domenica 10 settembre 2017

Le ombre del passato (racconto inedito) di Ezio Scaramuzzino


Uno dei piaceri più frequenti di coloro che abitano di fronte al mare, e quindi hanno un panorama cosiddetto lungo, è quello di munirsi di un cannocchiale, o di un binocolo, e con questo osservare la distesa che si perde fino all’orizzonte. Se si è “fortunati”, si ha la possibilità di osservare “da vicino” spettacoli che diversamente sfuggono all’occhio nudo.
Io possiedo un binocolo Zeiss, con sopra stampigliata una Stella Rossa con Falce e Martello, che comprai circa trenta anni fa quando le prime bancarelle dei Polacchi traboccavano di materiale che i venditori garantivano come proveniente dai magazzini dell’ Armata Rossa, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e del suo impero. Con questo binocolo mi piace di tanto in tanto osservare il mare: scandaglio a destra la zona di Capo Colonna con il suo faro, il Villaggio Casa Rossa sulla destra e poi lentamente sposto l’osservazione sulla sinistra, fino agli ultimi palazzi ed al "Lanternino", il faro piccolo, posto all’imboccatura del porticciolo turistico di Crotone.
Alcuni anni fa, poco più di dieci se ben ricordo, in un caldo pomeriggio d’estate, mentre il mio binocolo si spostava lentamente sul paesaggio, la mia attenzione fu colpita da una scena particolare: in fondo a sinistra, sulla terrazza dell’ultimo palazzo visibile, una signora stava stendendo dei panni. Mi soffermai ad osservarla mentre, con straordinaria lentezza, svolgeva la sua operazione ed ebbi la sensazione di conoscere quella signora. Misi a fuoco il binocolo per osservarne meglio il volto e la mia convinzione si rafforzò: io la conoscevo; non ricordavo chi fosse e dove l’avessi conosciuta, ma non avevo dubbi. Incominciai a frugare nella mia memoria, ma ogni tentativo fu inutile, anche se ero convinto che in qualche circostanza della mia vita ero venuto a contatto con quella donna.
La quale intanto, convinta di non essere osservata da nessuno, dopo avere steso i panni, dietro un lungo lenzuolo messo ad asciugare, incominciò a spogliarsi. Lo capii quando la vidi riapparire con un vecchio costume da bagno a due pezzi, che faceva evidente contrasto con il suo corpo affusolato, ma non più giovane: alzò le mani, poi stiracchiò le braccia, si guardò addosso, osservò in lontananza con lo sguardo apparentemente perso nel vuoto, infine si diresse verso una sdraio, sulla quale si allungò con l’intento evidente di prendere il sole e di abbronzarsi.
La mia curiosità era grande, come pure la mia voglia di focalizzare quel volto. Il giorno successivo, più o meno alla stessa ora, mi ritrovavo già con il binocolo puntato in quella direzione. Ma rimasi deluso: la corda dei panni era desolatamente vuota, la sdraio del giorno prima era raccolta ed appoggiata ad una parete e sul terrazzo non comparve nessuno. Lo stesso il giorno successivo e poi per alcuni giorni, anche  in ore diverse: quella signora sembrava svanita nel nulla, tanto che incominciai a chiedermi se per caso il mio non fosse stato soltanto un sogno o, forse, un’allucinazione favorita dal caldo opprimente dell’estate. Dopo circa una settimana, invece, fui più fortunato: si era verso mezzogiorno, io avevo appena puntato il binocolo, quando vidi aprire la porta di un abbaino e la signora apparve con una piccola cesta di panni da stendere. Si ripeté la scena della settimana prima: finito di stendere i panni, la signora si mise sulla sdraio per prendere il sole.
Ed intanto io mi arrovellavo per cercare di ricordare chi fosse. Mi capitava di pensarci spesso, in tutte le ore del giorno, ma niente: non riuscivo proprio a venirne a capo. Alla fine presi una decisione: stabilita l’esatta posizione del palazzo, una mattina mi avvicinai al portone d’ingresso e, senza che nessuno mi notasse, controllai l’elenco dei nomi sul citofono. C’era una sola scala e al quinto piano, l’ultimo, confinante col terrazzo, era indicato il cognome “Maggiolini”, senza l’aggiunta di altri cognomi, dal che si deduceva che la signora viveva sola. Ancora niente: quel cognome non mi suggeriva nulla. Il portone era socchiuso. Entrai con una certa circospezione e diedi una controllata alle cassette postali. Anche lì, su una di esse ed in corrispondenza del quinto piano, era indicato il cognome “Maggiolini”, ma questa volta con l’aggiunta di una “S.”. S. Maggiolini: chi era costei? S. Maggiolini…Fu un lampo: le tenebre della memoria furono squarciate e tutto mi fu chiaro.
