domenica 16 dicembre 2012

Mamma Pina (Racconto) di Ezio Scaramuzzino







I casini furono definitivamente chiusi in Italia alla  mezzanotte del 20 settembre 1958. Non fosse altro che per motivi di età, non feci in tempo a frequentarli, ma essi fecero parte del mio immaginario e certamente alimentarono le fantasie sessuali, e non soltanto quelle, di tanti giovani della mia età. I casini  avevano fatto parte del costume quotidiano, come la parrocchia o la caserma dei carabinieri, e la loro chiusura non fu senza conseguenze nella mente e nel cuore di tante persone.
La mia prima conoscenza sull’argomento si formò grazie ai racconti degli studenti universitari del paese. Questi, quando  ritornavano a casa a Natale, a Pasqua e durante l’estate, si soffermavano con dovizia di particolari  sulle arcane  delizie di quegli ambienti. La mia presenza era appena tollerata, data la differenza di età, e tante volte venivo allontanato senza troppi riguardi, specie quando i racconti  si apprestavano a diventare particolarmente scabrosi. Io facevo finta di andarmene, giravo un po’ al largo, ma poi approfittavo della distrazione di tutti  e a poco a poco mi riavvicinavo. Finché qualcuno non se ne accorgeva e un’altra volta venivo allontanato.
In questo andirivieni e con l’ascolto smozzicato di tanti fatti, le mie idee risultarono abbastanza  confuse. Soltanto una  cosa  mi sembrò sicura e inconfutabile: quelle case dovevano essere un luogo di piaceri proibiti, ai quali anche io, un giorno, forse, mi sarei avvicinato.
Divenuto un po’ più grandicello, ma non abbastanza per avervi accesso, fui erudito in merito da Peppe Nuccà, proiezionista nell’unico cinema del paese. Egli era un mio grande amico, nonostante la differenza di età, e  spesso mi consentiva  di vedere i film a sbafo su uno scomodo sgabello posizionato nella cabina di  proiezione. Tra le tante cose che lo distinguevano, una, in particolare, mi colpiva e mi incuriosiva: egli era un grande frequentatore di casini, tanto che, diceva, non riusciva a starne lontano per più di due o tre giorni.
 Mi teneva costantemente al corrente delle sue visite nell’unica casa chiusa  della zona, che poi era situata a Crotone, in  luogo discreto e appartato, ed era gestita da una tenutaria, Giuseppina Balestrieri o Mamma Pina, come egli preferiva chiamarla e come la chiamavano quasi tutti. I suoi racconti sembravano dei bollettini di guerra: aveva assaltato Ines che veniva da Torino, aveva annientato Tonina che veniva da Napoli, solo una volta aveva operato una ritirata strategica con Paola che era una profuga istriana. Io capivo poco di queste tattiche amatorie, ma prendevo per oro colato tutto quello che diceva e soprattutto sentivo un’ammirazione sconfinata per le sue gesta.
Mamma Pina era un’ ex prostituta che aveva deciso di mettersi in proprio. Pesava non meno di un quintale e, da un angolo della sala d’ingresso, dove sotto un baldacchino era situato il suo posto di comando, sorvegliava  e dirigeva con autorità e dolcezza quel  mondo variegato che gravitava intorno alla sua “casa”. Accoglieva tutti i clienti con premura e si arrabbiava solo con i “cacaniente”, come lei li chiamava, cioè  quelli che, dopo  aver indugiato  a lungo nella sala d’aspetto, se ne andavano senza aver “consumato”.
Mamma Pina in quell’ambiente era come una sepolta viva e usciva solo una volta ogni quindici giorni, quando, in una lunga carrozza trainata da due cavalli, esibiva nelle strade della città i nuovi arrivi, la cosiddetta quindicina. Girando su quella carrozza, sotto un ombrellino che proteggeva dai raggi del sole la sua carne abbondante e bianchissima, aveva lo sguardo perso nel vuoto e faceva finta di non conoscere nessuno, per evitare imbarazzi,  esperta com‘era di tanti segreti della  città e di come girava il mondo.
Peppe mi parlava di lei con una sorta di venerazione, raccontandomi di come ella avesse preso a ben volerlo. Un giorno mi fece vedere un tesserino speciale, una sorta di abbonamento, che gli consentiva di usufruire delle prestazioni della “casa” a prezzi speciali.
