Con le mie gambe malferme,
lentamente, mi muovevo per arrivare a casa tua. Attraversavo quasi tutto il
paese e ogni tanto mi soffermavo per cercare di riconoscere i pochi che mi
sfioravano, squadrandoli o girandomi indietro
per inseguirli con lo sguardo nel loro cammino. Ma in ogni tempo, col freddo dell’inverno
o nella calura dell’estate, custodivo bene stretta una lettera che veniva
da lontano. Se non c’eri, ti aspettavo
con trepidazione e, quando arrivavi, tu aprivi subito la lettera che io riponevo nelle tue
mani. Stavi attento a non lacerarla troppo, perché quella lettera probabilmente
conteneva dei dollari, che avevano superato i mari e i monti, ma soprattutto
avevano superato la bramosia e la
mancanza di scrupoli degli
impiegati di due continenti. Erano i
miei figli a mandarmi quei soldi, quelli, tra i miei figli, che un giorno erano
partiti per terre lontane. Io parlavo con loro attraverso di te e tu, giovane
studente, mi seguivi con lo sguardo e
badavi a non sciupare l’incanto di quel dialogo che superava le barriere dello
spazio e del tempo. Ogni tanto mi commuovevo. Poi tua madre veniva
immancabilmente a portare della frutta,
magari un cesto di pere o un vassoio pieno di fichi d’india già sbucciati, ed
io ero contenta di quel dono. Dimenticavo per un attimo le gioie e i dolori della vita.
Ho conosciuto giorni lieti e tristi,
ma ho accettato la vita, godendo e assaporando la linfa del giorno. Non ho gioito
oltre misura e non ho imprecato o gridato, perché sapevo che la vita è un dono
e che, in ogni caso, essa è degna di
essere vissuta. Nella luce che mi circonda, ora la mia famiglia è diventata
tanto più grande e nessuno abbandona più il luogo che gli è stato assegnato.
Noi siamo qui per l’eternità.
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