Silvia Maggiolini era stata la mia professoressa di Storia dell’Arte, in Terza Liceo, al Pitagora di Crotone. Veniva da Firenze ed aveva avuto il suo primo incarico annuale. A Crotone aveva preso in fitto un piccolo appartamento, dove viveva insieme con il padre, un colonnello dell’esercito in pensione, che, dopo essere rimasto vedovo con quell’unica figlia, la seguiva dappertutto.
Ora bisogna sapere che allora, erano gli anni sessanta del secolo scorso, al Pitagora la Storia dell’Arte era considerata poco più che una materia facoltativa, come Religione o Educazione Fisica. Queste materie erano incluse regolarmente in orario, alla prima o all’ultima ora, ma semplicemente non si facevano.
Quando la Maggiolini arrivò al Pitagora, ignara delle consuetudini, si dimostrò piena di tanta buona volontà, ma, quando vide che gli alunni le impedivano letteralmente di fare lezione, non protestò, non ne parlò col Preside, decise di adeguarsi e rinunziò ad insegnare la sua materia.
D’altra parte lei era e si sentiva molto giovane ed era arrivata a Crotone, non con il fuoco sacro dell’insegnamento, ma con altre velleità e ben altre ambizioni. Era anche avvenente, aveva un portamento naturalmente elegante e tutto questo la rendeva interessante. Lei sapeva di essere osservata, se ne compiaceva ed aveva già deciso di prendersi dalla vita quei piaceri, piccoli o grandi che fossero, che la sua giovinezza e la sua bellezza non avrebbero mancato di farle intravedere. Unico ostacolo a queste sue intenzioni era il padre, uomo all’antica, ancora legato ad un mondo in via d’estinzione, che non mancava di sorvegliarla con un’assiduità ed un rigore, che a lei apparivano soffocanti e ai quali d’altra parte si sentiva incapace di ribellarsi apertamente.
A Crotone non era infrequente vedere la professoressa accompagnarsi talvolta ad alunni, che sembravano avere la sua stessa età, oppure aggirarsi disinvolta e felice a feste, ricorrenze e dovunque ci fosse da divertirsi.
Io, la prima volta che la vidi arrivare in classe, non potei fare a meno di apprezzarla, come tutti, dal punto di vista fisico. Non mi aspettavo di imparare da lei la Storia dell’Arte, perché immaginavo già come sarebbe andata a finire, e mi apprestai a seguirla con un misto di curiosità e di ammirazione.
Durante le sue due ore settimanali di tutto si parlava, tranne che di Michelangelo o di Picasso. Si parlava di gite scolastiche, di feste, di amicizie e lei non mancava di far notare che a Crotone la vita di relazione languiva e che in definitiva quella non era la vita che lei si sarebbe aspettata di poter vivere, quando aveva accettato quel trasferimento. Io, dal fondo della mia timidezza, mi limitavo ad ascoltarla, ad ammirarla segretamente, senza dimostrare alcun particolare trasporto.
Allora a Crotone nascevano le prime discoteche, ove si poteva ballare il rock e soprattutto il twist, l’ultimo ballo alla moda. A me non piaceva ballare, che anzi quell’agitarsi frenetico al ritmo di una musica ossessiva e ripetitiva mi dava l’idea di qualcosa di vagamente stupido e paranoico. Però ogni tanto andavo nelle discoteche, qualche volta in compagnia di un amico, perché quello, a Crotone, negli anni sessanta del secolo scorso, era forse l’unico modo di conoscere qualche ragazza e sperare che ne venisse fuori qualcosa.
Una sera, in una discoteca, scorsi da lontano la Maggiolini. Feci finta di non vederla, ma fu lei a notarmi ed a venirmi incontro: era sola, o almeno così sembrava.
-Ah, fece, che ci fai qui? Ogni tanto pure tu lasci i libri!
-Vero, prof, anche io ogni tanto penso a divertirmi. Faccio quello che posso.
-Perché non mi fai ballare? O ti chiedo troppo?
-Troppo?! Anzi, sono lusingatissimo. Però io non sono molto bravo, ci tengo a dirlo.
