In un giorno di Primavera verso la fine
degli anni Cinquanta al Bar Centrale si presentò uno sconosciuto. Era una
persona matura, dall’età indefinita, ma aveva per certo l’atteggiamento e i
modi di un pensionato. Portava un vistoso anello al dito, presumibilmente
d’oro, con un quadrante nel quale apparivano incastonate delle pietre preziose
e, vicino a quell’anello, l’unghia del dito mignolo incredibilmente allungata. Lo sconosciuto
salutò con un sonoro “Buon giorno”, destando un po’ la meraviglia dei presenti,
non abituati a sentire dei saluti in
quel bar, dove tutti entravano ed uscivano senza troppe formalità. Poi si
diresse al bancone e chiese una birra, che sorseggiò lentamente, mettendosi quindi
a sedere in una posizione defilata,
sulla veranda che dominava la piazza circostante. Ordinò un’altra birra e, tra un sorso e l’altro,
estrasse un astuccio nel quale era riposto
un pacchetto di sigarette Camel. Ne tirò fuori una, poi estrasse da una
tasca interna un accendino che sembrava d’oro, accese la sigaretta e incominciò
ad aspirare profonde boccate di fumo, che infine emetteva dalla bocca e dal
naso con larghe volute.
I presenti incominciammo a seguire le sue
lente e studiate movenze, dandoci qualche gomitata, un po’ perché eravamo
incuriositi dallo spettacolo, un po’ perché ci interrogavamo a vicenda
sull’identità dello sconosciuto. Il quale, alla fine della sua “esibizione”, si
alzò lentamente, si diede una ripulita addosso, pagò alla cassa e, accennando
un inchino nel confronti dei presenti, si avviò verso l’uscita, scomparendo ben
presto al nostro sguardo.
Nessuno ancora sapeva niente di lui, ma non
fu necessario attendere molto per saperne qualcosa. Già dopo un paio di giorni,
ognuno in paese conosceva, o credeva di conoscere, l’identità del nuovo
arrivato. Si chiamava Carlo Turbide, o
meglio don Carlo, come tenne a precisare lui stesso, dal momento che i suoi
antenati, probabilmente di origine spagnola, erano stati tutti nobili e quindi
potevano fregiarsi di quel “don”. Evidentemente egli ignorava che ormai nel
Meridione quel titolo era del tutto svalutato e che a Napoli addirittura non lo
si negava nemmeno agli spazzini, pur con tutto il rispetto per quella
categoria benemerita e utilissima a mantenere il decoro
di ogni luogo abitato dagli umani. Comunque, anche in virtù della naturale
gentilezza dei paesani nei confronti di chiunque si presentasse come ospite,
tutti presero a riverirlo e ad omaggiarlo con quel titolo e si vedeva lontano
un miglio che egli tenesse molto a darsi un certo tono. Si seppe inoltre che
aveva comprato una villetta alla periferia del paese e che vi aveva preso dimora con una donna più giovane, forse quarantenne, che egli
presentava come sua moglie. Questa donna aveva tratti molto marcati e destava
la curiosità della gente perché fumava in pubblico, cosa allora considerata
disdicevole per una signora. I due non avevano parenti in loco, non avevano
amici e molti si chiedevano per quale
strano gioco del destino fossero finiti
proprio nel nostro paese, che offriva scarse attrattive ed era
difficilmente rintracciabile anche sulle carte geografiche.
Dopo qualche giorno si conobbe anche il
motivo della scelta. Il Turbide diceva di essere stato per circa quaranta anni
emigrato in Argentina, dove aveva fatto fortuna nel commercio delle carni, incominciando da semplice garzone di
macelleria. Diceva inoltre di essere venuto in contrasto con i Peronisti al
potere e che pertanto, giunto all’età in cui normalmente si tirano i remi in
barca, aveva deciso di ritornare in Italia. Dove, appena giunto, aveva sposato
quella giovane donna, che considerava una sorta di investimento per la sua
vecchiaia, per quando avrebbe avuto bisogna di qualcuno che lo accudisse e gli
stesse accanto. Aveva poi scelto il nostro paese, un posto “appartato,
tranquillo e lontano dalle procelle della vita”, come gli piaceva ripetere,
dove contava di vivere serenamente gli ultimi anni della vita e godersi le ricchezze accumulate.
