venerdì 10 marzo 2017

Incontri (racconto inedito) di Giuseppe Pipino


Un uomo la seguiva da un pezzo. Occhiali da sole, alto, giovane - sì e no trent'anni - atletico, capelli molto lunghi, a treccine (strano modo d'acconciarli). L'aveva visto al bar e fissato per un lungo istante, senza rendersi conto del significato che quello sguardo poteva assumere. Gli occhi di lui avevano incrociato veloci i suoi e vi si erano piantati dentro, appuntiti e scuri come artigli.
Quell'uomo doveva avere frainteso il suo sguardo che era solo curiosità, o, tutt'al più, un po' d'ammirazione per quel corpo che s'intuiva nervoso, giovane, i muscoli turgidi, lo sguardo duro e disperato, annegato nel fondo d'un bicchiere di vodka.
Tutto ciò le aveva risvegliato, inesorabilmente, i sentimenti materni più profondi.
Poi quell'uomo s'era girato.
Tentò di fare marcia indietro, ma ormai era tardi: tutti riuscivano a leggerle dentro come in una casa di vetro. Per proteggersi aveva cercato d'ingannarlo, di concentrarsi su qualcos’altro. Pensò intensamente che odiava quel tipo d'uomo: i capelli unti ridondanti sporcizia, i canini sporgenti, cattivi e primitivi (un rossore, un afrore, più pensava e più saliva fin quasi a mozzarle il fiato).
Se non la smetteva di fissarla a quel modo si sarebbe messa a gridare come una pazza, o gli avrebbe spezzato un bicchiere in un occhio. Perché, Dio mio, non la smetteva?

Uscì. In fondo era semplice: poteva pensarci prima. Ma non sapeva se farlo a testa china, evitandone lo sguardo o, viceversa, fissandolo dritto negli occhi, dura. Ebbe paura di fare l'una cosa e l'altra: sbagliò porta, ritornò indietro, inciampò. Finalmente uscì.
L'alito freddo della sera sul volto ne sbiancò e dissolse il rossore. Il sangue defluì lungo le vene e si mosse, un po' sbandando, un po' correndo.

Da quanto tempo non conosceva un uomo?
Che la facesse sentire viva, vitale, che l'amasse quanto bastava a piacersi. E invece, guardarsi allo specchio, al mattino, era solamente un incubo. Da tempo il marito non era più un uomo con lei, se mai lo fosse stato.

Era sera ed i rumori giungevano attutiti. Gatti sgusciavano dentro finestrelle scure di cantine. Acqua defluiva nei tombini gorgogliando. Era piovuto da poco: pioveva sempre in quel maledetto inverno, che non finiva mai.
Rumori di tacchi in lontananza, ma non troppo: dunque, stava seguendola. E perché? Cosa mai gli aveva fatto? Perché non cambiava strada, non andava da qualche altra parte?

La sua vita si svolgeva insulsa, malata, senza una meta che l'indirizzasse o energia che la spingesse.
Da quanto tempo non amava - era amata da - un uomo giovane, rude, sincero, violento quanto bastasse a vincerne ogni dubbio. Un uomo cui non occorressero parole, soprattutto quando non erano affatto richieste.
Si sentiva da tempo svuotata. Potendolo, avrebbe lasciato che le braccia, il suo corpo, si piegassero, s’incurvassero e adagiassero sul pavimento come gelatina, non riuscendo a sopportarne il peso. Non aveva alcuna voglia di tenerle su, e nessun motivo. Tenere erette le spalle, mandare avanti prima una gamba, poi un'altra...
    Quanti secoli erano passati da che un uomo - un uomo e basta, senza vergogna d'esserlo - l'aveva amata, presa così, senza idiotissime domande. Fatto fremerne il corpo e bruciare il ventre. E ne aveva mutato di colpo l'orizzonte, fatta sentire viva, vitale, entusiasta, felice. Viva.

Ma perché, Dio mio, quell'uomo la seguiva?
Non poteva piangere, gridare, non sarebbe servito a nulla.
Adesso attraversava un lungo ponte sopra la ferrovia. Il rumore dei tacchi di lui - tacchi da fantino - s'udivano forti, incisivi come martellate. Forse era un mostro: non volle pensarci. Forse un violentatore: volle escluderlo. In fondo era solo una questione di probabilità e statistiche, e queste erano tutte a suo favore.
Non aveva neanche il coraggio di girarsi ed affrontarlo: dirgli vaffanc… cambia strada. Con quale diritto?

