lunedì 29 aprile 2013

Una strana coppia (Racconto) di Ezio Scaramuzzino



In un giorno di Primavera verso la fine degli anni Cinquanta al Bar Centrale si presentò uno sconosciuto. Era una persona matura, dall’età indefinita, ma aveva per certo l’atteggiamento e i modi di un pensionato. Portava un vistoso anello al dito, presumibilmente d’oro, con un quadrante nel quale apparivano incastonate delle pietre preziose e, vicino a quell’anello, l’unghia del dito mignolo  incredibilmente allungata. Lo sconosciuto salutò con un sonoro “Buon giorno”, destando un po’ la meraviglia dei presenti, non abituati  a sentire dei saluti in quel bar, dove tutti entravano ed uscivano senza troppe formalità. Poi si diresse al bancone e chiese una birra, che sorseggiò lentamente, mettendosi quindi a sedere   in una posizione defilata, sulla veranda che dominava la piazza circostante. Ordinò  un’altra birra e, tra un sorso e l’altro, estrasse un astuccio nel quale era riposto  un pacchetto di sigarette Camel. Ne tirò fuori una, poi estrasse da una tasca interna un accendino che sembrava d’oro, accese la sigaretta e incominciò ad aspirare profonde boccate di fumo, che infine emetteva dalla bocca e dal naso con larghe volute.
I presenti incominciammo a seguire le sue lente e studiate movenze, dandoci qualche gomitata, un po’ perché eravamo incuriositi dallo spettacolo, un po’ perché ci interrogavamo a vicenda sull’identità dello sconosciuto. Il quale, alla fine della sua “esibizione”, si alzò lentamente, si diede una ripulita addosso, pagò alla cassa e, accennando un inchino nel confronti dei presenti, si avviò verso l’uscita, scomparendo ben presto al nostro sguardo.
Nessuno ancora sapeva niente di lui, ma non fu necessario attendere molto per saperne qualcosa. Già dopo un paio di giorni, ognuno in paese conosceva, o credeva di conoscere, l’identità del nuovo arrivato. Si chiamava Carlo  Turbide, o meglio don Carlo, come tenne a precisare lui stesso, dal momento che i suoi antenati, probabilmente di origine spagnola, erano stati tutti nobili e quindi potevano fregiarsi di quel “don”. Evidentemente egli ignorava che ormai nel Meridione quel titolo era del tutto svalutato e che a Napoli addirittura non lo si negava nemmeno agli spazzini, pur con tutto il rispetto per quella categoria   benemerita e utilissima a mantenere il decoro di ogni luogo abitato dagli umani. Comunque, anche in virtù della naturale gentilezza dei paesani nei confronti di chiunque si presentasse come ospite, tutti presero a riverirlo e ad omaggiarlo con quel titolo e si vedeva lontano un miglio che egli tenesse molto a darsi un certo tono. Si seppe inoltre che aveva comprato una villetta alla periferia del paese e che  vi aveva preso dimora  con una donna  più giovane, forse quarantenne, che egli presentava come sua moglie. Questa donna aveva tratti molto marcati e destava la curiosità della gente perché fumava in pubblico, cosa allora considerata disdicevole per una signora. I due non avevano parenti in loco, non avevano amici e molti si chiedevano  per quale strano gioco del destino  fossero finiti proprio nel nostro paese, che offriva scarse attrattive ed era difficilmente  rintracciabile anche  sulle carte geografiche.
Dopo qualche giorno si conobbe anche il motivo della scelta. Il Turbide diceva di essere stato per circa quaranta anni emigrato in Argentina, dove aveva fatto fortuna nel commercio delle carni,  incominciando da semplice garzone di macelleria. Diceva inoltre di essere venuto in contrasto con i Peronisti al potere e che pertanto, giunto all’età in cui normalmente si tirano i remi in barca, aveva deciso di ritornare in Italia. Dove, appena giunto, aveva sposato quella giovane donna, che considerava una sorta di investimento per la sua vecchiaia, per quando avrebbe avuto bisogna di qualcuno che lo accudisse e gli stesse accanto. Aveva poi scelto il nostro paese, un posto “appartato, tranquillo e lontano dalle procelle della vita”, come gli piaceva ripetere, dove contava di vivere serenamente gli ultimi anni della  vita e godersi le ricchezze accumulate.
I due facevano vita piuttosto ritirata e solo al Sabato li si vedeva sfilare in auto, una elegante Lancia Flavia, un vero lusso per quei tempi, diretti chissà dove, per essere di ritorno immancabilmente il Lunedì successivo. Il Turbide si limitava a fare solitarie passeggiate e solo di tanto in tanto amava farsi vedere con l’anziano  direttore del locale Ufficio delle Poste, con una frequentazione che aveva alimentato anche qualche diceria. Quel direttore  era notoriamente un massone, anzi era l’unico massone del paese, e quell’affiliazione non era allora ben vista, tanto che in molte famiglie si parlava di lui come di un losco figuro, capace di qualunque misfatto e di qualunque perversione. Quando il Turbide era giunto al paese, i due si erano cercati e ritrovati quasi istintivamente e quell’amicizia, nata in modo così spontaneo, aveva alimentato molte dicerie  su  di loro, facendo presupporre anche l’appartenenza dei due ad un’unica consorteria di ribaldi.
Il Turbide aveva inoltre un appuntamento fisso. Ogni venerdì, immancabilmente, si presentava alla ricevitoria del Totocalcio, dove alcuni giuravano di averlo visto scommettere cifre favolose. E fu proprio questa sua passione per le scommesse che un bel giorno lo indusse a mettersi  in contatto con me. L’eccessiva differenza di età e la mia cronica mancanza di soldi non mi inducevano di certo a pensare che prima o poi avrei potuto stabilire una qualche relazione con lui. Inoltre avevo nei suoi confronti una certa diffidenza, alimentata prima di tutto dal suo contegno altezzoso, che mi induceva peraltro a nutrire nei suoi confronti un cordiale disprezzo, ma alimentata anche dalle troppe voci malevole che circolavano sul suo conto.
Un giorno mi sentii chiamare alle spalle. Ero appena sceso dall’autobus, che quotidianamente mi portava avanti e indietro da Crotone, dove frequentavo il Liceo. Mi voltai  e potei vedere che si avvicinava sfoggiando un largo sorriso. Mi chiese se ero disposto a fargli visita a casa, dove avrebbe voluto parlarmi di qualcosa di molto importante per lui e, probabilmente, anche per me. Ad una mia pronta  domanda  si rifiutò di dare indicazioni più precise e mi disse che mi aspettava al pomeriggio, a qualunque ora.
Pranzai   con il pensiero fisso a quell’insolita richiesta e mi domandai spesso in che cosa potessi essergli utile. Verso le cinque del pomeriggio ero dietro la porta di casa sua. Venne ad aprirmi la moglie, che in quella circostanza seppi chiamarsi Ines e che mi introdusse in un ampio soggiorno, dove don Carlo evidentemente mi aspettava da un bel po’.
Non si perse in preamboli e da persona concreta, quale diceva di essere, arrivò subito al sodo. Mi raccontò della sua irrefrenabile mania di giocare le schedine, mi raccontò delle grandi somme di denaro che aveva già perse e concluse che solo io potevo aiutarlo a vincere. Di fronte alle mie evidenti perplessità, volle precisare che mi aveva già sentito qualche volta al Bar Centrale discutere di calcio con gli amici, che aveva apprezzato la mia profonda conoscenza delle formazioni delle squadre, dei turni, degli infortuni, delle squalifiche e concluse ribadendo che i suoi soldi e le mie conoscenze erano garanzia di sicure, prossime vincite al Totocalcio.
 In quel periodo io leggevo sempre una rivista sportiva, Il calcio e il ciclismo illustrato, che oggi non si stampa più e che allora io divoravo letteralmente, mandando tutto a memoria, ma non diversamente da quanto facevano tanti altri ragazzi e giovani della mia età. Non  immaginavo però che alcuni illusi potessero ritenere che bastava conoscere tutte quelle notizie per azzeccare i pronostici delle partite di calcio. Cercai di schernirmi facendogli capire quanto assurda fosse la sua illusione, ma egli non volle sentire ragioni e alla fine riuscì a convincermi  con una promessa: se avessimo vinto qualcosa, una imprecisata parte della vincita sarebbe stata mia. Nei pochi mesi del nostro sodalizio, pur migliorando progressivamente i nostri risultati, non avrei mai avuto la possibilità di verificare la sincerità delle sue promesse.
Diventammo amici, per quanto era possibile  tra persone così diverse, e ci vedevamo generalmente al pomeriggio di ogni Venerdì. Egli mi faceva trovare schemi, sistemi, diagrammi, che sottoponeva alla mia approvazione  e che verificava con le ultime notizie sul campionato, che io gli fornivo e alle quali egli prestava una fede cieca e assoluta. Qualche volta venivo invitato a restare a cena e io non me lo facevo ripetere due volte, perché la Ines era capace di preparare degli intingoli molto gustosi, ma soprattutto perché la stessa dimostrava nei miei confronti una premura e una sollecitudine che qualche volta mi avevano dato da pensare. Durante la cena si parlava un po’ di tutto e don Carlo mi faceva in particolare  una raccomandazione: per nessun motivo dovevo mettere a parte dei nostri segreti e dei nostri incontri un gruppo di sistemisti del Totocalcio, di cui costituivano l’anima il barbiere del paese, Amedeo Grisi, ed un altro accanito scommettitore, Nicola Marino. Lo tranquillizzavo, giurandogli  fedeltà eterna, tra un boccone e l’altro, tra un sorso di vino e l’altro, mentre di lato seguivamo le prime puntate di Lascia o raddoppia o qualche partita di calcio su un monumentale televisore in bianco e nero, di cui don Carlo era uno dei primi, fortunati possessori.
