Il 5 giugno 1967 scoppiò la Guerra dei sei
giorni tra Israele e i Paesi arabi. Ascoltai la notizia alla radio, al mattino, e mi colpì molto il
pensiero che un piccolo Paese di poco più di un milione e mezzo di abitanti
potesse fare guerra contro vari Paesi contemporaneamente. Maturò in quei giorni il mio amore per
Israele, per quel popolo eroico e infelice, le cui tribolazioni sembrava non dovessero finire mai.
Passarono gli anni e la campagna di odio nei
confronti del giovane stato non
accennava a placarsi. Sentivo di dover fare qualcosa di concreto e maturai
l’idea generosa, forse anche un po’
spavalda, di arruolarmi nello Tsahal, l’esercito israeliano. Nell’Ottobre del
1970 indirizzai una lettera in tal senso all’ambasciata d’Israele a Roma e
qualche giorno dopo ricevetti una risposta. Tale Lucy Barnes, primo segretario
d’ambasciata, mi ringraziava per la mia disponibilità, ma mi comunicava che
l’esercito d’Israele non arruolava cittadini stranieri. Rimasi un po’ sorpreso,
ma non molto dispiaciuto: il mio primo intendimento in fondo era quello di fare un atto d’amore nei
confronti di un popolo e quest’atto d’amore era stato comunque recepito ed
apprezzato.
Seguii a lungo e con attenzione le vicende,
ora tristi, ora liete, del Medio Oriente, mentre intanto la mia vita andava avanti. A Luglio
del 1971, ormai laureato da qualche anno, ritornai a Firenze per frequentarvi
un corso di specializzazione post laurea sulla storia del Medio Oriente. Nella Facoltà
di Lettere ci ritrovammo circa un
centinaio di persone provenienti da vari
Paesi. Il primo giorno arrivai con un po’ di ritardo, mi registrai al corso ed
ascoltai la dissertazione di un barbuto
e non meglio conosciuto professore sudamericano, che intrattenne l’uditorio su
“Le responsabilità del Sionismo internazionale nell’attuale crisi del Medio Oriente”. Il secondo giorno, tanto per cambiare, un
docente francese di origine algerina tenne una lezione su “La nascita dello stato d’Israele come atto
di aggressione imperialista nei confronti del popolo palestinese”.
Ero tentato dall’idea di abbandonare il
corso, per evitare di ritrovarmi
coinvolto ogni giorno di più in una sorta di psicosi maniacale, di tipo
nazi-comunista, che mirava solo a tenere Israele sul banco degli accusati. Il
terzo giorno ero già pronto a sorbirmi l’ennesimo pistolotto ideologico, ma la
mia attenzione fu richiamata dalla presenza di una giovane donna di colore, che
si sedette vicino a me. Mentre un relatore dissertava su “L’imperialismo delle
multinazionali e il neocolonialismo”, ebbi modo di osservare quella giovane
donna.
Dimostrava circa trenta anni, aveva la pelle
molto scura, il naso leggermente schiacciato, i capelli ritorti in tante
treccine lunghe e sottili. Aveva un portamento eretto e mi sembrò bellissima:
chissà perché mi venne di pensare alla mitica regina di Saba. Ebbi un attimo di
imbarazzo quando lei, voltandosi verso di me, si accorse che io la stavo
osservando con attenzione, ma il mio imbarazzo cessò subito, perché lei mi
sorrise ed io, istintivamente, ricambiai quel sorriso. Alla fine della lezione
quella giovane donna si avvicinò e mi chiese se ero disponibile ad accompagnarla per un tratto
di strada. Non me lo feci ripetere due volte.
Parlava molto bene l’ Italiano, ma con un
accento ed una cadenza che lì per lì non riuscii a definire. Parlammo del
corso, della situazione politica generale, della tensione in Medio Oriente, di
Israele, del terrorismo palestinese. Ad
un certo punto mi disse chiaramente di
sapere che io mi sentivo ed ero un amico di Israele, ma soprattutto lei sapeva
della mia domanda di arruolamento di qualche anno prima. Mi allarmai e temetti
un tranello, del quale incominciavo ad avvertire fumosamente i contorni: le
chiesi come facesse a sapere tutto questo.
E lei mi raccontò la sua vita e dissipò le
mie paure. Sarah, così si chiamava, era un’ebrea di origine etiope,
appartenente al misterioso popolo dei
Falascià. All’età di venti anni, era riuscita a riparare in Israele con la sua
famiglia, una delle poche ad essere riuscite nell’impresa: qui era vissuta, qui aveva fatto il servizio
militare, qui infine era diventata agente del Mossad, il mitico servizio
segreto israeliano. Per frequentare il corso era stata fornita di un falso
passaporto della Somalia e di una falsa identità, Nazeera Bekr. Il suo compito
era quello di trovare informazioni e possibilmente scoprire tra i corsisti una cellula terroristica, che doveva compiere un
attentato contro la sinagoga di Firenze. Io potevo riuscirle utile in un
ruolo di copertura, con compiti che mi avrebbe comunicato man mano che se ne fosse presentata la
necessità. Il suo piano consisteva nel
farsi passare per una fanatica musulmana, disponibile a tutto, per infiltrarsi
nella rete e sconvolgerla dall’interno.