I due facevano vita piuttosto ritirata e
solo al Sabato li si vedeva sfilare in auto, una elegante Lancia Flavia, un vero
lusso per quei tempi, diretti chissà dove, per essere di ritorno
immancabilmente il Lunedì successivo. Il Turbide si limitava a fare solitarie
passeggiate e solo di tanto in tanto amava farsi vedere con l’anziano direttore del locale Ufficio delle Poste, con
una frequentazione che aveva alimentato anche qualche diceria. Quel direttore era notoriamente un massone, anzi era l’unico
massone del paese, e quell’affiliazione non era allora ben vista, tanto che in
molte famiglie si parlava di lui come di un losco figuro, capace di qualunque
misfatto e di qualunque perversione. Quando il Turbide era giunto al paese, i
due si erano cercati e ritrovati quasi istintivamente e quell’amicizia, nata in
modo così spontaneo, aveva alimentato molte dicerie su di
loro, facendo presupporre anche l’appartenenza dei due ad un’unica consorteria
di ribaldi.
Il Turbide aveva inoltre un appuntamento
fisso. Ogni venerdì, immancabilmente, si presentava alla ricevitoria del
Totocalcio, dove alcuni giuravano di averlo visto scommettere cifre favolose. E
fu proprio questa sua passione per le scommesse che un bel giorno lo indusse a
mettersi in contatto con me. L’eccessiva
differenza di età e la mia cronica mancanza di soldi non mi inducevano di certo
a pensare che prima o poi avrei potuto stabilire una qualche relazione con lui.
Inoltre avevo nei suoi confronti una certa diffidenza, alimentata prima di
tutto dal suo contegno altezzoso, che mi induceva peraltro a nutrire nei suoi
confronti un cordiale disprezzo, ma alimentata anche dalle troppe voci malevole
che circolavano sul suo conto.
Un giorno mi sentii chiamare alle spalle. Ero
appena sceso dall’autobus, che quotidianamente mi portava avanti e indietro da
Crotone, dove frequentavo il Liceo. Mi voltai
e potei vedere che si avvicinava sfoggiando un largo sorriso. Mi chiese
se ero disposto a fargli visita a casa, dove avrebbe voluto parlarmi di
qualcosa di molto importante per lui e, probabilmente, anche per me. Ad una mia
pronta domanda si rifiutò di dare indicazioni più precise e
mi disse che mi aspettava al pomeriggio, a qualunque ora.
Pranzai
con il pensiero fisso a quell’insolita richiesta e mi domandai spesso in
che cosa potessi essergli utile. Verso le cinque del pomeriggio ero dietro la
porta di casa sua. Venne ad aprirmi la moglie, che in quella circostanza seppi chiamarsi
Ines e che mi introdusse in un ampio soggiorno, dove don Carlo evidentemente mi
aspettava da un bel po’.
Non si perse in preamboli e da persona
concreta, quale diceva di essere, arrivò subito al sodo. Mi raccontò della sua
irrefrenabile mania di giocare le schedine, mi raccontò delle grandi somme di
denaro che aveva già perse e concluse che solo io potevo aiutarlo a vincere. Di
fronte alle mie evidenti perplessità, volle precisare che mi aveva già sentito
qualche volta al Bar Centrale discutere di calcio con gli amici, che aveva
apprezzato la mia profonda conoscenza delle formazioni delle squadre, dei
turni, degli infortuni, delle squalifiche e concluse ribadendo che i suoi soldi
e le mie conoscenze erano garanzia di sicure, prossime vincite al Totocalcio.
In
quel periodo io leggevo sempre una rivista sportiva, Il calcio e il ciclismo illustrato, che oggi non si stampa più e
che allora io divoravo letteralmente, mandando tutto a memoria, ma non
diversamente da quanto facevano tanti altri ragazzi e giovani della mia età.
Non immaginavo però che alcuni illusi
potessero ritenere che bastava conoscere tutte quelle notizie per azzeccare i
pronostici delle partite di calcio. Cercai di schernirmi facendogli capire
quanto assurda fosse la sua illusione, ma egli non volle sentire ragioni e alla
fine riuscì a convincermi con una
promessa: se avessimo vinto qualcosa, una imprecisata parte della vincita
sarebbe stata mia. Nei pochi mesi del nostro sodalizio, pur migliorando progressivamente
i nostri risultati, non avrei mai avuto la possibilità di verificare la
sincerità delle sue promesse.