Una sera  lo invitai a raccontarmi qualcosa della sua vita, ma egli si schernì, sostenendo che non gli piaceva molto rivangare il passato. Non mi diedi per vinto e la settimana successiva ritornai alla carica, ma ancora una volta egli si rifiutò, come se volesse nascondere qualcosa. Presi a sfotterlo amabilmente e, per provocarlo, addirittura gli dissi che mettevo in dubbio anche quel poco che si sapeva di lui. Reagì male, ma reagì. Per convincermi, incominciò a straparlare dell’Argentina e di Juan Domingo Peron, ma mi accorsi che le sue conoscenze non andavano al di là di un qualunque articolo di giornale. Faceva confusione, esitava, lasciava le frasi a metà, ignorava l’esistenza delle Pampas e insomma mi accorsi che egli conosceva l’Argentina, dove pure diceva di essere vissuto quaranta anni, come io conoscevo il Cipango. Molte cose non quadravano nei suoi racconti, ma feci finta di nulla, anche se mi lasciai sfuggire delle perplessità con qualcuno dei miei amici al Bar Centrale.
Qualche mese dopo, in un caldo pomeriggio di Giugno, arrivato dal Turbide, vidi che davanti alla porta  era posteggiata una gazzella dei carabinieri. Fui tentato dall’idea di ritornare indietro, ma la scartai subito nell’ipotesi che qualcuno potesse vedermi dall’interno e ritenere che avessi qualcosa da nascondere. Un po’ preoccupato bussai e venne ad aprirmi la Ines. C’erano due carabinieri, uno dei quali stava estraendo un documento da una cartella. Seduto su una poltrona, affranto, c’era il Turbide, mentre la moglie, pur preoccupata, aveva un’aria semplicemente rassegnata e stanca.  Il carabiniere poi lesse ad alta voce il documento, che era  un mandato di cattura spiccato nei confronti di tale Cesare Moncalvo, nato a Montalto Uffugo, in provincia di Cosenza, il 4 Aprile   1902. Il mandato faceva riferimento ad una condanna passata in giudicato, a due anni di reclusione, per il reato di truffa aggravata di cui          all’ articolo 640  e seguenti del Codice Penale e che il condannato non aveva scontato per sopravvenuta latitanza. Insomma il Turbide-Moncalvo era un truffatore, semplicemente un truffatore: fu portato via ammanettato e provvisoriamente rinchiuso nel carcere mandamentale di Santa Severina. Dopo qualche giorno fu  trasferito  nel carcere di Catanzaro.
La Ines ogni tanto andava a trovarlo, guidando personalmente la sua auto, e un paio di volte la accompagnai fino al parlatorio, dopo aver chiesto e ottenuto un permesso speciale a causa della mia minore età. Diradai ovviamente anche le visite a casa sua, con l’intenzione  di troncarle del tutto prima o poi. Già in precedenza i miei non avevano visto di  buon occhio la mia frequentazione con “don Carlo”, ma ora io stesso temevo di apparire inopportuno dal momento che la Ines non aveva certo bisogno dei miei consigli per il Totocalcio, che lei considerava semplicemente un sistema inventato dallo Stato per truffare un po’ di soldi alla povera gente, tanto per restare nel campo di attività preferito dal marito.
In un afoso pomeriggio di Settembre, andai a trovare la Ines, dopo qualche tempo che non ci vedevamo. Rimase un po’ sorpresa, ma mi accolse con evidente piacere e mi fece sedere in soggiorno senza troppe formalità. Mi offrì un pezzo di torta, che trovai squisito e che lei disse di aver preparato con le sue mani, e un liquore, che trovai molto forte e che deglutii con qualche difficoltà, suscitando tra l’altro un suo amabile sfottò. Poi lei incominciò a lamentarsi del caldo eccessivo di quel giorno e, mentre  parlava, anzi cinguettava con la sua vocetta allegra, mi accorsi che non stavo seguendo più di tanto il filo delle sue parole e che invece la stavo osservando con una certa intensità , come forse non avevo mai fatto in precedenza. Notai che a causa del caldo di quel giorno lei era generosamente scoperta in varie parti del corpo e convenni che era ancora una bella donna.
Ad un certo punto lei si alzò quasi di scatto e mi disse che avrebbe fatto un bagno. Mise un pentolone di acqua sul fornello a gas in cucina  e poi andò a prendere un semicupio, che sistemò in un angolo del soggiorno. Allora le vasche da bagno non erano molto diffuse nelle case e io non avevo mai visto una roba  del genere, perché in estate il bagno ero solito farlo al mare e in inverno in una tinozza rudimentale. Quando tutto fu pronto, mi invitò a girarmi dall’altra parte ed io  obbedii docilmente. La sentivo sguazzare nell’acqua con un certo piacere e, alla fine , mi chiese se ero disponibile ad asciugarle le spalle e a passarvi una certa crema. Non dissi di no ovviamente, mi girai e presi l’asciugamano e il tubo di crema che lei mi porgeva.
Quel giorno, probabilmente, una confluenza astrale favorevole aveva deciso  che lungo i sentieri dell’universo una serie di protoni, elettroni e neutroni si unissero in  dolce contatto fra di loro. Per quanto mi riguardava, questa felice congiunzione avvenne in un pomeriggio di Settembre del 1959, in una villetta alla periferia sud del mio paese, in un soggiorno posto al piano terra, su un divano sul quale entrambi ci lasciammo cadere, subito dopo che ebbi finito di spalmare quella crema.
Le mie visite dalla Ines, pur con qualche accortezza, ripresero a diventare più frequenti, tanto più che entrambi sapevamo che la pacchia non poteva durare  a lungo. Il Cesare o Cesarino Moncalvo, ormai ex Carlo Turbide, aveva avuto un consistente  sconto di pena per buona condotta e stava per tornare a casa. E difatti arrivò a casa un giorno di Ottobre del 1960, guidando personalmente l’auto con cui sua moglie era andata a prenderlo, aspettandolo all’uscita dal carcere.
Andai a trovarlo pure io una sera e  mi disse prima di tutto che dovevamo ricominciare col Totocalcio. Ripresi le mie visite settimanali a casa sua e non soltanto quelle, perché ormai c’era anche un altro motivo più convincente ad attirarmi verso  quella casa. Io e la Ines dovevamo solo prendere qualche precauzione, perché per il resto le occasioni non mancavano. Subito dopo il suo ritorno a casa, Cesarino aveva ripreso l’abitudine di frequentare il direttore dell’Ufficio postale e con lui combinava delle interminabili partite a poker, con giocatori occasionali, che a volte si protraevano per tutta la notte. Quando io facevo finta di passare per caso da casa sua, in realtà per vedere se la Ines era sola, non ci voleva molto a capire la situazione. Cesarino aveva  l’abitudine, quando era in casa, di deporre il suo  Borsalino sul tavolo del soggiorno e pertanto, quando entravo, mi era sufficiente dare uno sguardo a quel tavolo per  rendermi conto di tutto.
 Un giorno di Dicembre, mentre fuori faceva freddo e cadeva una pioggerellina fastidiosa, ci eravamo incontrati io e la Ines, la quale mi aveva detto che avevamo un paio d’ore di libertà. Avevamo acceso una stufa a gas e, al tepore di quella stufa, ci eravamo  sdraiati sul solito divano, confortati anche dal tepore di una coperta che ci ricopriva entrambi. Poi, forse esausti, forse incoscienti, avevamo finito con l’addormentarci, mollemente abbracciati. Quando riaprii gli occhi, guardai sul tavolo e con terrore mi accorsi che su quel tavolo c’era il Borsalino del Moncalvo. Feci un salto, mi rivestii e rapidamente, senza far rumore e quasi scivolando sul pavimento, guadagnai l’uscita.
 Il Venerdì successivo, quando mi presentai a casa loro, ero preparato al peggio. Avevo già messo in conto qualche schiaffo o qualche pedata, ma questo non mi aveva distolto dall’idea che comunque era preferibile affrontare a viso aperto la nuova situazione.  Ma non successe niente. I due furono cordiali come sempre: preparammo le schedine del Totocalcio e alla fine fui quasi costretto a rimanere per la cena. Durante la quale notai che  Cesarino era meno loquace del solito e che ogni tanto sembrava seguire un suo rovello interiore. Verso la fine della cena egli emise un profondo respiro e mi guardò fisso negli occhi. “Vedi, mi disse, io ho ormai una certa età, che mi impedisce di fare tutto quello che sarebbe necessario fare.”  Stavo sulle spine e temevo, o speravo, che egli andasse a parare a quanto aveva scoperto qualche giorno  prima. Ma cambiò subito registro e continuò:” Si dà il caso che io ho pure molti soldi, ma i soldi non sono mai troppi ed è un grande errore lasciarli dove sono o non cercare di moltiplicarli. Per questo motivo ho deciso di intraprendere una nuova attività, lecita sia ben chiaro, che mi consenta di  investire i miei soldi e di farne molti di più.  Si tratta di mettere su una fabbrichetta di sottoli e sottaceti. Una cosa di tutta tranquillità, nella quale non c’è alcun rischio e che io, alla mia età come ti dicevo, non posso sbrigare da solo. Mia moglie non s’intende di queste cose e quindi non mi resti che tu. Non ti chiedo molto:  mi basterà che tu mi dedichi solo un’oretta al giorno per tenermi aggiornati  i conti e i registri. Per questo lavoro riceverai un compenso. A tutto il resto, ovviamente, penso io: troverò il locale, i fornitori e quattro o cinque ragazze come lavoratrici”.
Lo ascoltai senza essere capace di replicare o di dire alcunché, ma l’idea di avere una paghetta fissa ogni settimana mi allettava e quindi finii con l’accettare. La mia vita però incominciò a complicarsi. La mattina prendevo l’autobus per andare al Liceo, a Crotone; rientravo verso le due del pomeriggio, pranzavo e poi studiavo per un paio d’ore; quindi passavo da un magazzino dove Cesarino aveva ubicato la sua fabbrichetta; in un angolo, su un tavolino, mi limitavo a riordinare ed elencare alcune fatture  su un registro o a fare qualche conteggio; al Venerdì sera c’era l’appuntamento fisso  per le schedine del Totocalcio. A tutto questo bisognava infine aggiungere gli incontri furtivi con la Ines. Ma questi ultimi non mi comportavano alcun sacrificio, anzi incominciavano a diventare più appaganti, da quando Cesarino aveva dimostrato di essere del tutto cieco, o forse aveva solo fatto finta di esserlo.

