martedì 25 dicembre 2012

Tra canti e bevute(Racconto) di Ezio Scaramuzzino




Pubblicato su KAIROS di Dicembre 2012. In un mondo ormai scomparso, la storia di Bebè, chitarrista girovago.



C’è una terra, nel centro della Calabria, poco conosciuta e comunque lontana dai grandi flussi del turismo di massa. E’ la Presila del Marchesato di Crotone, terra che continua a profumare dei boschi delle montagne vicine, ma che già prende in faccia l’aria salmastra che le giunge dalla costa  ionica ancora  lontana. Qua le persone a prima vista sembrano scostanti e dure come il paesaggio che le accoglie, a metà strada tra la dolcezza delle colline circostanti e l’asprezza della macchia mediterranea.  
Mio padre, un tempo,  andava  abbastanza spesso da quelle parti per alcuni suoi commerci di olio e mi portava spesso con sé. Al rientro ci si fermava immancabilmente  lungo la strada in un punto di ristoro al bivio Lenza. Si trattava allora di una stanzuccia dalle pareti  annerite e scrostate, con un bancone di tavole, al quale veniva servito quasi esclusivamente  del vino. Unica concessione era  la spuma, che qualcuno soleva aggiungere al vino, per allungarlo ed illudersi così di berne un po’ di più. Su un lato del bancone facevano bella mostra di sé un paio di vasi in vetro con caramelle di rabarbaro e menta. Non vi era acqua corrente ed i bicchieri venivano risciacquati in un catino colmo d’acqua. La modernità aveva portato però un freezer per i gelati, sempre scarsi e male assortiti.
E questo ambiente diventava spesso lo sfondo, nel quale vari attori  si avvicendavano ad interpretare dei ruoli  sul palcoscenico della vita. Ogni occasione era buona per fare un po’ di musica   e  cantare: erano  voci  apprezzabili, seppur non educate al canto. Contadini e piccoli artigiani, vestiti ancora dei panni di lavoro, erano accomunati dal piacere di stare assieme e da un bicchiere di buon vino prodotto dallo stesso oste. Si vedevano  omaccioni, dalle mani rudi e dai volti paonazzi, che si commuovevano quasi nel cantare  Calabrisella mia. A me faceva impressione tutto ciò, perché in precedenza non avevo mai visto degli uomini piangere e soprattutto perché non riuscivo a capire che cosa ci fosse da piangere. Non sapevo che era ancora vivo in queste persone il ricordo degli stenti, che li aveva talvolta  obbligati ad emigrare oppure  a scendere verso la  costa, fertile e paludosa, per ritornarne spesso  febbricitanti di malaria.
Qui, qualche volta, era possibile incontrare Ciccilluzzo di Mesoraca, artista girovago che non perdeva mai occasione per esibirsi. Si dava un’occhiata intorno e, se erano presenti almeno due o tre persone, saliva subito su una sedia, richiamava l’attenzione dei presenti e incominciava a recitare filastrocche  e scioglilingua che solo lui conosceva. Alla fine della recita scendeva dal suo piedistallo e chiedeva dieci lire. “M’e ‘ddu’ dece lire?”, diceva, non con l’aria di chi chiede l’elemosina, ma con l’atteggiamento di chi chiede il giusto compenso per     un’ esibizione artistica.
Un tale, paralitico da anni, se ne stava per l’intera giornata in un angolo, seduto su una  sedia a rotelle rabberciata alla meglio, con davanti il bicchiere sempre miracolosamente pieno, dove intingeva dei biscotti  vecchi, ormai rinsecchiti e duri come granito. Amava continuamente ripetere il famoso detto “vuota il bicchier ch’è pieno, empi il bicchier ch’è vuoto, non lo lasciar mai pieno, non lo lasciar mai vuoto”. Infine, nell’ultimo mezzo bicchiere da svuotare, prima di tornarsene a casa, risciacquava meticolosamente la dentiera. E io mi chiedevo a cosa gli potesse servire quella dentiera, che egli  teneva perennemente sul tavolo.
C’era poi lo spaccone, tale Lillo, pronto sempre a scommettere su qualsiasi cosa e che nel presentarsi amava ripetere: “Piaceri, Lillu, chi previt’ un si ficia”. Messo in seminario dalla famiglia che sperava di trovargli così una buona occupazione, si era fatto cacciare per aver combinato non si sa bene quale diavoleria. Fra le sue tante scommesse, famosa  quella in cui si era detto capace di mangiare un grillo vivo. La vinse, dopodiché, rivolgendosi al grillo che aveva appena inghiottito, disse: “Tardi cantasti, griggru!”.
