mercoledì 24 luglio 2013

Una battuta di caccia (Racconto) di Alfredo Giglio

                                       

Masino Bevilacqua era un povero contadino di Scandale, figlio di contadini e discendente da una ininterrotta generazione di contadini. Dal paese fino al suo podere c’era una distanza di sette chilometri, su un sentiero impervio, che Masino percorreva quotidianamente in groppa al suo asino, non dimenticando mai di portare con sé anche la vecchia doppietta da caccia a cani esterni, appartenuta a suo padre,  ma ancora perfettamente funzionante.
La passione per la caccia l’aveva ereditata dal genitore e dal nonno, come pure quel piccolo podere, posto su una collina e talmente arido che, camminando fra le piante, non si poteva fare a meno di sollevare nugoli di polvere. La sua fertilità era affidata alla pioggia, che oltretutto scorreva via facilmente a causa della ripidità del terreno.  Il podere era coltivato parte  a vigneto e parte ad uliveto ed  il lavoro era tanto: Masino si spaccava le mani e la schiena, ma la resa era sempre scarsa. Per produrre  un quintale di olio all’anno, e solo quando era “buon’annata”, occorreva raccogliere le olive da terra una ad una: venti giorni di duro lavoro per lui e la povera moglie, costretta ad affidare ai vecchi nonni i tre figli ancora piccoli. Il vigneto produceva due o tre  quintali di vino, che egli era costretto a rivendere in parte al minuto, per procurarsi un po’ di denaro contante. Per cercare di sfruttare al massimo la terra e ricavarne un maggiore profitto, Masino piantava anche, fra gli ulivi, fave o altre colture che non necessitavano di acqua.
La caccia la praticava soprattutto per necessità: portare a casa una lepre, qualche colombaccio, un tasso, delle tortore, quaglie o tordi non era cosa da poco, perché questa era l’unica carne che la famiglia poteva permettersi. Aveva poi scoperto che le pelli di volpe erano ancora richieste da una conceria della Toscana e perciò la caccia alla volpe era diventata un passatempo impegnativo e fonte di qualche ulteriore guadagno. Riusciva a collezionare in una stagione di caccia anche venti pelli, che cospargeva prima di sale e poi di una soluzione arsenicale, per allontanare il fenomeno della putrefazione. Poi le conservava con cura in un magazzino, al fresco, fino alla fine di giugno, quando passava il furgone della ditta che le ritirava, in cambio di un  assegno, che gli consentiva di tirare avanti per qualche mese. Masino non teneva conto dei periodi di apertura e chiusura della caccia, un po’ perché era analfabeta e un po’ perchè sapeva benissimo che in quelle campagne assolate, lontano dalle strade asfaltate, era difficilissimo imbattersi in pattuglie di carabinieri o di poliziotti. Al massimo si sarebbe imbattuto nelle guardie forestali, che lui conosceva benissimo e che cercava di intravedere a distanza, per poter cambiare strada.
Una mattina di inizio aprile, Masino decise di andare a caccia col suo fedele segugio, nella speranza di uccidere qualche volpe. Se l’avessero pescato, avrebbe detto che era a caccia di animali nocivi, perché, secondo una stupida direttiva allora vigente, tali cacciatori erano tollerati e anzi osannati. In realtà i cacciatori ne approfittavano per poter sparare, prima dell’apertura della caccia, alle tortore e alle quaglie  che numerose giungevano dall’Africa sul litorale ionico, per poi proseguire verso l’altopiano della Sila.
Era partito da casa verso l’alba, tenendo il fido Liù legato con una lunga corda al basto dell’asino. Aveva chiamato il cane "Liunu" (Leone), che però riduceva sempre a "Liù": un segugio coraggioso e resistente, che più volte nei boschi di Turrutio era riuscito a stanare persino dei grossi cinghiali, che poi Masino, con gioia ed orgoglio, aveva uccisi e caricati sull’asino per portarli a casa.
Quella mattina, giunto su una collinetta ricca di piante di lentisco, aveva liberato il cane, che col naso incollato al terreno cercava di individuare la traccia da seguire. Dopo una decina di minuti, i guaiti concitati dell'animale attirarono l’attenzione di Masino, che subito nascose l’asino nel folto della vegetazione profumata di lentischi frammisti a rovi intricati, lecci e tamerici, mimetizzandosi lui stesso nella fitta macchia verde e ponendosi in posizione di mira. Il sole era sorto da poco e le ombre degli alberi erano lunghe come fantasmi. Ma, pur in quell’atmosfera di luci e di ombre, il cacciatore non tardò ad individuare la preda: una volpe dava fondo a tutta la sua astuzia e a tutta la sua esperienza per seminare il segugio, che l’inseguiva e non le dava respiro. Già una volta  i due animali erano passati a tiro davanti a Masino, che non aveva potuto sparare perché Liù era troppo vicino alla volpe.
Ad un tratto i guaiti del segugio incominciarono ad affievolirsi fino a non sentirsi più e Masino capì che preda ed inseguitore si erano allontanati parecchio. Rimase fermo e pensieroso, tenendo in mano la sua vecchia doppietta e, dopo una ventina di minuti, abbassò i cani del fucile, che sistemò sulla spalla.