Mamma Pina faceva ormai parte del mio mondo e una notte arrivai addirittura a sognarla, pur senza averla mai vista. Grassa, ma con un volto bellissimo e dolcissimo, con un vestito che la ricopriva fino ai piedi, mi faceva cenno di avvicinarmi  e mi prendeva per mano. Ero in un  luogo sconosciuto, in una stanza che  non avevo mai visto prima e dietro un tramezzo lei  mi affidava ad una fanciulla bionda e con gli occhi azzurri. Mi svegliai con l’amara e dolce consapevolezza che era stato soltanto un sogno.
Peppe mi parlava anche delle prostitute, chiamandole per nome, come  fossero sue amiche. Quei nomi sconosciuti, a volte strani, a volte dal vago sapore esotico, Ines, Gilda, Doris, quei nomi chiaramente fittizi, come  era d’uso in quel mondo, riempivano di frequente le notti di Peppe, oltre a riempire i racconti che egli me ne faceva e le mie fantasie.
Ma quel mondo stava per finire. Una sera Peppe, con un tono da funerale, mi disse che i casini stavano per chiudere, definitivamente. Per quanto mi riguardava, capii subito che  non avrei fatto più in tempo a conoscerli. Peppe mi aggiunse che il sabato successivo, cioè l’ultima notte, al casino di Mamma Pina ci sarebbe stata una festa d’addio. A quella festa  partecipai pure io, approfittando della complicità di Peppe e soprattutto della confusione che inevitabilmente allentò ogni forma di controllo. Sarebbe stata per me la prima ed insieme l’ultima volta. Quando verso le dieci di sera io e Peppe riuscimmo ad entrare, facendoci largo con qualche spintone, trovammo la sala d’attesa strapiena, con tutte le “ragazze” liberamente mescolate agli intervenuti.
Quella sera nessuno pagò la marchetta e non la pagai nemmeno io, non perché ci fossero i saldi di fine stagione, ma soltanto perché un paio di “ragazze”, alle quali pure  avevo avuto il coraggio di avvicinarmi, mi squadrarono bene in volto e  si accorsero subito  della mia minore età, respingendomi inesorabilmente.
 A mezzanotte in punto una forte scampanellata  richiamò l’attenzione di tutti. Quelli che ancora indugiavano ai piani superiori scesero nella sala d’attesa a pianterreno e nel silenzio generale si sentì la voce di Mamma Pina.  La quale dalla sua postazione, con un bicchiere di champagne in mano ed in preda ad un’evidente e forte emozione, disse parole d’addio. Si rivolse prima di tutto alle sue “ragazze”, chiamandole per nome, tutte, ad una ad una. Le ringraziò, poi le abbracciò. Tutte erano commosse e su qualche volto scorrevano le lacrime. Poi si rivolse ai clienti, a  quelli che lei si ostinava a definire i suoi “figli”, chiedendo scusa per quello che era successo e garantendo  che tutti sarebbero rimasti nel suo cuore. C’era un’atmosfera triste e malinconica quella sera, un’atmosfera da ultimo giro di valzer sul ponte del Titanic.
Qualche tempo dopo mi ritrovai a passare per quei luoghi dove una volta si trovava la “casa” di Mamma Pina. Sulla porta d’ingresso pendeva una tenda scacciamosche intrecciata  con perline di metallo e in alto si poteva vedere l’insegna di un parrucchiere. Era estate e il sole picchiava alto nel cielo. Una finestra aveva le tapparelle rialzate, quelle stesse tapparelle che una volta erano ostinatamente chiuse, per una questione di pudore, si diceva. Un’anta della finestra era leggermente aperta e sui vetri si riflettevano delle ombre, ombre e fantasmi di fanciulle che si muovevano all’interno. Credetti di rivedere in quelle ombre le Ines e le Doris di una volta, credetti di rivedere Mamma Pina.  Mi fermai ad osservarle, fino a quando qualcuno si accorse di me, richiuse l’anta e quelle ombre svanirono, come d’incanto. Stentai a ridestarmi da quel sogno e mi ritrovai  a dire con un sussurro, quasi con un filo di voce: ”Mamma Pina, dove sei? Ines, Doris, Gilda, Francesca, Paola, dove siete?”.
Ezio Scaramuzzino


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