Per il resto non potevo chiedere niente di meglio: a parte la mia storia con la Ines, il Venerdì sera ero ospite fisso alla loro mensa; settimanalmente ricevevo una paga di trentamila lire, una cifra che in precedenza  non avevo mai visto; e infine da qualche tempo i due avevano preso l’abitudine di portarmi spesso in giro con loro, per alberghi e ristoranti disseminati lungo le coste e le montagne dei dintorni. Erano passati già alcuni mesi da quando la fabbrichetta era stata avviata e gli affari andavano bene, o almeno sembravano andare bene. L’unico inconveniente era che tutto veniva pagato rigorosamente in nero, comprese le quattro ragazze alle quali settimanalmente il Cesarino consegnava una busta con una cifra che si aggirava sulle ventimila lire.
Era il maggio del 1961 e un pomeriggio mi avviai come al solito verso la fabbrichetta, quando da lontano vidi che sul davanti erano radunate molte persone. Ebbi la netta impressione che fosse successo qualcosa e mi affrettai. Giunto sul posto, mi si offrì agli occhi uno spettacolo  impressionante. Barattoli e conserve erano sparsi un po’ dappertutto e tre ragazze  piangevano sconfortate. Una di loro mi raccontò quel che era successo: un pentolone rudimentale, in cui erano messe a bollire le conserve, si era rovesciato ed aveva investito in pieno una ragazza, provocandole ustioni gravissime in tutto il corpo. Il Moncalvo aveva prima provveduto a portare la ragazza dal medico Mauro e da lì, dopo un sommario esame, direttamente all’ospedale di Crotone.
Me ne uscii subito e, quasi mosso dall’istinto, mi diressi verso la villetta dei Moncalvo. C’era solo la Ines, che mi diede altri ragguagli sull’incidente, fumando una sigaretta dietro l’altra. Poi, quasi in cerca di conforto, mi abbracciò singhiozzando. Piangeva la sua sfortuna, la sua vita sprecata dietro un uomo che, diceva lei, l’aveva sempre fatta vivere tra mille paure e mille pericoli. Finì col trascinarmi sull’eterno divano dei nostri amori, dove per un po’ dimenticammo entrambi le angustie del vivere quotidiano e finimmo anche con l’assopirci, strettamente abbracciati.
 Verso sera arrivò Cesarino il quale si disse convinto, anzi sicuro, che di lì a poco sarebbero venuti ad arrestarlo. Incominciò a preparare le sue cose, quelle che gli erano sempre state necessarie nei vari periodi della vita, che aveva trascorso in “collegio”, come egli amava definire il carcere. Quando ebbe finito di preparare le sue cose, si rivolse a me e in modo pacato mi espresse i suoi desideri.” Ti raccomando la Ines, concluse. Tu hai fatto tanto per me e io  non ti ho ripagato adeguatamente. Non abbiamo mai vinto al Totocalcio, è vero, ma ti ho dato un piccolo stipendio negli ultimi mesi. Forse era poco per quello che facevi, ma  ti sei rifatto abbondantemente con la Ines. Non negare, sapevo tutto, anche se ho fatto finta di niente, e anche tu sapevi che io sapevo. Ma meglio così. Meglio tu che un altro. Almeno tu sei stato un amico per me e, se le cose fossero andate bene, ti avrei riempito di soldi, che peraltro meritavi, perché  sei un bravo ragazzo e meriti di meglio, piuttosto che incontrare uno come me e come la Ines. Il fatto è che, nella lunga partita a scacchi che da tanti anni ho intrapreso con la vita, speravo almeno di finire in pareggio, con una ics, e invece  la partita è sempre finita con un due, con la mia sconfitta.”
Si sentì il suono di una sirena ed andai a vedere. Due carabinieri si stavano dirigendo verso l’ingresso, mentre tutt’intorno si era radunato un capannello di curiosi. Non ci fu nemmeno bisogno di leggere il mandato di cattura emesso dal pretore di Santa Severina  nei confronti del Cesarino Moncalvo, il quale chiese soltanto che non gli fossero messe le manette e fu accontentato. Poi abbracciò la moglie e si apprestò a seguire i carabinieri, che ad ogni buon conto lo guardavano a vista. Mentre si avviava, si voltò verso di me, abbozzò un leggero saluto con la mano, ma soprattutto mi fece  chiaramente un cenno d’intesa, con un occhiolino.
Non l’avrei più rivisto.
Ezio Scaramuzzino

giovedì 25 aprile 2013

L'altra resistenza


Nel giorno in cui l'Italia si divise in due, molti si schierarono dalla parte di questa bambina. 