Diventammo amici, per quanto era possibile tra persone così diverse, e ci vedevamo generalmente
al pomeriggio di ogni Venerdì. Egli mi faceva trovare schemi, sistemi,
diagrammi, che sottoponeva alla mia approvazione e che verificava con le ultime notizie sul
campionato, che io gli fornivo e alle quali egli prestava una fede cieca e
assoluta. Qualche volta venivo invitato a restare a cena e io non me lo facevo
ripetere due volte, perché la Ines era capace di preparare degli intingoli
molto gustosi, ma soprattutto perché la stessa dimostrava nei miei confronti
una premura e una sollecitudine che qualche volta mi avevano dato da pensare.
Durante la cena si parlava un po’ di tutto e don Carlo mi faceva in particolare
una raccomandazione: per nessun motivo
dovevo mettere a parte dei nostri segreti e dei nostri incontri un gruppo di
sistemisti del Totocalcio, di cui costituivano l’anima il barbiere del paese,
Amedeo Grisi, ed un altro accanito scommettitore, Nicola Marino. Lo
tranquillizzavo, giurandogli fedeltà
eterna, tra un boccone e l’altro, tra un sorso di vino e l’altro, mentre di
lato seguivamo le prime puntate di Lascia
o raddoppia o qualche partita di calcio su un monumentale televisore in
bianco e nero, di cui don Carlo era uno dei primi, fortunati possessori.
Una sera
lo invitai a raccontarmi qualcosa della sua vita, ma egli si schernì,
sostenendo che non gli piaceva molto rivangare il passato. Non mi diedi per
vinto e la settimana successiva ritornai alla carica, ma ancora una volta egli
si rifiutò, come se volesse nascondere qualcosa. Presi a sfotterlo amabilmente
e, per provocarlo, addirittura gli dissi che mettevo in dubbio anche quel poco
che si sapeva di lui. Reagì male, ma reagì. Per convincermi, incominciò a straparlare
dell’Argentina e di Juan Domingo Peron, ma mi accorsi che le sue conoscenze non
andavano al di là di un qualunque articolo di giornale. Faceva confusione,
esitava, lasciava le frasi a metà, ignorava l’esistenza delle Pampas e insomma
mi accorsi che egli conosceva l’Argentina, dove pure diceva di essere vissuto
quaranta anni, come io conoscevo il Cipango. Molte cose non quadravano nei suoi
racconti, ma feci finta di nulla, anche se mi lasciai sfuggire delle
perplessità con qualcuno dei miei amici al Bar Centrale.
Qualche mese dopo, in un caldo pomeriggio di
Giugno, arrivato dal Turbide, vidi che davanti alla porta era posteggiata una gazzella dei carabinieri.
Fui tentato dall’idea di ritornare indietro, ma la scartai subito nell’ipotesi
che qualcuno potesse vedermi dall’interno e ritenere che avessi qualcosa da
nascondere. Un po’ preoccupato bussai e venne ad aprirmi la Ines. C’erano due
carabinieri, uno dei quali stava estraendo un documento da una cartella. Seduto
su una poltrona, affranto, c’era il Turbide, mentre la moglie, pur preoccupata,
aveva un’aria semplicemente rassegnata e stanca. Il carabiniere poi lesse ad alta voce il
documento, che era un mandato di cattura
spiccato nei confronti di tale Cesare Moncalvo, nato a Montalto Uffugo, in
provincia di Cosenza, il 4 Aprile 1902.
Il mandato faceva riferimento ad una condanna passata in giudicato, a due anni di
reclusione, per il reato di truffa aggravata di cui all’ articolo 640 e seguenti del Codice Penale e che il
condannato non aveva scontato per sopravvenuta latitanza. Insomma il Turbide-Moncalvo
era un truffatore, semplicemente un truffatore: fu portato via ammanettato e
provvisoriamente rinchiuso nel carcere mandamentale di Santa Severina. Dopo
qualche giorno fu trasferito nel carcere di Catanzaro.