Rimasi perplesso ed attratto nello stesso
tempo: Sarah emanava un incredibile fascino ed era difficile resisterle.
Parlava in modo pacato e soprattutto non
dimostrava alcuna paura di
affrontare una prova così rischiosa in
un mondo crudele e sanguinario, quale era quello del terrorismo. Stabilimmo che
ci saremmo rivisti ogni giorno, alla fine del corso, e che in un modo o nell’altro lei mi avrebbe
fornito ulteriori istruzioni. L’ attrazione per lei crebbe quando, alla fine del nostro primo
incontro, davanti al portone di un palazzo nei pressi di Piazza della Signoria,
dove lei aveva preso alloggio, mi abbracciò con un trasporto che a me sembrò
foriero di ulteriori, interessanti sviluppi.
Il giorno dopo, nel dibattito aperto alla
fine della lezione, Sarah chiese di poter parlare. Attaccò con violenza la
politica di Israele, facendo riferimento addirittura al Protocollo dei sette savi di Sion e ottenne un discreto successo,
coronato da numerosi ma non unanimi applausi. La consueta passeggiata dopo il
corso si concluse questa volta prima in un ristorante e poi a casa sua, dove
rimasi suo ospite fino al mattino.
Per qualche giorno non rividi Sarah, con
qualche preoccupazione, ma evitai di cercarla a casa sua. Al nostro successivo
incontro, mi fece subito sapere che la sua sparata di qualche giorno prima non
era stata infruttuosa: era stata avvicinata da un Venezuelano, tale Antonio
Cabrera, che prima aveva cercato di approfondire meglio la sua conoscenza e
poi, rassicurato sulle intenzioni e sulle capacità rivoluzionarie di Sarah,
l’aveva invitata a casa sua. Qui lei aveva trovato e conosciuto altre due
persone, un uomo ed una donna, entrambi Argentini, apparentemente brave
persone, dagli atteggiamenti raffinati e cortesi, tipici di una sana famiglia
borghese. I tre, davanti a Sarah-Nazeera, non si compromettevano più di tanto e
parlavano piuttosto genericamente e fumosamente di rivoluzione prossima ventura,
di resistenza politica e di controinformazione.
Era stata Sarah a provocarli ed a farli
uscire allo scoperto: il giorno dopo aveva rivelato ai nuovi amici la sua
perfetta conoscenza della lingua Ebraica, appresa, a suo dire, in un quartiere
di Mogadiscio abitato prevalentemente da Ebrei, ed aveva anche rivelato una sua
grande padronanza nel maneggio di esplosivi. Antonio Cabrera le aveva risposto
che delle sue competenze pirotecniche potevano fare a meno, dal momento che
essi disponevano abbondantemente di materiale e di esperti, ma che la sua
conoscenza della lingua ebraica poteva risultare estremamente utile. In breve
le rivelò il piano di un attentato alla sinagoga di Firenze di via Luigi Carlo
Farini: l’attentato era previsto per un giorno di Sabato, in attesa che un corriere consegnasse loro una partita di fucili Kalashnikov e di bombe
fabbricate col micidiale Semtex. Lei avrebbe avuto il compito di distrarre, con
la sua conoscenza dell’Ebraico, alcuni vigilantes interni alla comunità ed
aprire il passaggio al resto del commando, che avrebbe poi provveduto ad eliminare i due poliziotti italiani di
guardia, lanciare le bombe e compiere una strage tra i partecipanti ai riti
religiosi. Il commando, dopo la strage, contava di ritirarsi lungo l’adiacente
via dei Pilastri, dove un’auto in attesa, messa a disposizione dal
consolato bulgaro, avrebbe portato tutti
in salvo.
Sarah mi comunicò che il mio compito era
quello di avvertire, al momento opportuno, un qualunque commissariato di
polizia e favorire un’azione di sorpresa che consentisse l’arresto di tutto il
commando. Bisognava aspettare, mi disse, in modo che le prove fossero
schiaccianti e non consentissero poi una scarcerazione dei terroristi, come,
purtroppo, era già avvenuto nel nostro Paese in circostanze simili. Non ci
saremmo rivisti fino alla conclusione dell’operazione, ma sarei stato comunque
avvertito: nel giorno convenuto, all’uscita dal corso, qualcuno mi avrebbe
infilato in tasca un bigliettino contenente un indirizzo. Dovevo soltanto
attendere un minuto, aprire il bigliettino, leggere l’indirizzo ed accorrere al
più vicino Commissariato di polizia.