lunedì 22 aprile 2013

L'inizio della fine



Non ho ascoltato oggi il discorso di Napolitano, ma ho visto subito dopo la sua visita all’Altare della Patria  e infine  il suo ritorno al Quirinale. Dovunque corazzieri, bande musicali, marcette, inni, ma il tutto senza gioia, senza orgoglio, quasi in tono dimesso. Sembrava un funerale, più che una festa, il funerale di un’intera classe politica. Non penso che l’Italia possa salvarsi, perché la situazione è troppo incancrenita e forse nemmeno un miracolo basterebbe. L’Italia sarà travolta. L’unica consolazione è che con essa sarà travolta  una classe politica di parassiti, i cui unici principi ispiratori per tanti anni sono  stati la voluttà del saccheggio e lo spirito di autoconservazione.

mercoledì 17 aprile 2013

Eroe in erba (Racconto) di Ezio Scaramuzzino




Un autunno di tanti anni fa mi ritrovavo seduto sulla veranda del Bar Centrale. Molti del nostro gruppo erano già partiti per andare a cercar fortuna fuori ed al paese eravamo rimasti in pochi: giusto quelli che, come me, erano riusciti a trovare un lavoro tra le braccia protettrici dello Stato e gli altri che non si decidevano a partire, in attesa di tempi migliori.
Alcuni, all’interno, si accapigliavano nell’ennesima partita di Terziglio, mentre io, distrattamente, osservavo l’andirivieni delle poche persone nella piazza circostante.
     Mi venne incontro Franco Tribelli, che non vedevo da tanto tempo. Venne a salutarmi, con affetto e con quel sorriso eternamente stampato sulle labbra, che sembrava il sigillo della sua vita piena di vicende meravigliose, delle quali egli, di tanto in tanto, mi rendeva partecipe.
Contenti di ritrovarci, dopo i convenevoli di rito, rievocammo insieme alcuni episodi della nostra vita. Ricordammo con piacere, in modo particolare, una incredibile mangiata di fichidindia che ci aveva accomunati da ragazzi. Lui, più grande di me di qualche anno, mi aveva trascinato di notte in un orto privato dove crescevano quelle meravigliose piante spinose ricoperte di dolcissimi e saporitissimi frutti. Al chiarore della luna piena, ne mangiammo per un paio d’ore, badando a non riempirci di spine e scegliendo di preferenza quelle verdi, chiamate “napoletane”, che trovavamo divinamente gustose. Il giorno dopo, purtroppo, ci colpì una occlusione intestinale, che si risolse solo con un solenne clistere, prescritto dal medico Mauro e praticatoci dall’infermiere don Agostino.
Franco mi raccontò poi gli ultimi accadimenti della sua vita. Dopo la laurea in medicina si era stabilito a Torino, dove si era fidanzato e dove aveva richiesto di essere incluso nelle graduatorie del Servizio Sanitario Nazionale. L’assunzione però tardava ad arrivare e qualcuno gli aveva suggerito di incrementare il punteggio in graduatoria con qualche documento integrativo. Ad esempio la certificazione di un qualche merito antifascista valeva ben dieci punti in più in graduatoria, quasi quanto la laurea, e a lui era venuta una buona idea. Si era ricordato, beh …si era ricordato, improvvisamente e quasi come in una folgorazione, che da bambino, un qualche merito antifascista lui se l’era guadagnato.
Sempre più incuriosito, soprattutto per il fatto che a me non risultava che dalle nostre parti ci fosse mai stata una qualche forma di lotta antifascista o partigiana, lo invitai ad andare con ordine ed a raccontarmi la vicenda che l’aveva coinvolto. E lui, da straordinario narratore di se stesso, non si fece pregare, facendo ricorso al meglio delle sue capacità fabulatorie.
Il 9 settembre del 1943 gli abitanti di Scandale, che, come ogni mattina si stavano preparando al lavoro nei campi o nelle botteghe artigiane, si accorsero con somma meraviglia che la strada principale del paese era occupata da un gruppetto di soldati tedeschi, preceduti da  un’ autoblindo.
Scandale non si trovava su una grande via di comunicazione e non ci volle molto a capire che con tutta probabilità quei soldati, dall’aspetto tutt’altro che marziale, in realtà si erano sbandati e cercavano solo di proseguire con ogni mezzo nella loro ritirata verso il nord. Un soldato tedesco chiese qualcosa a gesti ad un contadino che si trovava a passare, ma quest’ultimo, impaurito, spronò il suo mulo e sparì velocemente. Altre persone, superata la diffidenza iniziale, si accostarono e capirono che i soldati volevano solo, se possibile, comprare qualcosa da mangiare. Non ci fu nessuna manifestazione di ostilità nei loro confronti. I soldati, una quindicina in tutto, furono accompagnati ad un negozio, dove poterono rifornirsi del poco che era possibile avere in quei tempi calamitosi.
Un codazzo di bambini incuriositi e quasi divertiti li seguiva. I soldati si procurarono soprattutto del pane, molto pane, ma un grosso problema nacque al momento di pagare. Uno di loro, lentamente, poggiò la mano sulla tasca posteriore, quasi volesse prendere la pistola e procurando un po’ di apprensione nei presenti. Invece si limitò a prendere il portafogli e ne estrasse dei marchi tedeschi intonsi, nuovissimi, che il bottegaio di Scandale non conosceva , perché non ne aveva mai visti prima. Non li accettò, ma i Tedeschi non avevano altro denaro e si rifiutarono di restituire quel cibo per loro preziosissimo. Ne nacque una animata discussione che vide i Tedeschi andar via senza pagare e, nel parapiglia che ne seguì, un bambino di sei anni, uno solo, lui, il bambino Franco Tribelli, scagliò una pietra. La quale volteggiò nell’aria, roteò, seguì una morbida parabola prima ascendente, poi discendente e ultimò la sua traiettoria andando a posarsi, con tutta la forza di cui era capace, sui capelli biondi di un soldato teutonico.
Il quale, colpito, prima sbandò leggermente, facendosi sfuggire dalle mani un pane gelosamente custodito, poi si riprese subito, raccattò il pane, si mise una mano sulla testa, da cui fuoriusciva qualche goccia di sangue, e raggiunse velocemente i compagni in fuga.
Ora, a distanza di quasi trenta anni, Franco ritornava al suo paese per chiedere al sindaco una certificazione di quella sassata, di quel colpo ben assestato, che, pur nella sua modestia, era forse stato il primo sintomo di una lunga serie di altri colpi, ben più poderosi, che nell’arco di due anni avrebbero portato alla dissoluzione del grande Reich tedesco. Franco concluse il suo racconto dicendomi che il giorno dopo sarebbe stato in Comune e io, incuriosito, lo pregai di tenermi al corrente.
Ci rivedemmo qualche giorno dopo e, con un cenno d’intesa, gli chiesi come era andata. Egli non mi rispose e con fare solenne mi fece segno di pazientare un attimo. Mise mano ad una borsa, ne tirò fuori con compiacimento un foglio, intestato Comune di Scandale, e me lo porse. Lo aprii con una curiosità che mi divorava e potei leggere più o meno quanto segue:
Il Sindaco, da informazioni assunte, certifica che in data 9 settembre 1943 il bambino Franco Tribelli, nato il 9 dicembre 1936, all’età di anni 6 e mesi 11, con intrepido coraggio si scagliava contro l’invasore tedesco, esternando il suo smisurato amor di patria ed il suo smisurato amore per la libertà con il lancio di oggetto contundente che provocava scompiglio nell’esercito aggressore, determinandone una improvvisa fuga con conseguente liberazione della comunità di Scandale. La popolazione tutta, memore, ringrazia.
Entrambi manifestammo un sorriso complice, poi restituii il documento e ci abbracciammo per salutarci. Il giorno dopo il mio amico sarebbe ritornato a Torino. 
     Oggi Franco è felicemente sposato, ha due figli e lavora come primario internista in una clinica di Torino del Servizio Sanitario Nazionale. Una volta andai pure a trovarlo nella clinica, solo per il piacere di rivederlo. Dovetti fare un po’ di anticamera, ma mi accolse con cordialità e si intrattenne con me a lungo, suscitando anche le proteste di qualche paziente in attesa. Era attorniato da un codazzo di giovani assistenti e si dava un certo tono. Ogni tanto ritorna al paese.
Ezio Scaramuzzino