La Ines ogni tanto andava a trovarlo,
guidando personalmente la sua auto, e un paio di volte la accompagnai fino al
parlatorio, dopo aver chiesto e ottenuto un permesso speciale a causa della mia
minore età. Diradai ovviamente anche le visite a casa sua, con
l’intenzione di troncarle del tutto
prima o poi. Già in precedenza i miei non avevano visto di buon occhio la mia frequentazione con “don
Carlo”, ma ora io stesso temevo di apparire inopportuno dal momento che la Ines
non aveva certo bisogno dei miei consigli per il Totocalcio, che lei
considerava semplicemente un sistema inventato dallo Stato per truffare un po’
di soldi alla povera gente, tanto per restare nel campo di attività preferito
dal marito.
In un afoso pomeriggio di Settembre, andai a
trovare la Ines, dopo qualche tempo che non ci vedevamo. Rimase un po’
sorpresa, ma mi accolse con evidente piacere e mi fece sedere in soggiorno
senza troppe formalità. Mi offrì un pezzo di torta, che trovai squisito e che
lei disse di aver preparato con le sue mani, e un liquore, che trovai molto
forte e che deglutii con qualche difficoltà, suscitando tra l’altro un suo
amabile sfottò. Poi lei incominciò a lamentarsi del caldo eccessivo di quel
giorno e, mentre parlava, anzi
cinguettava con la sua vocetta allegra, mi accorsi che non stavo seguendo più
di tanto il filo delle sue parole e che invece la stavo osservando con una
certa intensità , come forse non avevo mai fatto in precedenza. Notai che a
causa del caldo di quel giorno lei era generosamente scoperta in varie parti
del corpo e convenni che era ancora una bella donna.
Ad un certo punto lei si alzò quasi di
scatto e mi disse che avrebbe fatto un bagno. Mise un pentolone di acqua sul
fornello a gas in cucina e poi andò a
prendere un semicupio, che sistemò in un angolo del soggiorno. Allora le vasche
da bagno non erano molto diffuse nelle case e io non avevo mai visto una roba del genere, perché in estate il bagno ero
solito farlo al mare e in inverno in una tinozza rudimentale. Quando tutto fu
pronto, mi invitò a girarmi dall’altra parte ed io obbedii docilmente. La sentivo sguazzare
nell’acqua con un certo piacere e, alla fine , mi chiese se ero disponibile ad
asciugarle le spalle e a passarvi una certa crema. Non dissi di no ovviamente,
mi girai e presi l’asciugamano e il tubo di crema che lei mi porgeva.
Quel giorno, probabilmente, una confluenza
astrale favorevole aveva deciso che
lungo i sentieri dell’universo una serie di protoni, elettroni e neutroni si
unissero in dolce contatto fra di loro.
Per quanto mi riguardava, questa felice congiunzione avvenne in un pomeriggio
di Settembre del 1959, in una villetta alla periferia sud del mio paese, in un
soggiorno posto al piano terra, su un divano sul quale entrambi ci lasciammo cadere,
subito dopo che ebbi finito di spalmare quella crema.
Le mie visite dalla Ines, pur con qualche
accortezza, ripresero a diventare più frequenti, tanto più che entrambi
sapevamo che la pacchia non poteva durare
a lungo. Il Cesare o Cesarino Moncalvo, ormai ex Carlo Turbide, aveva
avuto un consistente sconto di pena per
buona condotta e stava per tornare a casa. E difatti arrivò a casa un giorno di
Ottobre del 1960, guidando personalmente l’auto con cui sua moglie era andata a
prenderlo, aspettandolo all’uscita dal carcere.
Andai a trovarlo pure io una sera e mi disse prima di tutto che dovevamo ricominciare
col Totocalcio. Ripresi le mie visite settimanali a casa sua e non soltanto
quelle, perché ormai c’era anche un altro motivo più convincente ad attirarmi
verso quella casa. Io e la Ines dovevamo
solo prendere qualche precauzione, perché per il resto le occasioni non
mancavano. Subito dopo il suo ritorno a casa, Cesarino aveva ripreso
l’abitudine di frequentare il direttore dell’Ufficio postale e con lui
combinava delle interminabili partite a poker, con giocatori occasionali, che a
volte si protraevano per tutta la notte. Quando io facevo finta di passare per
caso da casa sua, in realtà per vedere se la Ines era sola, non ci voleva molto
a capire la situazione. Cesarino aveva
l’abitudine, quando era in casa, di deporre il suo Borsalino sul tavolo del soggiorno e pertanto,
quando entravo, mi era sufficiente dare uno sguardo a quel tavolo per rendermi conto di tutto.