-Non importa. Ora mi serve che tu mi faccia ballare. Vedi quel tipo con i baffetti ed i capelli tutti impomatati? Mi sta opprimendo da un’ora e debbo liberarmene. Dai, datti da fare!
Quella sera ballai ininterrottamente con la prof, che non accennava a mollarmi. Ogni tanto mi giravo a guardare intorno e potevo notare il tipo con i baffetti, che lanciava occhiate di fuoco verso di me e che non avrebbe esitato a strozzarmi, se solo mi avesse avuto tra le mani. Alla fine ero stanco e felice e, da perfetto, precoce gentiluomo, non mancai di accompagnare la prof a casa sua, salutandola cordialmente e rispettosamente davanti alla soglia.
Quella serata era da me considerata un capitolo aperto e chiuso, né avrei mai osato sperare che potesse ripetersi. Fu la Maggiolini a riprendere quel discorso interrotto, quando un giorno, all’uscita da scuola, mi sentii chiamare da dietro. Mi girai, era lei.
-Ezio!
-Dica, prof!
-Perché non vieni a trovarmi un giorno a casa?
-Non oso farlo, prof, ma lei non immagina quanto mi farebbe piacere.
-E adesso puoi farlo, sono io che te lo chiedo.
Ero emozionato per quella richiesta, non tanto perché coltivassi delle illusioni, ma solo perché l’idea di poterle essere vicino in ore che non fossero solo quelle scolastiche mi riempiva di gioia e anche di un sottile sgomento. Concordammo per il pomeriggio di quello stesso giorno. Lei continuò:
-Sai che mio padre vive con me. Lui è molto rigoroso ed arcigno. Se per caso ti chiede qualcosa, dirai che sei venuto per delle ripetizioni. Portati un libro e l’occorrente per il disegno geometrico. Ciao.
-Buon giorno, prof. Ad oggi pomeriggio.
Alle 16 in punto di quello stesso giorno stavo bussando alla porta della famiglia Maggiolini. Fu lei stessa ad aprire e ad accompagnarmi all’interno. Attraversammo una piccola sala dove, in un angolo, seduto su una poltrona, un anziano signore stava leggendo il giornale. Era il padre della prof, ovviamente, che io non avevo mai visto in precedenza, ma che mi apparve proprio per come lo immaginavo. Sembrava una di quelle figure rappresentate nei vecchi ovali che si usavano agli inizi del secolo. Era un uomo anziano, precocemente invecchiato, con i capelli lisci e bianchissimi, il volto sottile, gli occhiali a pince-nez. Mi vide e, senza tanti preamboli, puntandomi con un bastone che teneva vicino, mi chiese:
-Chi sei tu?
-Buon giorno, colonnello. Sono un alunno di sua figlia, mi chiamo Ezio, Ezio Scaramuzzino.
-Ah, bene! E che sei venuto a fare?
-Avevo bisogno di alcune ripetizioni e la professoressa sua figlia si è detta disponibile.
-Ah, bene. Buon giorno!
-Buon giorno, colonnello.
La prof, con un po’ di trepidazione, mi introdusse in uno studio, dove erano sistemate alcune sedie intorno ad un tavolo. Ci sedemmo. La lezione, che io speravo la prima di una lunga serie e che invece si sarebbe rivelata la prima ed ultima, incominciò a bassa voce.
-Mi puoi chiamare Silvia, se vuoi. Almeno qui, fuori dalla scuola.
-Preferisco chiamarla prof, se me lo concede. Non mi viene di chiamarla di nome.
-Vedo che hai portato l’album. Come te la cavi col disegno?
-Male. Non ho mai disegnato nulla e non saprei disegnare nemmeno un uovo.
-Non è difficile. Basta esercitarsi e comunque ti insegno io.
Aprii l’album, afferrai una matita. Lei prese la mia mano, dolcemente, la accarezzò. Il cuore mi batteva forte e credo di essere arrossito, ma lei era tranquilla, parlava con voce suadente e modulata. Io avvertivo il suo respiro sfiorarmi il volto, credevo di sentire il battito tranquillo del suo cuore. Lei parlava, parlava, ma io non ascoltavo più di tanto le sue parole e, se anche le ascoltavo, non capivo quel che diceva. Avvertivo inoltre chiaramente, con un piacere talmente intenso da sembrare quasi doloroso, il calore della sua gamba che, muovendosi lentamente, si avvicinava ripetutamente alla mia. Lei mise la sua mano tra i miei capelli, li arruffò, scompigliandoli. Poi la sua mano scese sul mio volto, lo accarezzò, lo girò verso di sé ed appoggiò la sua guancia sulla mia, le sue labbra sulle mie.