giovedì 11 aprile 2013

Una promessa mantenuta (Racconto) di Alfredo Giglio



Nel primo pomeriggio di un giorno caldo e luminoso di metà Giugno, Corrado Della Torre,  con la moglie e la figlia di cinque anni, si recò a far visita al suo amico Corrado Malaguzzi, che abitava all’altro capo della città. Da tempo le due famiglie intrattenevano cordiali rapporti, alimentati e favoriti dal primo, che a stento riusciva a dissimulare una sua segreta attrazione per la signora Laura Malaguzzi. Attrazione  di cui sua moglie Anna si era talvolta accorta, ma che la stessa tollerava con una certa indulgenza, considerandola innocente e tutto sommato innocua. Di nulla invece si era accorto il Corrado Malaguzzi, che con il suo atteggiamento torpido e bonario era convinto che i continui complimenti e le continue attenzioni dell’amico nei confronti di sua moglie Laura  fossero del tutto spontanei e disinteressati.  
I Della Torre, giunti a destinazione, notarono un insolito tramestio nei pressi dell’abitazione: i loro amici erano pronti ad una puntatina in Sila, per far conoscere le bellezze della montagna calabrese a due suore, una vestita di bianco, sulla trentina, bella, dalla carnagione chiara e dal portamento eretto, l’altra vestita di nero, dall’età incerta ma chiaramente  anziana, piuttosto corpulenta, anonima e dalla pelle untuosa ed olivastra. Furono fatte le presentazioni:la suora giovane era sorella della signora Malaguzzi, mentre la suora anziana era la sua superiora. Il Della Torre ignorava l’esistenza di quella giovane consorella, di cui non aveva mai sentito parlare, ma non poté fare a meno di notare che rassomigliava incredibilmente alla signora Laura, di cui sembrava addirittura gemella.  Dopo le presentazioni, Corrado Della Torre venne  invitato ad unirsi alla comitiva e non se lo fece ripetere due volte, pur fingendo una preventiva, rapida consultazione con la moglie.
Sulla sua auto prese posto la suora vestita di bianco, che si sistemò sul sedile posteriore di fianco alla figlia, mentre la suora vestita di nero si sistemò su quella dell’amico, accanto ai suoi due figli. Le due auto procedettero tranquillamente lungo i tornanti della Sila e, dopo circa un’ora, giunsero a Camigliatello, dove quel giorno erano convenuti tanti  turisti. I negozi del corso principale  erano stati letteralmente presi d’assalto e sui  marciapiedi era quasi impossibile camminare, perché la gente procedeva lentamente, accalcandosi, come in una fiera. Le due auto  dovettero girare a lungo per trovare un parcheggio e solo dopo molte ricerche fu trovato un posticino quasi fuori paese e in una traversa secondaria.
Il gruppo si spezzò subito in due: la signora Della Torre, con la figlia, si unì all’amica, al marito dell’amica, ai suoi due figli ed alla suora vestita di nero; seguivano a breve distanza  la suora vestita di bianco e Corrado Della Torre, curioso di apprendere qualcosa intorno al  mondo per lui misterioso e  sconosciuto dei monasteri. Chiese  subito  alla suora di ripetere il suo nome e, nel mentre poneva la domanda, notò  che la sua  figura era distinta e ben curata,  con la pelle che appariva liscia come la seta e che, a toccarla, si sarebbe certamente rivelata morbida come il velluto. Lei  di rimando:
-Il mio vero nome è Leotelma, ma nel nostro ordine non è consentito mantenere il nome anagrafico e così ho scelto il nome di suor Ines.
Corrado ricordò che qualche anno prima, in un casino, aveva conosciuto una prostituta con lo stesso nome e il ricordo lo fece rimanere perplesso.
-Non mi sembra un nome adatto ad una suora, replicò.
-Perché?, fece lei.
Corrado le rivelò il motivo e si accorse che la giovane suora era arrossita leggermente.
Procedevano nella calca sotto il sole martellante e lui cercava di proteggerla dagli spintoni più o meno casuali, standole dietro e cercando di guidarla. A volte la teneva leggermente in vita, a volte si limitava a sfiorarla con la mano, mentre tutta quella gente, intorno a loro,  andava di fretta, in un via vai frenetico ed a tratti tumultuoso.
Lei prese  a raccontargli della sua vita:era stata novizia all’età di venti anni, era rimasta  per sette anni nel convento, infine  il Vescovo l’aveva messa a capo della segreteria amministrativa della diocesi, il che le aveva consentito di mettere a frutto il suo vecchio diploma di ragioniera. Aggiunse che  il successivo sette luglio  avrebbe compiuto trentadue anni. Ines gli parlò poi della diocesi, delle sue ricchezze, delle sue rendite, della manomorta ecclesiastica. Corrado le chiese dei particolari e  arrivò perfino a chiederle del costo di una Messa per le anime dei defunti. Lei  precisò che il costo dipendeva dal tipo di Messa: semplice, solenne, cantata,  e lui non poté fare a meno di pensare e di dire , per quella strana associazione di idee che sempre gli faceva mescolare il sacro con il profano, che anche nei casini il costo di una prestazione era triplice: semplice, doppia, nottata. Al che Ines arrossì ancora una volta e questa volta in modo violento.
Nel procedere su quel marciapiede tanto affollato, avevano perso completamente i contatti con il resto del gruppo. Però non si preoccupavano, perché l’appuntamento alle auto, per il rientro a casa, era  fissato per le 20,30 e  quindi avevano ancora quasi due ore a disposizione. Suor Ines tenne a precisare che era venuta in Calabria con la sua superiora, non per una vacanza, ma per tenere un corso di catechismo a dei ragazzi che dovevano prepararsi alla Prima Comunione. Nel mentre  procedevano nella ressa e cercavano di dialogare nel vocio confuso degli estranei, capitò una volta che  le mani di Corrado finissero  col premere decisamente sui fianchi morbidi della suora, la quale, con delicatezza  ma  con altrettanta decisione e prontezza, si preoccupò di toglierle e di allontanarle da sé.
Erano entrambi accaldati e si fermarono ad uno zampillo d’acqua fresca per bere qualche sorso. Ines, dopo essersi dissetata, si tolse gli occhiali scuri, per pulire i vetri vistosamente appannati. Lui notò che la suora aveva gli occhi azzurri e le sopraciglia sottilissime. Notò le sue mani curate ed affusolate ed un nasino, che dava armonia all’ovale del viso, di carnagione chiara: decisamente lei era una donna bellissima, pur con i  capelli lunghi e biondi, di cui si intravedeva solo qualche filo, ben nascosti in quella specie di copricapo tipico delle suore. Le sue labbra, rosse e delicate, si movevano dolcemente ad accompagnare il suono delle parole e a lui venne voglia di baciarle, per assaporarne la fragranza. Una volta si protese istintivamente verso di lei, quasi senza accorgersene, e si fermò appena in tempo, davanti ai suoi occhi dilatati dallo spavento. Poi chiese a suor Ines il permesso di  farle una domanda, alla quale, se voleva, poteva non rispondere. Avutone il consenso,:
-Mi dica, sorella, quanti ragazzi ha fatto impazzire d’amore, prima di farsi suora?
Lei sfoderò un sorriso luminoso, mostrando una fila di denti  perfetti e candidi e rispose, dandogli del tu:
-Ma ti sembra questa una domanda da fare ad una suora? Io sono entrata in convento a diciotto anni e non ho fatto impazzire nessuno. Il mio amore è unicamente rivolto al Signore e a tutte le creature bisognose…
- Io sono una creatura bisognosa d’amore, replicò Corrado, e morire con la voglia di Ines, anzi di Leotelma, mi deprime e mi mortifica.
Lei abbassò la testa e, a voce bassa,:
-Ti prego, non dire queste cose, che mortificano anche me. E’ peccato approfittare di una suora e le tue parole mi sembrano  una provocazione gratuita ed inopportuna.