Un
giorno di Dicembre, mentre fuori faceva freddo e cadeva una pioggerellina
fastidiosa, ci eravamo incontrati io e la Ines, la quale mi aveva detto che
avevamo un paio d’ore di libertà. Avevamo acceso una stufa a gas e, al tepore
di quella stufa, ci eravamo sdraiati sul
solito divano, confortati anche dal tepore di una coperta che ci ricopriva
entrambi. Poi, forse esausti, forse incoscienti, avevamo finito con
l’addormentarci, mollemente abbracciati. Quando riaprii gli occhi, guardai sul
tavolo e con terrore mi accorsi che su quel tavolo c’era il Borsalino del Moncalvo.
Feci un salto, mi rivestii e rapidamente, senza far rumore e quasi scivolando sul
pavimento, guadagnai l’uscita.
Il
Venerdì successivo, quando mi presentai a casa loro, ero preparato al peggio.
Avevo già messo in conto qualche schiaffo o qualche pedata, ma questo non mi
aveva distolto dall’idea che comunque era preferibile affrontare a viso aperto
la nuova situazione. Ma non successe
niente. I due furono cordiali come sempre: preparammo le schedine del
Totocalcio e alla fine fui quasi costretto a rimanere per la cena. Durante la
quale notai che Cesarino era meno
loquace del solito e che ogni tanto sembrava seguire un suo rovello interiore.
Verso la fine della cena egli emise un profondo respiro e mi guardò fisso negli
occhi. “Vedi, mi disse, io ho ormai una certa età, che mi impedisce di fare
tutto quello che sarebbe necessario fare.”
Stavo sulle spine e temevo, o speravo, che egli andasse a parare a
quanto aveva scoperto qualche giorno
prima. Ma cambiò subito registro e continuò:” Si dà il caso che io ho
pure molti soldi, ma i soldi non sono mai troppi ed è un grande errore
lasciarli dove sono o non cercare di moltiplicarli. Per questo motivo ho deciso
di intraprendere una nuova attività, lecita sia ben chiaro, che mi consenta
di investire i miei soldi e di farne
molti di più. Si tratta di mettere su
una fabbrichetta di sottoli e sottaceti. Una cosa di tutta tranquillità, nella
quale non c’è alcun rischio e che io, alla mia età come ti dicevo, non posso
sbrigare da solo. Mia moglie non s’intende di queste cose e quindi non mi resti
che tu. Non ti chiedo molto: mi basterà
che tu mi dedichi solo un’oretta al giorno per tenermi aggiornati i conti e i registri. Per questo lavoro
riceverai un compenso. A tutto il resto, ovviamente, penso io: troverò il
locale, i fornitori e quattro o cinque ragazze come lavoratrici”.
Lo ascoltai senza essere capace di replicare
o di dire alcunché, ma l’idea di avere una paghetta fissa ogni settimana mi
allettava e quindi finii con l’accettare. La mia vita però incominciò a
complicarsi. La mattina prendevo l’autobus per andare al Liceo, a Crotone;
rientravo verso le due del pomeriggio, pranzavo e poi studiavo per un paio
d’ore; quindi passavo da un magazzino dove Cesarino aveva ubicato la sua
fabbrichetta; in un angolo, su un tavolino, mi limitavo a riordinare ed
elencare alcune fatture su un registro o
a fare qualche conteggio; al Venerdì sera c’era l’appuntamento fisso per le schedine del Totocalcio. A tutto
questo bisognava infine aggiungere gli incontri furtivi con la Ines. Ma questi
ultimi non mi comportavano alcun sacrificio, anzi incominciavano a diventare
più appaganti, da quando Cesarino aveva dimostrato di essere del tutto cieco, o
forse aveva solo fatto finta di esserlo.