Credo che quello che succede in genere quando un marito trova la moglie in flagrante adulterio, non sia molto diverso da quanto successe quel giorno, in quella stanza, quando improvvisamente la porta si aprì e sulla soglia apparve il colonnello che si mise a gridare e rovesciare tutto come un ossesso.
Io mi destai bruscamente e violentemente dal sogno in cui mi stavo cullando e, istintivamente, pensai prima di tutto a mettermi in salvo. Lasciai libro ed album e mi preparai alla difesa, mentre Silvia correva a richiudersi in un’altra stanza, ben consapevole, probabilmente, di quello che le sarebbe toccato. Il colonnello menava fendenti a destra e a manca con il suo bastone e fortuna che era senza i suoi occhiali, perché tutti i suoi colpi andavano a vuoto e per me fu molto facile evitarli, mentre ne pagarono le conseguenze il tavolo con un vassoio sopra, che finì in pezzetti, ed alcune sedie che finirono malconce.
Ad un certo punto il colonnello bloccò un’ uscita con una poltroncina e girò intorno al tavolo con l’intento evidente di afferrarmi. Ma io scivolai sotto il tavolo e da lì riuscii a scappare, spalancando la porta che era rimasta socchiusa e cercando di pormi in salvo. Il colonnello, da perfetto stratega, capì che la battaglia con me era da considerarsi persa, ma non si rassegnò e ricorse alla sua arma finale. Roteò il bastone e lo lanciò contro di me. L’arma sibilò, mi sfiorò, mi mancò, ma finì tra i miei piedi che stavano facendo di tutto, senza riuscirci, per evitarmi una brutta fine. Incespicai, caddi disteso per terra e mi vidi il colonnello addosso. Mi divincolai, feci per rialzarmi, ci riuscii, ma, contemporaneamente, avvertii la dolorosa sensazione di un calcio assestato perfettamente nel didietro e di cui, ancora oggi, a distanza di tanto tempo, conservo nitidamente il triste ricordo.
Non misi più piede in quella casa, non ebbi il coraggio di affrontare con la prof il discorso del suo terribile padre e d’altra parte anche lei si guardò bene dal parlarne. Alla fine dell’anno scolastico ognuno prese la sua strada e, per quello che ne seppi in seguito, anche la prof si trasferì verso altri lidi a lei più congeniali.
Tutti questi fatti erano avvenuti nel Marzo del 1962. Ora, a distanza di oltre quaranta anni, mi ritrovavo a leggere su una targhetta “S. Maggiolini” e tutto un mondo di ricordi, di illusioni, di sensazioni, riaffiorava nella mia mente.
Avevo voglia di rivedere quella donna, chiederle che cosa aveva fatto, come era vissuta, perché era ritornata a Crotone. Nei giorni successivi studiai un piano che mi consentisse di rivederla senza eccessive complicazioni. Le scrissi una lettera.
Alla esimia professoressa Silvia Maggiolini. III traversa Interna Marina, 42  88900 Crotone
Sono un suo ex alunno di Terza Liceo al Pitagora di Crotone, Ezio
Scaramuzzino, e spero che lei si ricordi di me. Ho saputo per caso che da qualche tempo lei vive a Crotone. Mi farebbe tanto piacere rivederla. Se fa piacere pure a lei, può chiamarmi al seguente numero 338….. Cordiali saluti.
Dopo qualche giorno la chiamata ci fu e concordammo una visita per il pomeriggio. Quando mi apprestai a premere sul citofono, mi accorsi che ero perfettamente tranquillo e d’altra parte avevo anche io la mia bella età ed era già da un pezzo finito il tempo delle passioni e delle tempeste giovanili. Ero solo curioso, di sapere, di vedere, di ascoltare.
Quando lei venne ad aprirmi, avevo intenzione di limitarmi a stringerle la mano, ma lei mi abbracciò e mi baciò, costringendomi quasi a fare lo stesso. Quella che era davanti a me era la famosa professoressa Silvia Maggiolini, chiaramente invecchiata e decaduta, ma che ancora lasciava intravedere tra le prime rughe del volto e nella magrezza delle sue dita affusolate gli ultimi tratti della bellezza perduta e del suo lontano fascino giovanile.
Aveva una voce strascicata e quasi rauca e mi parve anche di notare un leggero tremolio della mano sinistra. Vista da vicino, proiettava fuori di sé quasi un senso di stanchezza dolente, una rassegnazione, un senso di abbandono e di sfinimento, tipico di chi ormai non ha o non vuole chiedere più niente alla vita.
Mi aspettavo tutt’altro e rimasi un po’ sconcertato. Silvia intanto mi accompagnava lungo il corridoio, fino ad un soggiorno dove mi fece sedere, dicendo che andava a prepararmi un caffè.