Corrado divenne silenzioso e, approfittando della confusione provocata dalla  folla che spingeva da ogni lato, le poggiò con decisione una mano sul fianco e  la attirò verso di sé. Ines avvertì chiaramente il senso di quella violenza che Corrado stava cercando di esercitare nei suoi confronti e si ribellò:
-Non mi toccare, te ne prego. E’ tutto molto imbarazzante e, se ci dovesse osservare qualcuno, la cosa diventerebbe per me del tutto intollerabile…E poi  sono una donna anche io, come le altre. Se mi tocchi, potrei fare peccato, almeno di desiderio, e non voglio… ti scongiuro.
Queste parole risuonarono all’orecchio di lui come un’ammissione di resa ed egli diventò baldanzoso e sicuro. Si sentiva eccitato. Si pose alle spalle di Ines, tenendole le mani sui fianchi, e prese ad oscillare  sul  suo morbido fondoschiena. Lei trasalì, diventando sempre più rossa in volto ed impacciata nei movimenti. D’un tratto lei si scansò di lato, per sfuggire a quella morsa che la vedeva soccombere, ma  lui ne approfittò per passarle la mano sui glutei. Corrado poi la prese sottobraccio, ma lei, quasi implorandolo:
-Non mi toccare, ti prego. Una suora non può essere presa sottobraccio da un uomo, perché è cosa sconveniente.
Lui, giovane di trentaquattro anni, era in preda ad una evidente agitazione. Si trovava in una situazione incredibile e Ines gli faceva ribollire il sangue. Poi, quasi singhiozzando, soggiunse:
-Di me, innamorato pazzo di Leotelma, alla quale chiederei in ginocchio solo un bacio, prima di chiudere gli occhi, non ti importa niente? A te importa solo di salvare la faccia e di stare in pace con la  tua coscienza di buona suora cattolica, apostolica, romana. Io ho voglia di un tuo bacio, ma, siccome è cosa impossibile, morirò con il desiderio e tu resterai soltanto un meraviglioso sogno… nel cassetto!
La suora taceva, ma  lasciava che il giovane le camminasse dietro, tenendola per la vita,  e lo lasciò fare  anche quando lui  di tanto in tanto incominciò ad accostarsi a lei, per farle sentire il calore del suo corpo ormai preda di un desiderio incontrollabile. Ma quando la manovra incominciò a diventare più frequente, Ines reagì:
-Ti prego, diceva, non mi devi toccare continuamente, perché così mi togli il sonno e mi costringi a peccare. Poi sarei costretta a confessarmi  e c’è il rischio che il mio direttore spirituale non mi dia nemmeno l’assoluzione, dal momento che da più di un anno mi circuisce con insistenza, mentre io resisto con ogni mezzo, riportandone soltanto dolore, umiliazione e vergogna. Ti prego di scusarmi per lo sfogo e di dimenticare ciò che ti ho appena detto.
Fra di loro calò il silenzio. Procedevano fra la gente, ognuno per conto proprio, tanto che Corrado si ritrovò un po’ più avanti a lei e spesso  dovette attenderla, fermandosi. Ad un certo punto lei si sentì stanca e, raggiunto Corrado, gli si attaccò al braccio sinistro, dicendogli:
-Non mi lasciare indietro. Se ti fa piacere ti tengo io sottobraccio, come se tu fossi un mio fratello o un mio parente.
-Certo, rispose lui, mi fa piacere, anche se muoio dalla voglia di abbracciarti e baciarti.
-Questo non è possibile, replicò la donna, anche perché siamo in una pubblica via e poi domani pomeriggio partirò e forse non ci rivedremo mai più.
Corrado concluse:
-Questo è il destino di noi poveri mortali:vivere di sogni che non si realizzeranno  e conservare nel cuore solo i ricordi. Ma io, di te, quale ricordo conserverò nel cuore? Nulla, nemmeno una foto, nemmeno una carezza, nemmeno il profumo soave di un bacio.
Suor Ines sorrise compiaciuta di quelle parole, che la riportavano ai sentimenti più veri, all’amore, custode geloso di palpiti nascosti, di sospiri soffocati nella disperazione di un vivere amorfo, senz’anima, senza emozioni, senza calore. Si sentiva come un fiore, che sbocciava tardi sotto il sole di primavera, per aprirsi alla vita ed inondare del suo profumo l’aria circostante. Cominciò a stringere quel braccio, con forza, con trepidazione e passione, per gustarne i muscoli ed il tepore della pelle.
Corrado avvertì che qualcosa, come un miracolo,  stava nascendo in quella meravigliosa creatura, vestita di bianco come una sposa. A più riprese le avvolse il fianco con il suo braccio vigoroso, per farlo poi ricadere lentamente, mentre lei si aggrappava con sempre più forza, stringendolo in una morsa, come per ribadire che anche lei era  viva  e capace di slanci. Poi, vinta dalla ostinazione di lui, che pareva volesse spogliarla con gli occhi, nonché dalle sue suppliche perché gli lasciasse almeno un ricordo, gli promise che l’avrebbe ricordato nelle sue preghiere e che, siccome lo riteneva una persona speciale, gli avrebbe lasciato un piccolo ricordo, da custodire nel profondo del cuore.
La serata stava per finire. I due si avviarono lentamente verso le  auto,  mentre la folla non accennava a diradarsi. Il sole si era appena nascosto dietro i monti, ricoperti di pini secolari, quando i due scorsero gli altri che stavano arrivando in gruppo. Suor Ines, sollecitata da Corrado, si chinò per entrare nell’auto sportiva, che aveva solo due portiere, per prendere il suo posto dietro al guidatore. Lui ne approfittò  per affondare, nell’attimo in cui era china, il palmo della  mano destra nel suo vestiario multistrato e trasmetterle così il calore di un’ultima carezza.
Giunsero poi gli altri e  tutti ripresero nelle auto lo stesso posto dell’andata. Intanto si era fatto  buio e la cittadina si era illuminata di tante luci  al neon, dei più svariati colori, che diffondevano il loro chiarore sulle vetrine dei negozi e sulla strada ancora affollata. 
Partirono e dopo pochi minuti si ritrovarono immersi nel buio della notte. La macchina di Corrado Malaguzzi, che era meno veloce, faceva da battistrada. Dopo dieci minuti la bambina di Corrado Della Torre dormiva già profondamente, con la testa sul fianco di suor Ines, che da parte sua si era appoggiata al sedile del pilota, infilando furtivamente la mano sinistra fra lo schienale e la portiera.
Al buio, mentre la moglie Anna teneva gli occhi puntati sul nastro d’asfalto, la suora riuscì a passare la mano sotto la maglietta di cotone di Corrado Della Torre e a portarla, delicatamente, sulla mammella sinistra di lui, che non credeva quasi a quanto  stava accadendo. Sentiva che lei gli premeva sul muscolo pettorale e lo accarezzava con  passione, tanto che  lui non stava più nella pelle e dovette fare uno sforzo supplementare per riuscire a controllare la sua guida. Poi lei prese ad abbassare lentamente e dolcemente la sua mano. Suor Ines aveva mantenuto fede alla promessa appena fatta e quel ricordo l’avrebbe accompagnato per tutto il resto della vita, come un dono raro e prezioso, da tenere custodito nel profondo dell’anima.
          Quando le auto arrivarono a destinazione, la comitiva si sciolse. Davanti ad un lampione che illuminava la strada, si procedette agli ultimi saluti. Erano tutti stanchi e solo il  Corrado Malaguzzi, svegliatosi dal consueto torpore, sembrava avere ancora voglia di intrattenersi: si rivolse al suo amico con trasporto e lo ringraziò della compagnia, mentre tutti gli altri si scambiavano abbracci e baci. Poi il Della Torre si diresse verso la sua auto e, mentre si apprestava ad entrare, non poté fare a meno di riflettere:
-Siamo solo all’inizio ed il resto verrà da sé. Non potrà non venire, perché qui di Corradi ce ne saranno anche due, ma l’unico vero Corrado, l’unico con gli attributi, modestamente sono io.
 Alfredo Giglio


