martedì 29 gennaio 2013

Voglia di mamma(Racconto) di Ezio scaramuzzino




I
A Scandale solo pochi  anziani ricordano ancora il caso, lo scandalo del 1950, perché pochi allora riuscirono a saperne qualcosa di concreto e quei pochi ne parlarono pure a bassa voce. Mai in precedenza si era verificato il caso di una ragazza madre e, quel che è peggio, mai ci si sarebbe aspettati che una cosa del genere avvenisse in una delle migliori famiglie. E invece avvenne, proprio in una famiglia timorata di Dio e nella quale il rispetto del decoro era considerato un principio sacro ed inviolabile.
         Era successo che nella famiglia Bontempo la seconda figlia, Ermelinda, destava qualche preoccupazione nei genitori per la sua estrema vivacità. Il ragioniere Bontempo, segretario capo nel locale Ufficio Comunale, non poteva sopportare ad esempio che la figlia ritornasse da scuola ogni giorno da Crotone, avendo tra i piedi Pinuccio, figlio di contadini. Era pur vero che Pinuccio era molto bravo a scuola, mentre Ermelinda  con il suo carattere da svampita non riusciva altrettanto bene, ricorrendo quindi spesso all’aiuto del suo amichetto, senza del quale si sentiva perduta: ma a tutto c’era un limite. I coniugi Bontempo inoltre non sopportavano che, con la scusa dei compiti, i due ragazzi si chiudessero qualche volta a chiave nello studio di casa: anche a questo bisognava porre  un rimedio. 
E siccome quel rimedio non si  riusciva a trovarlo ed ogni loro ammonimento sembrava inutile, i due presero una decisione drastica: Ermelinda avrebbe sì frequentato il Liceo a Crotone, ma avrebbe abitato dalle suore, con espresso divieto di incontrare il suo amico. Ma essi non avevano fatto i conti con la forza degli ormoni, che possono talvolta essere deviati o frastornati, ma che, prima o poi, inevitabilmente, ritornano quasi sempre a centrare il loro obiettivo.
I due amici, ormai cresciutelli, avevano diradato i loro incontri, ma non avevano alcuna intenzione di rinunziarvi. Certo non potevano più stare assieme nel pomeriggio a fare i compiti, certo le suore non consentivano che Ermelinda uscisse da sola, ma le suore non potevano avere cento occhi e soprattutto non potevano coprire con la loro vigilanza tutte le ventiquattro ore della giornata. Quando per un motivo o per l’altro non si faceva scuola, e la cosa non era infrequente, i due si incontravano e  trascorrevano insieme ore meravigliose. Gli esami di maturità, ormai prossimi, non li distoglievano dai loro incontri e qualcuno ebbe la felice idea di  avvisare il ragioniere Bontempo. Ma  ormai era  troppo tardi.
Ermelinda era incinta. All’inizio ebbe solo qualche sospetto, ma quando si convinse  che il ritardo  era ormai da considerarsi eccessivo e che non era paragonabile a quanto già altre volte le era successo, si risolse a confidarsi con la madre. La quale ebbe il terrore di rivelare la cosa al marito, sperando fino all’ultimo che si trattasse di un falso allarme. Ma, quando le analisi spazzarono via ogni illusione, con la morte nel cuore, gli spiattellò tutto.
Il ragioniere non gridò, non sbraitò e si prese solo qualche giorno di tempo per riflettere sulla cosa e decidere il da farsi. Ogni decisione toccava a lui, soltanto a lui che era il capofamiglia: gli altri avrebbero obbedito come sempre e nessuno nel paese avrebbe capito che qualcosa di terribile era avvenuto in quella famiglia. Anche Ermelinda, che pure in altre circostanze si era permessa di muovere obiezioni o di tenere testa al padre, questa volta non ebbe il coraggio di fiatare: in un pomeriggio di aprile, mentre tutt’intorno la natura sembrava svegliarsi ai primi tepori della primavera, lei, rassegnata e impotente, ascoltò la decisione del padre.