Mentre ero solo, mi guardai attorno: per quel po’ che avevo visto, dovunque avevo notato e continuavo a notare confusione e abbandono, un senso di incuria e di indigenza, se non proprio di povertà e miseria. Quando ritornò con il caffè, avrei voluto chiederle tante cose, ma mi sentivo in imbarazzo, non sapevo da che parte incominciare e mi accorsi che un nodo alla gola e un po’ di inattesa emozione mi impedivano di profferir parola.
Fu lei che incominciò a parlare a briglia sciolta, senza che io la interrompessi, e mi raccontò tutto.
-Io mi ricordo molto bene di te, Ezio. Eri un ragazzo studioso, uno tra i più studiosi, ma con me non c’era da studiare, perché io mi aspettavo che fosse la vita ad insegnarvi quello che è indispensabile. Immagino che tu ti sarai meravigliato di ritrovarmi in queste condizioni, delle quali un po’ mi vergogno anche io, ma la vita non è stata clemente con me.
       Quando, dopo solo un anno, sono andata via da Crotone, ho avuto un incarico a Busto Arsizio. Crotone però ci era rimasta nel cuore, nonostante tutto, e proprio qui, con i suoi risparmi, poco prima della partenza mio padre aveva comprato, per fortuna, una casa, questa nella quale oggi vivo e che è l’unica cosa che ho ereditato e che mi è rimasta.
A Busto Arsizio, come purtroppo spesso mi capitava nella vita, incominciai ad annoiarmi e quasi ogni pomeriggio prendevo il treno per Milano. Qui conobbi Carlo, uno degli esponenti di spicco della Mala milanese, la Mala di quel tempo, la Mala che si limitava ai furti, alle rapine, alle truffe, quando l’uso della pistola era ridotto al minimo e i tempi di Vallanzasca e di Turatello erano ancora di là da venire. Carlo era bello come un angelo, era giovane, pieno di vita, generoso e, nonostante sapessi perfettamente quel che faceva, me ne innamorai perdutamente e, abbandonato il mondo della scuola, finii con sposarlo, con sommo dispiacere di mio padre, che ne morì di crepacuore. Furono anni folli e noi eravamo belli e dannati, come in un romanzo di Fitzgerald. Ma tutto finì in tragedia. Mio marito morì sull’autostrada a 200 all’ora, mentre cercava di sfuggire ad un inseguimento della polizia ed io stessa, che ormai ero entrata nel giro, poco dopo finii in carcere per uso, detenzione e spaccio di cocaina. Quando, dopo cinque anni, ne venni fuori, ero disperata e sola e, dopo essere vissuta di espedienti per alcuni anni, decisi di ritornare a Crotone, a vivere in questa casa ereditata. Ora vivo, si può dire, a spese della Caritas, che mi fornisce dei vestiti per tutte le stagioni ed ogni tanto un pacco di viveri, con cui riesco a tirare avanti, alla meno peggio. Di mio faccio poco: riesco a guadagnare qualcosa vendendo immaginette sacre, che garantiscono miracoli. Anzi, ora te le faccio vedere e ne devi comprare qualcuna anche tu.
Si alzò e riapparve poco dopo con uno scatolo di scarpe. Ne tirò fuori immaginette di ogni tipo e di ogni dimensione.
-Ecco, vedi, questa te la raccomando, è utile per i bambini, per proteggerli dalle malattie. Quest’altra, invece, protegge dai tumori e dalle malattie del cuore. Costano poco e poi a te qualcuna posso anche regalarla, in più.
Mi accorsi che farneticava, parlava a ruota libera e non riusciva a trattenersi. D’altra parte non volevo umiliarla e cercavo di dimostrare che non avevo fretta.
Mi finsi interessato alla sua mercanzia, anzi feci finta di tirare anche sul prezzo. Alla fine le lasciai cento euro sul tavolo e mi alzai, dicendo che per me era ora di andare. Dimenticai volutamente di prendere le immaginette. Avevo la morte nel cuore. Lentamente mi avviai verso l’uscita e, giunto sulla soglia, l’abbracciai e la salutai. Mentre lei biascicava alcuni saluti, mi affrettai a scendere le scale, invece di attendere l'ascensore, e intanto altri ricordi, di altri saluti, riaffioravano nella mia mente. Mi rivedevo a diciassette anni, dopo una serata in discoteca. Lei, giovane e bella, rientrava a casa ed io mi allontanavo da lei, scomparendo nel buio della notte, con il dispiacere di doverla lasciare.
Ezio Scaramuzzino