Alzarsi la mattina e doversi pettinare, lavare, e trovarsi accanto un uomo estraneo, assente. Che non capiva e non gli importava di capire. Quanta fatica era costata, e quante lotte e lacrime. La fatica d'accettarne il carattere impossibile, i cambiamenti repentini, improvvisi e immotivati dell'umore. D’intuirne i pensieri e i desideri. Riuscire a prevedere da un segno, da uno scatto, che era uno dei suoi giorni neri, e occorreva lasciarlo sbollire...

Chi l'aveva amata per ultimo? Certo, Mario. Come aveva fatto - anche solo per un attimo - a scordarne gli occhi neri, dolcissimi: quel ragazzino ingenuo, dimentico, trasognato, che si trovava smarrito sulla terra come angelo caduto. Mario, povero ragazzo: gli aveva dato tutta se stessa. Cullato, amato fino all'impossibile. Ma non era servito a nulla....

E la frustrazione di non riuscire, la consapevolezza che a lui non andava bene nulla. Potevi essere dolcissima, tenera, e t'accusava d'essere sdolcinata, femminea, che per lui era sinonimo di vuota, vacua, senza spina dorsale. Priva di razionalità, di personalità e di chissà cos'altro. Potevi essere decisa e forte, e t'avrebbe accusato d'essere dura, nevrotica, insopportabile, di volergli condizionare l'esistenza.

Mario, dolcissimo ragazzo, piccolo poeta. Avevano passato ore in quell’umida cantina puzzolente, riscaldata (male) dalla stufa a cherosene, abbracciati a parlare, e parlare...
Parlava quasi sempre lui, ma era una gioia starlo a sentire e non ti stancavi mai. Inventava favole e le raccontava credendoci, gioendo per la gioia dei personaggi, soffrendo con loro se questi erano tristi. Una volta gli aveva chiesto perché non inventava sempre personaggi felici: lo sentì sganasciarsi dalle risate per un'ora, finché non si offese.

 Da poco non ne udiva più i passi: forse aveva deciso di smettere quell'inseguimento assurdo. E poi, se proprio voleva attaccare bottone, perché non si decideva? Bastava accelerare un po' il passo per raggiungerla. In fondo lei non andava così veloce, e poi i passi d'un uomo atletico - un metro e ottanta, come minimo - valevano il doppio dei suoi. Perché giocava a quel gioco assurdo, perché voleva creare quell'ansia che sentiva montarle dentro in proporzione alla volontà di scacciarla.
Bastava avvicinarsi e dirle: «Scusi, signorina...» seguita da una banalità qualsiasi. Così lei l'avrebbe mandato finalmente a quel paese: «Guardi che io sono regolarmente sposata. Deve avere frainteso... (no, questo no)». Niente, dirgli picche e basta, senza spiegazioni o esitazioni.
Finalmente lo riudì dietro di sé: erano gli stessi passi di prima, da fantino, nervosi, forti ed inconfondibili. Cercò di capire se stava accelerando: no, il ritmo era lo stesso e la distanza immutata. Proseguì con lo stesso passo; non vi era motivo di accelerare. O rallentare. 

Ma quello che l'aveva sfiancata e le aveva sottratto ogni energia, lasciata come una conchiglia vuota, era quel suo continuo rimproverarla d'ogni cosa. Niente gli andava bene: il pranzo era troppo salato o scipito, troppo scotto o crudo, senza sapore, odore o gusto. E tutto era banale. Lei stessa era sempre più banale, scialba, opaca, inutile. Non aveva interessi, cultura (maledetto infame) non aveva spirito, vitalità, gioia od entusiasmo. La vita con lei era un limbo, una plaga infernale. Niente in lei che sapesse stimolarlo, incuriosirlo. E non faceva assolutamente nulla per cambiarsi, per regalare alla sua vita calore o speranza. E allora? Se non lo amava - ed era certo che non lo amasse - perché non lo lasciava? Perché stava lì a succhiargli il sangue, a rovinargli l'esistenza? Perché l'aveva sposato? Ma la verità poteva essere un'altra: lei era ancora innamorata di qualcuno che l'aveva preceduto. Perché lo ingannava? Perché non voleva confessare la sua colpa, il suo amore nascosto, silenzioso, colpevole? 
L'uomo che la seguiva aveva accelerato il passo. Il cuore le saltò in petto e si mise a pulsare e battere come rivoltella. Forse poteva nascere un'altra storia. Forse poteva lasciare quella casa e quell'uomo di cui non le importava più nulla. Forse…
Il rumore dei passi divenne via via più rapido. Sentì una successione di colpi secchi calpestare il selciato e schioccare nell'aria alle sue spalle. Sentì l'alito di lui premerle sul collo, e gettò un urlo.

L'uomo afferrò veloce la borsetta, e disparve.

Giuseppe Pipino




1 commento:

  1. Straordinario il finale!
    molto verosimile, le donne sole, non amate possono avere questi o altri amari risvegli!

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