sabato 6 aprile 2013

Ricordo di Sarah (Racconto) di Ezio Scaramuzzino



Il 5 giugno 1967 scoppiò la Guerra dei sei giorni tra Israele e i Paesi arabi.  Ascoltai la notizia  alla radio, al mattino, e mi colpì molto il pensiero che un piccolo Paese di poco più di un milione e mezzo di abitanti potesse fare guerra contro vari Paesi contemporaneamente. Maturò in quei giorni il mio amore per Israele, per quel popolo eroico e infelice, le cui tribolazioni  sembrava non dovessero finire mai.
Passarono gli anni e la campagna di odio nei confronti del giovane stato  non accennava a placarsi. Sentivo di dover fare qualcosa di concreto e maturai l’idea generosa,  forse anche un po’ spavalda, di arruolarmi nello Tsahal, l’esercito israeliano. Nell’Ottobre del 1970 indirizzai una lettera in tal senso all’ambasciata d’Israele a Roma e qualche giorno dopo  ricevetti una  risposta. Tale Lucy Barnes, primo segretario d’ambasciata, mi ringraziava per la mia disponibilità, ma mi comunicava che l’esercito d’Israele non arruolava cittadini stranieri. Rimasi un po’ sorpreso, ma non molto dispiaciuto: il mio primo intendimento in fondo  era quello di fare un atto d’amore nei confronti di un popolo e quest’atto d’amore era stato comunque recepito ed apprezzato.
Seguii a lungo e con attenzione le vicende, ora tristi, ora liete, del Medio Oriente, mentre  intanto la mia vita andava avanti. A Luglio del 1971, ormai laureato da qualche anno, ritornai a Firenze per frequentarvi un corso di specializzazione post laurea sulla storia del Medio Oriente. Nella Facoltà di Lettere ci ritrovammo circa  un centinaio  di persone provenienti da vari Paesi. Il primo giorno arrivai con un po’ di ritardo, mi registrai al corso ed ascoltai  la dissertazione di un barbuto e non meglio conosciuto professore sudamericano, che intrattenne l’uditorio su “Le responsabilità del Sionismo internazionale nell’attuale crisi del Medio Oriente”.  Il secondo giorno, tanto per cambiare, un docente francese di origine algerina tenne una lezione  su “La nascita dello stato d’Israele come atto di aggressione imperialista nei confronti del popolo palestinese”.
Ero tentato dall’idea di abbandonare il corso, per evitare di  ritrovarmi coinvolto ogni giorno di più in una sorta di psicosi maniacale, di tipo nazi-comunista, che mirava solo a tenere Israele sul banco degli accusati. Il terzo giorno ero già pronto a sorbirmi l’ennesimo pistolotto ideologico, ma la mia attenzione fu richiamata dalla presenza di una giovane donna di colore, che si sedette vicino a me. Mentre un relatore dissertava su “L’imperialismo delle multinazionali e il neocolonialismo”, ebbi modo di osservare quella giovane donna.
Dimostrava circa trenta anni, aveva la pelle molto scura, il naso leggermente schiacciato, i capelli ritorti in tante treccine lunghe e sottili. Aveva un portamento eretto e mi sembrò bellissima: chissà perché mi venne di pensare alla mitica regina di Saba. Ebbi un attimo di imbarazzo quando lei, voltandosi verso di me, si accorse che io la stavo osservando con attenzione, ma il mio imbarazzo cessò subito, perché lei mi sorrise ed io, istintivamente, ricambiai quel sorriso. Alla fine della lezione quella giovane donna si avvicinò e mi chiese se  ero disponibile ad accompagnarla per un tratto di strada. Non me lo feci ripetere due volte.
Parlava molto bene l’ Italiano, ma con un accento ed una cadenza che lì per lì non riuscii a definire. Parlammo del corso, della situazione politica generale, della tensione in Medio Oriente, di Israele, del terrorismo palestinese.  Ad un certo punto  mi disse chiaramente di sapere che io mi sentivo ed ero un amico di Israele, ma soprattutto lei sapeva della mia domanda di arruolamento di qualche anno prima. Mi allarmai e temetti un tranello, del quale incominciavo ad avvertire fumosamente i contorni: le chiesi come facesse a sapere tutto questo.
E lei mi raccontò la sua vita e dissipò le mie paure. Sarah, così si chiamava, era un’ebrea di origine etiope, appartenente al  misterioso popolo dei Falascià. All’età di venti anni, era riuscita a riparare in Israele con la sua famiglia, una delle poche ad essere riuscite nell’impresa: qui  era vissuta, qui aveva fatto il servizio militare, qui infine era diventata agente del Mossad, il mitico servizio segreto israeliano. Per frequentare il corso era stata fornita di un falso passaporto della Somalia e di una falsa identità, Nazeera Bekr. Il suo compito era quello di trovare informazioni e possibilmente scoprire  tra i corsisti una cellula terroristica, che doveva  compiere  un  attentato contro la sinagoga di Firenze. Io potevo riuscirle utile in un ruolo di copertura, con compiti che mi avrebbe comunicato  man mano che se ne fosse presentata la necessità. Il suo piano  consisteva nel farsi passare per una fanatica musulmana, disponibile a tutto, per infiltrarsi nella rete e sconvolgerla dall’interno.
Rimasi perplesso ed attratto nello stesso tempo: Sarah emanava un incredibile fascino ed era difficile resisterle. Parlava in modo pacato e soprattutto  non dimostrava  alcuna paura di affrontare  una prova così rischiosa in un mondo crudele e sanguinario, quale era quello del terrorismo. Stabilimmo che ci saremmo rivisti ogni giorno, alla fine del corso, e che  in un modo o nell’altro lei mi avrebbe fornito ulteriori istruzioni. L’ attrazione per lei  crebbe quando, alla fine del nostro primo incontro, davanti al portone di un palazzo nei pressi di Piazza della Signoria, dove lei aveva preso alloggio, mi abbracciò con un trasporto che a me sembrò foriero di ulteriori, interessanti sviluppi.
Il giorno dopo, nel dibattito aperto alla fine della lezione, Sarah chiese di poter parlare. Attaccò con violenza la politica di Israele, facendo riferimento addirittura al Protocollo dei sette savi di Sion e ottenne un discreto successo, coronato da numerosi ma non unanimi applausi. La consueta passeggiata dopo il corso si concluse questa volta prima in un ristorante e poi a casa sua, dove rimasi suo ospite fino al mattino.
Per qualche giorno non rividi Sarah, con qualche preoccupazione, ma evitai di cercarla a casa sua. Al nostro successivo incontro, mi fece subito sapere che la sua sparata di qualche giorno prima non era stata infruttuosa: era stata avvicinata da un Venezuelano, tale Antonio Cabrera, che prima aveva cercato di approfondire meglio la sua conoscenza e poi, rassicurato sulle intenzioni e sulle capacità rivoluzionarie di Sarah, l’aveva invitata a casa sua. Qui lei aveva trovato e conosciuto altre due persone, un uomo ed una donna, entrambi Argentini, apparentemente brave persone, dagli atteggiamenti raffinati e cortesi, tipici di una sana famiglia borghese. I tre, davanti a Sarah-Nazeera, non si compromettevano più di tanto e parlavano piuttosto genericamente e fumosamente di rivoluzione prossima ventura, di resistenza politica e di controinformazione.