10 commenti:

  1. Era meglio non rivederla, almeno il sogno rimaneva intatto e potevi immaginare un bel finale!

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  2. Questo racconto è come la vita vera, privo di retorica, denso di rughe e di misurata disillusione.
    Guardare al nostro passato come dentro un binocolo che ci consenta di afferrarne i particolari è operazione dolorosa, ma necessaria

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  3. Racconto bellissimo,struggente,nostalgico emalinconico,
    di stampo "Chiariano".
    Ciao Ezio continua a farci dei regali simili.
    Giovanni Pizzimenti

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    1. Giova', poi ti offro il caffè, o una pizza, a scelta. Un abbraccio.

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  4. Purtroppo è solo da poco che ti leggo. Peccato, chissà quante emozioni mi sono perse non potendo rivivere attraverso i tuoi racconti le mie angoscia, le mie pure, le mie gioie. A presto. Dimenticavo, in questi giorni è uscita la mia prima avventura letteraria " si giochi perduti edito Calabria letteraria. Fatti vedere c'è una copia che ti aspetta. Pietrino

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    1. Ti ringrazio per il tuo lusinghiero commento. Comunque basta fare una ricerca interna nel mio sito e trovi tutto quello che ho scritto. Mi farò vivo, appena possibile, per la copia che mi aspetta e di cui ti ringrazio. Ciao.

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  5. Bellissimo il tuo racconto, che ho letto con estremo piacere, intanto perché mi hai riportato indietro al periodo liceale e, in secondo luogo, perché sei riuscito a delineare magistralmente un personaggio piuttosto singolare, come la prof.sa Silvia, per certi versi simile al prof di Storia dell’arte della mia classe, Coscarella, che era quotidianamente preso in giro da quasi tutti gli studenti. Ma il tuo merito più grande risulta bene evidenziato dall’ottimo ed efficace intreccio con cui ha saputo intessere la narrazione di questa movimentata e sorprendente storia.

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    1. Speravo che ti piacesse, ma non fino a questo punto. Comunque grazie per l'apprezzamento.

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