Sarah mi aveva detto tutto in fretta, quasi
avesse poco tempo a disposizione, ed io le avevo facilitato il compito
ascoltando attentamente le sue parole e riducendo al minimo le domande di
chiarimento. Ci abbracciammo in modo discreto e lei, prima di scomparire
svoltando l’angolo, mi indirizzò uno
“shalom” che ancora oggi, a distanza di tanto tempo, non riesco a dimenticare.
Ero un po’ scioccato da quello che Sarah mi
aveva detto e, soprattutto, mi sentivo coinvolto in una situazione che non
sapevo se sarei riuscito a padroneggiare. Ma avevo fiducia: il Mossad era
comunque una garanzia ed io dovevo dimostrami all’altezza di quanto mi era
stato richiesto. Quella che Israele stava combattendo era una guerra per
la sopravvivenza ed io, qualche anno
prima, avevo chiesto di poter partecipare a questa guerra: in fondo avevo
ottenuto con qualche ritardo quel che cercavo
da tanto tempo.
Il giorno dopo incominciai a prepararmi per
tempo a quello che avrei dovuto fare in uno dei giorni successivi. Mi sentivo
un soldato e sapevo che non dovevo farmi
trovare impreparato nel momento del bisogno. Non andai al corso e mi diedi a
localizzare il più vicino Commissariato di polizia nel tragitto che da Piazza
San Marco, dove era ubicata la Facoltà di Lettere, lungo via Cavour portava
verso Piazza San Giovanni. Ne trovai uno
in via Guelfa, abbastanza vicino quindi, e calcolai il tempo necessario per
arrivarvi da Piazza San Marco: ci volevano solo quattro minuti e venti secondi.
A voler contare anche il tempo necessario ad entrare, rivelare il piano e comunicare l’indirizzo, immaginavo che nell’arco di quindici minuti al
massimo un paio di volanti sarebbero
potute partire alla caccia dei terroristi.
Era passata quasi una settimana dall’ultimo
incontro con Sarah e mi sentivo un po’ inquieto. Andavo ogni giorno al corso,
in attesa del fatale bigliettino. Un Giovedì, uscendo dall’Università, notai
davanti ad un chiosco un vecchio e
distinto signore che leggeva La nazione. Al
mio apparire si spostò e mi
venne incontro fin quasi a scontrarsi con me. Si scusò sorridendo e mi accorsi
che con un rapido gesto aveva infilato un bigliettino nel taschino della mia camicia. Attesi un po’, lo
aprii con il cuore in tumulto e lessi: Mario Colnaghi, viale Etruria 20, 3°
piano, Firenze.
Dopo circa venti minuti dieci poliziotti, suddivisi in tre auto civetta, si stavano già dirigendo verso
l’indirizzo indicato. C’ero anche io con loro: mi avevano voluto a bordo, a
prescindere dalle indicazioni fornite, perché li aiutassi a distinguere Sarah
dagli altri terroristi.
Era una tiepida serata estiva e, mentre percorrevamo velocemente le
strade di Firenze, ebbi modo di notare l’andirivieni frettoloso di tante persone che si
apprestavano a ritornare a casa dopo una giornata di lavoro. L’aria era
tranquilla, il sole era tramontato da poco ed anche la stella di Venere,
particolarmente luminosa nel cielo,
sembrava del tutto indifferente alla tragedia che stava per consumarsi.
Giunti a destinazione, i poliziotti lasciarono
le auto civetta a poca distanza l’una dall’altra e cinque di essi, in silenzio
e con fare furtivo, aprirono il portone con un passepartout e si apprestarono a
salire le scale di un palazzo piuttosto
vecchio e malmesso. Gli altri poliziotti
rimasero a guardia del portone,
mentre io attendevo in un’auto. Passarono alcuni minuti, che sembrarono eterni.
Si avvertì un colpo di pistola, uno
solo, nitidissimo, che sembrò squarciare come un grido straziante il silenzio
della sera.
Accorsero gli altri poliziotti e accorsi pure
io. Arrivai al terzo piano un attimo dopo gli altri, correndo per un tragico
presentimento e in tempo per vedere e
capire quel che era successo. In un
ampio salone i poliziotti avevano le
armi puntate contro i terroristi, che a mani alzate si stavano arrendendo e
venivano disarmati. In un angolo, dietro una poltrona si intravedeva un
corpo di donna riverso per terra.
Mi avvicinai e riconobbi quel volto: era Sarah, ormai priva di vita. Presentava un unico foro
alla nuca, da cui fuorusciva un rivolo di sangue, che imbrattava le sue
treccine. I suoi occhi erano ancora aperti ed il suo volto appariva tranquillo,
come fosse stata sorpresa, come non si
fosse nemmeno accorta del colpo fatale e non avesse avuto il tempo di avvertire lo strazio della morte.
Sarah sembrava trasfigurata da un leggero pallore ed anche la morte sembrava
essere diventata bella nel suo bel viso scuro.
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