Era stata Sarah a provocarli ed a farli uscire allo scoperto: il giorno dopo aveva rivelato ai nuovi amici la sua perfetta conoscenza della lingua Ebraica, appresa, a suo dire, in un quartiere di Mogadiscio abitato prevalentemente da Ebrei, ed aveva anche rivelato una sua grande padronanza nel maneggio di esplosivi. Antonio Cabrera le aveva risposto che delle sue competenze pirotecniche potevano fare a meno, dal momento che essi disponevano abbondantemente di materiale e di esperti, ma che la sua conoscenza della lingua ebraica poteva risultare estremamente utile. In breve le rivelò il piano di un attentato alla sinagoga di Firenze di via Luigi Carlo Farini: l’attentato era previsto per un giorno di  Sabato, in attesa che un corriere  consegnasse loro  una partita di fucili Kalashnikov e di bombe fabbricate col micidiale Semtex. Lei avrebbe avuto il compito di distrarre, con la sua conoscenza dell’Ebraico, alcuni vigilantes interni alla comunità ed aprire il passaggio al resto del commando, che avrebbe poi provveduto ad  eliminare i due poliziotti italiani di guardia, lanciare le bombe e compiere una strage tra i partecipanti ai riti religiosi. Il commando, dopo la strage, contava di ritirarsi lungo l’adiacente via dei Pilastri, dove un’auto in attesa, messa a disposizione dal consolato  bulgaro, avrebbe portato tutti in salvo.
Sinagoga di Firenze
Sarah mi comunicò che il mio compito era quello di avvertire, al momento opportuno, un qualunque commissariato di polizia e favorire un’azione di sorpresa che consentisse l’arresto di tutto il commando. Bisognava aspettare, mi disse, in modo che le prove fossero schiaccianti e non consentissero poi una scarcerazione dei terroristi, come, purtroppo, era già avvenuto nel nostro Paese in circostanze simili. Non ci saremmo rivisti fino alla conclusione dell’operazione, ma sarei stato comunque avvertito: nel giorno convenuto, all’uscita dal corso, qualcuno mi avrebbe infilato in tasca un bigliettino contenente un indirizzo. Dovevo soltanto attendere un minuto, aprire il bigliettino, leggere l’indirizzo ed accorrere al più vicino Commissariato di polizia.
Sarah mi aveva detto tutto in fretta, quasi avesse poco tempo a disposizione, ed io le avevo facilitato il compito ascoltando attentamente le sue parole e riducendo al minimo le domande di chiarimento. Ci abbracciammo in modo discreto e lei, prima di scomparire svoltando l’angolo, mi indirizzò  uno “shalom” che ancora oggi, a distanza di tanto tempo, non riesco a dimenticare.
Ero un po’ scioccato da quello che Sarah mi aveva detto e, soprattutto, mi sentivo coinvolto in una situazione che non sapevo se sarei riuscito a padroneggiare. Ma avevo fiducia: il Mossad era comunque una garanzia ed io dovevo dimostrami all’altezza di quanto mi era stato richiesto. Quella che Israele stava combattendo era una guerra per la  sopravvivenza ed io, qualche anno prima, avevo chiesto di poter partecipare a questa guerra: in fondo avevo ottenuto con qualche ritardo quel che cercavo  da tanto tempo.
Il giorno dopo incominciai a prepararmi per tempo a quello che avrei dovuto fare in uno dei giorni successivi. Mi sentivo un soldato e  sapevo che non dovevo farmi trovare impreparato nel momento del bisogno. Non andai al corso e mi diedi a localizzare il più vicino Commissariato di polizia nel tragitto che da Piazza San Marco, dove era ubicata la Facoltà di Lettere, lungo via Cavour portava verso Piazza  San Giovanni. Ne trovai uno in via Guelfa, abbastanza vicino quindi, e calcolai il tempo necessario per arrivarvi da Piazza San Marco: ci volevano solo quattro minuti e venti secondi. A voler contare anche il tempo necessario ad entrare, rivelare il piano  e comunicare l’indirizzo, immaginavo che nell’arco di quindici minuti al massimo un paio di volanti sarebbero  potute partire alla caccia dei terroristi.
Era passata quasi una settimana dall’ultimo incontro con Sarah e mi sentivo un po’ inquieto. Andavo ogni giorno al corso, in attesa del fatale bigliettino. Un Giovedì, uscendo dall’Università, notai davanti ad un chiosco un vecchio  e distinto signore che leggeva La nazione. Al mio apparire si spostò  e  mi venne incontro fin quasi a scontrarsi con me. Si scusò sorridendo e mi accorsi che con un rapido gesto aveva infilato un bigliettino nel  taschino della mia camicia. Attesi un po’, lo aprii con il cuore in tumulto e lessi: Mario Colnaghi, viale Etruria 20, 3° piano, Firenze.
Dopo circa venti minuti  dieci poliziotti, suddivisi in tre  auto civetta, si stavano già dirigendo verso l’indirizzo indicato. C’ero anche io con loro: mi avevano voluto a bordo, a prescindere dalle indicazioni fornite, perché li aiutassi a distinguere Sarah dagli altri terroristi.
Era una tiepida serata  estiva e, mentre percorrevamo velocemente le strade di Firenze, ebbi modo di notare l’andirivieni  frettoloso di tante persone che si apprestavano a ritornare a casa dopo una giornata di lavoro. L’aria era tranquilla, il sole era tramontato da poco ed anche la stella di Venere, particolarmente luminosa  nel cielo, sembrava del tutto indifferente alla tragedia che stava per consumarsi.
Giunti a destinazione, i poliziotti lasciarono le auto civetta a poca distanza l’una dall’altra e cinque di essi, in silenzio e con fare furtivo, aprirono il portone con un passepartout e si apprestarono a salire le scale  di un palazzo piuttosto vecchio e malmesso. Gli altri poliziotti  rimasero  a guardia del portone, mentre io attendevo in un’auto. Passarono alcuni minuti, che sembrarono eterni. Si avvertì  un colpo di pistola, uno solo, nitidissimo, che sembrò squarciare come un grido straziante il silenzio della sera.
 Accorsero gli altri poliziotti e accorsi pure io. Arrivai al terzo piano un attimo dopo gli altri, correndo per un tragico presentimento  e in tempo per vedere e capire quel che era successo.  In un ampio salone i poliziotti avevano  le armi puntate contro i terroristi, che a mani alzate si stavano arrendendo e venivano disarmati. In un angolo, dietro una poltrona si intravedeva un corpo  di donna riverso per terra.
Mi avvicinai e riconobbi quel volto: era Sarah,  ormai priva di vita. Presentava un unico foro alla nuca, da cui fuorusciva un rivolo di sangue, che imbrattava le sue treccine. I suoi occhi erano ancora aperti ed il suo volto appariva tranquillo, come fosse stata sorpresa, come   non si fosse nemmeno accorta del colpo fatale e non avesse avuto  il tempo di avvertire lo strazio della morte. Sarah sembrava trasfigurata da un leggero pallore ed anche la morte sembrava essere diventata bella nel suo bel viso scuro.