Di aborto clandestino non era proprio il caso di parlare, dal momento che esso era considerato peccato mortale dalla Santa Madre Chiesa. Ermelinda con una scusa qualsiasi si sarebbe trasferita a Catanzaro, dove il Bontempo godeva di qualche protezione e di qualche amicizia importante. Lì avrebbe  frequentato il Liceo, avrebbe sostenuto gli esami e avrebbe portato a termine la gravidanza, non riconoscendo però il figlio dopo il parto e consentendo che l’assistenza pubblica si facesse carico del mantenimento in vita di quello che, a tutti gli effetti, era da considerarsi solo “il frutto del peccato”. Quanto ad un eventuale matrimonio riparatore, l’ipotesi non fu  nemmeno presa in considerazione, dal momento che  la persona in questione, pur intelligente, era notoriamente un morto di fame, figlio di morti di fame e certamente destinato a restare un morto di fame.
II
La sveglia segnava le quattro  ed il suono insistente strappò Paolino violentemente dal sonno. La bocca impastata, la testa ancora occupata dai brandelli dell’ultimo sogno, un brivido di freddo  che gli correva lungo la schiena: tutto questo gli suggeriva di rimanere ancora al calduccio del letto. Difficile a soli dodici anni comandare alle gambe esili di scendere dal letto a quell’ora del mattino, quando ancora tutto era avvolto dalle ombre della notte, ma il richiamo del padre lo convinse che non era proprio il caso di indugiare.
La camera, dove dormiva insieme con tanti fratelli, odorava leggermente di stalla: ogni letto ne ospitava un paio.  A tentoni, inciampando nelle scarpe abbandonate a terra in modo disordinato, Paolino raggiunse la cucina, dove sperò di risvegliarsi  con un po’ di acqua gelida sul viso. Il frammento di specchio, appeso alla parete, gli rimandò l’immagine di un animaletto arruffato, dallo sguardo acquoso, dal ciuffo ribelle che non voleva  proprio saperne di rimanere abbassato e dalla strana voglia scura, dalla particolare forma a virgola, stampata proprio sulla guancia destra. Pur non avendo consapevolezza piena della sua condizione, egli avvertiva intimamente un senso di ingiustizia. Perché a lui erano negati  i giochi, la scuola, la compagnia dei ragazzini della sua età? Era giusto che la vita gli portasse via gli anni  spensierati, le energie che avrebbe al massimo dovuto  sprecare in una inutile corsa a perdifiato?
Il padre  lo sollecitò ancora  a sbrigarsi. Il ragazzo indossò velocemente i panni del giorno prima, infilò il berretto calcandolo per bene fino agli occhi, agguantò al volo una mela e si chiuse dietro l’uscio. Ogni giorno la stessa storia, ogni giorno la stessa vita, da un tempo che gli sembrava simile all’eternità. Suo padre aveva un banco da ambulante di frittelle che spostava di mercato in mercato, di fiera in fiera ed egli  lo seguiva per aiutarlo. Il furgone traballante lo cullava e spesso gli consentiva di addormentarsi di nuovo e di recuperare un po’ del sonno perduto. Quel giorno, giunti a destinazione, montarono velocemente l’attrezzatura, come sempre, in un rituale che non conosceva novità.
In breve tempo l’odore acre delle frittelle, che sfrigolavano nell’olio bollente, invase l’aria e si confuse con un odore dolciastro che proveniva  dal banco vicino. La pila dei foglietti di cartapaglia che servivano per incartare le frittelle, il secchio di zinco che lo conteneva: tutto era al proprio posto e, dato che ancora non era cominciato il giro dei clienti, Paolino chiese a suo padre il permesso di allontanarsi a fare un giro. La fiera di Mulerà, quella in cui si trovava, era grande e importante e la cadenza annuale, ogni primo di Settembre a Roccabernarda, la faceva diventare un vero e proprio evento di richiamo per gli abitanti di tutti i paesi vicini.
I banchi esponevano merce di vario tipo ma  erano quelli dei giochi ad attirare di più la sua attenzione. Trenini di legno che trasportavano la sua  fantasia in viaggi avventurosi per terre sconosciute, macchinine di latta di vari colori delle quali si poteva immaginare il rombo assordante nell’impazienza di partire per una gara fantastica, intere guarnigioni di soldatini di piombo a difesa di castelli incantati. Dato che non poteva permettersi di comprarli, riusciva a farli suoi e a giocarci con la sua fantasia.
