivo alcuna necessità. Mi accorsi di averla delusa, perché lei si sentiva  in colpa se non poteva fare quel che tutte le famiglie facevano. Per non deluderla ulteriormente, cercai di capire in quale materia avrei comunque potuto giovarmi di qualche approfondimento e mi accorsi che in Fisica qualcosa non mi era del tutto chiara. E così un paio di volte alla settimana mi ritrovai insieme con altri venti ragazzi a seguire un corso pomeridiano di Fisica presso un vecchio insegnante, brava persona, ma che non poté fare più di tanto, perché, dato il numero elevato di partecipanti, le lezioni pomeridiane si risolsero in una stanca ripetizione delle lezioni mattutine.
Poi, verso la fine di Maggio, iniziò un altro rito tribale: quello delle raccomandazioni. Allora, come oggi, come sempre in Italia, non si andava agli esami senza una qualche raccomandazione. Anche i miei, come in tante famiglie, come in tutte le famiglie, mi chiesero se avevo bisogno di qualche raccomandazione e io risposi semplicemente e banalmente che non ne avevo bisogno. Mi accorsi che si sentirono tutti rinfrancati, perché, nonostante tutto, nonostante la disponibilità, la mia era una famiglia semplice, dove si avvertiva profondamente il disagio di un’azione riprovevole, che avrebbe comportato umiliazioni e sotterfugi.
E finalmente venne il giorno degli esami. Si facevano allora  quattro prove scritte, Italiano, Latino-Italiano, Italiano-Latino, Greco-Italiano.  A distanza di tanti anni ricordo ancora la traccia del  tema d’Italiano: Il sentimento dell’infinito nella poesia leopardiana. Svolsi il tema con passione e con grande intensità emotiva, perché Leopardi era, come sarebbe stato, il poeta della mia vita. Rilessi il tema tante volte, prima della consegna, tanto che, arrivato a casa, riuscii a trascriverlo senza alcuna difficoltà:semplicemente l’avevo imparato a memoria. La versione dal Latino era un brano di Tacito, che ormai non viene più dato agli esami di maturità, perché considerato un autore troppo difficile. Dall’Italiano in Latino traducemmo un pensiero di Guicciardini e dal Greco un brano di Polibio, particolarmente ostico.
              Agli orali si portava tutto il programma dell’ultimo anno, oltre a parti di programma dei due anni precedenti, con interrogazioni nelle singole materie. In Italiano, ad esempio, fui interrogato solo sull’Inferno, che avevo studiato in prima Liceo, invece che sul Paradiso, che avevo studiato in terza.
La notte prima degli esami, sia scritti sia orali, non andai al cinema, perché al mio paese c’era un solo cinema, che ogni tanto rimaneva chiuso  a tempo indeterminato; non andai a spassarmela con una ragazza, perché il costume del tempo, almeno nei paesi, non consentiva un simile spasso; non andai in giro con l’auto, perché  non possedevo un’auto; non cercai di avere qualche dritta sulle tracce navigando in Internet, perché allora, semplicemente, non esisteva Internet e non esistevano nemmeno i computer; mi limitai  a studiare e a ripassare per l’ennesima volta il programma d’esame. Allora era normale essere bocciati alla maturità, anche a Settembre, agli esami di riparazione, ed era considerato normale anche ripetere l’esame due o tre volte.
In seguito, anche all’Università, mi è spesso capitato di perdere l’appetito per due o tre giorni prima di un esame, ma quella volta, prima della Maturità, credo di aver avuto difficoltà con il cibo per almeno una settimana. Ricordo in particolare che la mattina degli orali, poco prima di essere chiamato, ebbi un conato di vomito, che mi costrinse a rifugiarmi in un bagno, dove riuscii ad eliminare solo della schiuma biancastra, l’unica cosa rimasta nel mio stomaco sconvolto.

L’esame  andò bene. Avevo fatto delle buone prove scritte e all’orale, che si svolgeva in due fasi, gli esaminatori, dopo le prime domande, cui risposi con disinvoltura, incominciarono a chiedermi argomenti fuori programma, perché avevano voglia di  rompere la monotonia delle domande ricorrenti. La novità  destò l’attenzione di alcuni  ragazzi, che si avvicinarono al tavolo degli esami, spinti dalla curiosità e dalla voglia di fare quasi il tifo. Fui interrogato sui miei gusti musicali e cinematografici e finii col divertirmi anche io. Ma, appena uscito, fui costretto a correre un’altra volta in bagno, anche se per motivi diversi da quelli della prima volta.
              La tensione dell’esame  si era sciolta e mi sentivo ormai tranquillo e rilassato, ma, assieme alla tensione dell’esame, si era sciolta anche la tensione che fino a quel momento aveva inesorabilmente bloccato la mia povera vescica, ormai libera di reclamare i suoi diritti. Mi misi quasi a correre verso un bagno e alla svolta di un corridoio travolsi rovinosamente il Preside Bellusci, che non ero riuscito ad evitare. Il mitico Preside Francesco Bellusci, che con la sua “cara e buona imagine paterna” aveva accompagnato generazioni di studenti del Liceo Pitagora di Crotone verso il traguardo degli esami di maturità. In tanti anni non lo avevo mai sentito imprecare, ma quella volta, nel mentre mi rialzavo da terra dove entrambi eravamo finiti, feci in tempo a sentire la sua voce baritonale e arrochita dal fumo che gridava “Minerale!”, come egli era solito chiamare gli studenti scavezzacollo.
Senza preoccuparmi di lui, ripresi a correre a precipizio ed infilai per la fretta  un  vicino bagno femminile, incrociando una ragazza, che mi guardò  allarmata. Non richiusi nemmeno la porta. Mi sentivo felice finalmente. Forse più per la liberazione della mia vescica, che per la liberazione dalle mie paure  e per l’esame felicemente superato.
Ezio Scaramuzzino