Iniziavano poi grandi discussioni che coinvolgevano un po’ tutti, nelle quali ognuno riferiva cose per sentito dire e le sosteneva con determinazione. Il gestore del locale, un tale alto un metro e mezzo, detto semplicemente “il tappo”, se ne venne fuori una volta sostenendo che la terra era piatta e che chi sosteneva il contrario era semplicemente un idiota. In modo accanito cercava di dimostrare che, sì, insomma… proprio piatta, piatta… no, non lo era; certo, ci si poteva trovare qualche bitorzolo, qualche dosso più o meno alto, ma che tutto poteva essere, tranne una palla. I più si limitavano a sorridere di fronte a tanta ostinazione, ma un giorno un tale, non informato delle sue manie, prese a far polemiche. Al che  “il tappo” rispose che lì  il padrone era lui e che, se uno pensava che la terra fosse tonda, quella era la porta ed era  invitato ad accomodarsi fuori.
Il più atteso, comunque, era Bebè, perché portava la chitarra. Abitava in una casupola fuori dal paese di Roccabernarda, con un fazzoletto di terra attorno, dove, non si sa per quale motivo, il pollaio era stato posizionato in modo che le galline dovessero per forza attraversare la cucina, per andare a scorrazzare all’aperto. La moglie era una cuoca provetta, per la verità poco interessata alle regole igieniche, al punto che, mentre spianava la sfoglia sul tavolo, doveva mandar via le galline che venivano a zampettarci sopra. D’altra parte, da lì dovevano passare per entrare ed uscire dal pollaio!
La chitarra di Bebè era mitica. Fatta artigianalmente da lui stesso, riportava i segni del tempo e delle sbornie ed i vari sfondamenti venivano di volta in volta rattoppati con pezzi di compensato, talchè  la cassa armonica era costellata di toppe. Il pezzo forte di Bebè, spesso richiesto, era Rosa, risbìgghiati. Lui non si faceva pregare due volte e la intonava accompagnandosi con la chitarra, dandosi il ritmo con qualche colpetto della mano sulla gamba d’appoggio. Era un canto di sdegno per l’amata Rosa e Bebè la cantava con passione, concludendo “Faccia di piru cottu, di pumadoru sfattu, dimmi chi t’haiu fattu ca nun mi guardi cchiù”. Bebè aveva imparato a suonare la chitarra quando era militare, guardando di nascosto un suo commilitone, che non solo si era rifiutato di insegnargli a suonarla, ma che si nascondeva per impedirgli di vedere.
Ma una notte di Gennaio Bebè fu atteso invano a casa dalla moglie. Faceva molto freddo ed in cielo risplendeva una luna piena che rischiarava in parte le ombre che si aggiravano nel buio. Dopo aver suonato e bevuto a lungo con gli amici, sulla strada del ritorno a casa Bebè si sentì stanco e affaticato. Decise di fermarsi un attimo, solo un attimo, a sedere su una panchina illuminata dalla debole luce di un lampione. Ma la stanchezza lo sopraffece ed egli si addormentò. Il gelo della notte, che forse era in cerca di qualche preda, lo sorprese indifeso  su quella panchina e  lo avvolse. Alle prime luci dell’alba un passante lo vide ricoperto di brina, con gli occhi chiusi, e lo scosse un pochino, per ridestarlo. Bebè si piegò lentamente da un lato, riverso, e finì per appoggiare il volto, quasi come in un ultimo abbraccio, sul manico di quella sua chitarra che egli aveva allacciato a tracolla.
Al suo funerale vennero  in molti, anche dai paesi vicini, perché Bebè era benvoluto. Tutti, con il vestito buono ed il cappello stretto in mano, sfilarono ordinatamente davanti alla bara e  trattennero a stento la commozione che si manifestava in un leggero tremolio del labbro. Mai più Rosa avrebbe ascoltato parole di sdegno, mai più la chitarra rattoppata avrebbe accordato le note di Calabrisella mia.
Finite le esequie in Chiesa, il funerale si avviò verso il piccolo cimitero con il cancello cigolante sempre aperto e, prima che la tomba fosse richiusa, i compagni di brigata intonarono, a mo’ di canto di rispetto, l’ultimo addio a Bebè, ricordandone in rima le qualità di uomo, di amico e di musico, come si conveniva ad un personaggio quale egli era stato nel suo piccolo mondo. Gli amici Scintilla e Disturbo cantarono le ultime battute:

Bebè, tu ch’eri amicu di vivute,
tu ni lassasti e po’ ti ‘ndi si’ gghiutu.
Mo’ cu ri  santi certu ti ‘ndi stai,
for’ i da vita e for’ i nostri guai.

Le lacrime, faticosamente trattenute fino ad allora, riempirono gli occhi dei presenti, commossi dalle parole che ricordavano il caro Bebè.

Ezio Scaramuzzino

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