Preso com’era da tali e tante fantasticherie,  Paolino non si accorse che il tempo era trascorso. Lo avvertì dal movimento di persone   nel frattempo  aumentato, dalle gomitate di chi, ingombro di pacchi e mercanzie varie, cercava di farsi largo per trovare spazio nella calca. Allora, temendo i rimproveri del padre, cercò di affrettarsi sgusciando fra le persone, facendosi spazio con le braccia magre nella folla, come nuotando in un mare in tempesta. Le scarpe, troppo grandi per i piccoli piedi che dovevano contenere, gli fecero il brutto scherzo di farlo cadere, così che si trovò a terra, con un ginocchio sbucciato che sanguinava. La ferita quasi non si vedeva, tanto era ricoperta di terra. Ma  un rigagnolo di sangue cominciò a scendere lungo la gamba e  lui rimase lì per terra, quasi inebetito e disorientato, non trovando lo spazio e la forza per rialzarsi.
III
Nel giro di pochi istanti una giovane signora ben vestita si accovacciò per aiutarlo a rialzarsi e, con quel gesto spontaneo che accomuna tutte le mamme del mondo, prese un fazzolettino dalla borsetta, lo bagnò di saliva e lo appoggiò sulla ferita, cercando di ripulirla. Un gesto da nulla, ma di un’intimità e di un affetto che lo lasciarono senza fiato. La dolce signora lo strinse per un attimo fra le braccia quasi a volerlo consolare e rassicurare ed egli respirò intensamente l’odore che ella emanava: un odore di pane e di latte, di lisciva e di salvia, di biscotti appena sfornati e di caffè, di violetta, di talco, di casa…! Poi, con lo stesso fazzoletto usato per ripulire la ferita, la signora gli asciugò la faccia dai lacrimoni che  si ostinavano a scendere lungo le guance. Solo allora ella vide la voglia dalla particolare forma a virgola sulla guancia del bimbo e  impallidì.
Pensieri e ricordi assalirono la sua mente e la fecero tornare indietro, a  dodici anni prima, quando quel bambino le era stato strappato, perché  considerato dalla sua famiglia una vergogna da nascondere. Lei aveva  potuto stringere quel bimbo per un solo attimo fra le braccia, prima che fosse  affidato alla pubblica assistenza. Lei avrebbe dovuto solo dimenticare quello che suo padre definiva “un piccolo incidente”, capace di macchiare il buon nome e l’onore della famiglia.
Ma ora, a distanza di dodici anni, quel “piccolo incidente” l’aveva guardata  e lei aveva guardato lui, cercando di imprimere nella mente i più piccoli dettagli della sua fisionomia.  E fra questi dettagli  spiccava quella particolarissima voglia scura a forma di virgola sulla guancia destra.  Lei avvertiva confusamente dentro  di sé che quello sguardo li avrebbe  legati per il resto della vita , qualunque fosse stato il loro destino, lo stesso destino che quel giorno li aveva   fatti incontrare di nuovo.
La signora si curvò ancora di più sul bambino, quasi a volerlo proteggere dall’irruenza della folla, poi si alzò lentamente, sorreggendolo tra le sue braccia. Una lacrima calda e liberatoria, una sola, prese a scorrerle lungo la guancia ed andò a mescolarsi a quelle, in parte asciugate e rapprese, del figlio.
Qualcuno si accorse di quello strano gruppo, che cercava di avanzare e istintivamente si scostò per fare largo. Altri, cercando di capire che cosa fosse successo, si unirono a quel gesto gentile. Si poté vedere un piccolo corridoio che si formava davanti alla signora che procedeva con il bambino in braccio e si richiudeva subito dopo alle sue spalle. Lei continuava ad avanzare, pur senza una direzione precisa: sapeva solo che da quel giorno la sua vita non sarebbe stata più la stessa di prima.
Ezio Scaramuzzino

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