Per il resto non potevo chiedere niente di
meglio: a parte la mia storia con la Ines, il Venerdì sera ero ospite fisso
alla loro mensa; settimanalmente ricevevo una paga di trentamila lire, una
cifra che in precedenza non avevo mai
visto; e infine da qualche tempo i due avevano preso l’abitudine di portarmi
spesso in giro con loro, per alberghi e ristoranti disseminati lungo le coste e
le montagne dei dintorni. Erano passati già alcuni mesi da quando la
fabbrichetta era stata avviata e gli affari andavano bene, o almeno sembravano
andare bene. L’unico inconveniente era che tutto veniva pagato rigorosamente in
nero, comprese le quattro ragazze alle quali settimanalmente il Cesarino
consegnava una busta con una cifra che si aggirava sulle ventimila lire.
Era il maggio del 1961 e un pomeriggio mi
avviai come al solito verso la fabbrichetta, quando da lontano vidi che sul
davanti erano radunate molte persone. Ebbi la netta impressione che fosse
successo qualcosa e mi affrettai. Giunto sul posto, mi si offrì agli occhi uno
spettacolo impressionante. Barattoli e
conserve erano sparsi un po’ dappertutto e tre ragazze piangevano sconfortate. Una di loro mi
raccontò quel che era successo: un pentolone rudimentale, in cui erano messe a
bollire le conserve, si era rovesciato ed aveva investito in pieno una ragazza,
provocandole ustioni gravissime in tutto il corpo. Il Moncalvo aveva prima
provveduto a portare la ragazza dal medico Mauro e da lì, dopo un sommario
esame, direttamente all’ospedale di Crotone.
Me ne uscii subito e, quasi mosso
dall’istinto, mi diressi verso la villetta dei Moncalvo. C’era solo la Ines,
che mi diede altri ragguagli sull’incidente, fumando una sigaretta dietro
l’altra. Poi, quasi in cerca di conforto, mi abbracciò singhiozzando. Piangeva
la sua sfortuna, la sua vita sprecata dietro un uomo che, diceva lei, l’aveva
sempre fatta vivere tra mille paure e mille pericoli. Finì col trascinarmi
sull’eterno divano dei nostri amori, dove per un po’ dimenticammo entrambi le
angustie del vivere quotidiano e finimmo anche con l’assopirci, strettamente
abbracciati.
Verso
sera arrivò Cesarino il quale si disse convinto, anzi sicuro, che di lì a poco
sarebbero venuti ad arrestarlo. Incominciò a preparare le sue cose, quelle che
gli erano sempre state necessarie nei vari periodi della vita, che aveva
trascorso in “collegio”, come egli amava definire il carcere. Quando ebbe
finito di preparare le sue cose, si rivolse a me e in modo pacato mi espresse i
suoi desideri.” Ti raccomando la Ines, concluse. Tu hai fatto tanto per me e io
non ti ho ripagato adeguatamente. Non abbiamo
mai vinto al Totocalcio, è vero, ma ti ho dato un piccolo stipendio negli
ultimi mesi. Forse era poco per quello che facevi, ma ti sei rifatto abbondantemente con la Ines.
Non negare, sapevo tutto, anche se ho fatto finta di niente, e anche tu sapevi
che io sapevo. Ma meglio così. Meglio tu che un altro. Almeno tu sei stato un
amico per me e, se le cose fossero andate bene, ti avrei riempito di soldi, che
peraltro meritavi, perché sei un bravo
ragazzo e meriti di meglio, piuttosto che incontrare uno come me e come la
Ines. Il fatto è che, nella lunga partita a scacchi che da tanti anni ho
intrapreso con la vita, speravo almeno di finire in pareggio, con una ics, e
invece la partita è sempre finita con un
due, con la mia sconfitta.”
Si sentì il suono di una sirena ed andai a
vedere. Due carabinieri si stavano dirigendo verso l’ingresso, mentre
tutt’intorno si era radunato un capannello di curiosi. Non ci fu nemmeno bisogno
di leggere il mandato di cattura emesso dal pretore di Santa Severina nei confronti del Cesarino Moncalvo, il quale
chiese soltanto che non gli fossero messe le manette e fu accontentato. Poi
abbracciò la moglie e si apprestò a seguire i carabinieri, che ad ogni buon
conto lo guardavano a vista. Mentre si avviava, si voltò verso di me, abbozzò
un leggero saluto con la mano, ma soprattutto mi fece chiaramente un cenno d’intesa, con un
occhiolino.
Non l’avrei più rivisto.
Ezio Scaramuzzino