Dopo più di un’ora, il sole era alto nel cielo e faceva sentire il suo tepore. L’aria si riempiva di moscerini e di farfalle. Masino salì in groppa all’asino e si diresse verso il fondovalle dove, a circa due chilometri di distanza, si intravedeva un burrone, coperto da una vegetazione folta, spinosa ed intricata, quasi impenetrabile: probabilmente la volpe aveva attirato il cane proprio lì. Lei, più agile e più piccola, si sarebbe mossa agevolmente nel sottobosco e sarebbe sfuggita alla  caccia spietata del cane.
Giunto al burrone, che rimaneva sottostante al sentiero, Masino sistemò l’asino all’ombra di un leccio e proseguì a piedi. Finalmente, dopo una mezz’ora di cammino, sentì lontano l’abbaiare stentato del cane, molto diverso dal guaire frenetico e gioioso di prima. Capì che Liù doveva essere arrivato al limite delle forze e si inoltrò  decisamente nel folto della vegetazione, che ricopriva il letto di un torrente ormai secco e pietroso. Camminava più svelto che poteva, tendendo l’orecchio per individuare l’esatta posizione dei due animali. Dopo un po’, la voce del segugio, che forse aveva avvertito la presenza del padrone, si udì netta e ferma. Masino, col cuore in gola, s’avvicinò circospetto, aspettando che la volpe balzasse fuori per darsi alla fuga: un minuto, due minuti, non succedeva nulla!
Spiò nel folto della vegetazione ed intravide una scena che non si aspettava proprio. In quel punto gli argini del burrone erano franati e la corsa della volpe, ormai stanchissima come il cane, era terminata. Il segugio era immobile su di lei, che si era posizionata a zampe in aria in segno di resa e forse attendeva l’assalto finale, che l’avrebbe condotta a morte sicura. Masino era contento, ma commosso: non aveva il coraggio di infierire su una combattente valorosa, contro la quale anche il cane si era fermato, quasi a  renderle l’onore delle armi. Chiamò Liù al suo fianco e attese che la volpe si movesse. L’animale era ferito, insanguinato, ma ancora vivo: si fermò solo  un attimo ad osservare i suoi antagonisti, poi si girò e, trotterellando, si allontanò, perdendosi fra la macchia. Masino notò che la volpe aveva le mammelle turgide e capì che, da qualche parte nei dintorni, doveva esserci la nidiata dei volpacchiotti. Maturò l’idea di catturare proprio quei volpacchiotti, che avrebbe potuto allevare e poi vendere, e per quel giorno decise di lasciar perdere.
Il giorno seguente, sempre all’alba, partì senza il cane. Aveva già capito dove potesse essere la tana di quella volpe e portava con sé solo una corta vanga. Dopo quasi mezz’ora di ricerche, quando c’era già luce sufficiente, individuò, ai piedi di una collina d’arenaria, un buco per terra, largo circa 25 centimetri: fuori erano visibili numerose impronte di volpe adulta e di almeno due cuccioli.
Scese dall’asino, lasciandolo libero di pascolare sul terreno arido, e cominciò a scavare con la vanga per allargare l’ingresso della tana: era deciso a catturare i piccoli, che probabilmente erano anche più di due. Dopo avere allargato abbastanza il foro d’ingresso della tana, si piegò e s’infilò, strisciando per terra come un serpente, per circa due metri, fino a sentire dei rumori. Non vedeva nulla a causa del buio, ma anche perché il cunicolo faceva una leggera curva a sinistra. Masino, che non era tipo da arrendersi, pensò che fare altri due o tre metri fosse cosa ardua ma non impossibile. Continuò ad avanzare caparbiamente e percorse un altro metro, quando avvertì un leggero flusso d’aria e capì che la tana doveva avere un’altra uscita, cosa che non aveva preso in considerazione. Decise di uscire da quella trappola, perché intuì che  non avrebbe trovato niente.
Ma ormai era troppo tardi: era penetrato troppo ed uscire spingendosi all’indietro, senza poter muovere le braccia che erano rimaste bloccate in avanti, era praticamente impossibile. Si sentì perduto, perse la calma, si dimenò un pochino e, facendo forza sulla schiena e sui fianchi, causò una frana  che si richiuse sopra di lui, togliendogli il respiro e la vita.
A sera inoltrata iniziarono le ricerche della famiglia e degli amici, al chiarore di una luna piena che impassibile illuminava  il cielo, e solo verso la mezzanotte il suo fedele Liù lo ritrovò sepolto sotto la collina. Cominciò ad abbaiare ed a smuovere il terreno con le zampe, attirando l’attenzione di quella decina di persone che si erano impegnate a trovarlo. Dopo un’ora di scavo, Masino venne tirato fuori, morto, coi vestiti strappati nell’immane sforzo di uscire da quella tana. La moglie, che era presente, pianse disperatamente, si graffiò il volto e si strappò i capelli, inutilmente trattenuta dai presenti. Tutti piangevano per la sua morte e per il destino di quella povera donna che  da sola avrebbe dovuto accudire i suoi tre bambini. Poi gli amici costruirono una rudimentale lettiga con rami e vimini variamente intrecciati e vi adagiarono il povero Masino, limitandosi a ricoprirne il volto con una giacca. La mesta processione si mosse, superò strade e viottoli di campagna e giunse in paese, quando la notizia si era già sparsa. Tanti si fecero il segno della Croce al passaggio e tanti si accodarono per accompagnare  Masino nel suo ultimo ritorno a casa.
Da quel giorno in paese si sparse  la leggenda che le tane delle volpi erano protette da una divinità malefica, che dava la morte a chi avesse osato profanarle.

Alfredo Giglio


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