Nel
mio salone in piazza Oberdan ho rasato a zero generazioni di bambini, perché
c’erano dei rischi a portare i capelli lunghi e
poi la testa a meloncino consentiva di diluire nel tempo la successiva rasatura. Ho anche sbarbato
generazioni di contadini, che mi pagavano “a raccolta”, come si diceva: mi
pagavano cioè con i prodotti dei loro campi e talvolta non mi pagavano per
niente, perché i campi non producevano niente. Si viveva di poco e io vivevo di
poco allora. Ma non ero contento: la vita
che fluiva monotona, stagione dopo stagione, non era per me. Ho sognato,
ho suonato la chitarra ed ho giocato a carte, a bocce, al totocalcio:
ho scommesso, cercando di riannodare in tal modo l’anello che non tiene e che
talvolta rende amara l’esistenza.
Una
volta, ricordo, giocai a bocce anche con te, giovane studente pretensioso.
Vinsi facilmente ed evitai di infierire,
di spillarti altri soldi, perché tu eri destinato a perdere, perché tu ti
limitavi a conoscere la vita attraverso i libri, mentre io leggevo direttamente
nel libro della vita. Ho giocato ed ho scommesso, certo, talvolta vincendo e
talvolta perdendo, come sempre avviene. Non sapevo allora che la mia scommessa
più grande io l’avrei vinta dopo la vita.
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