martedì 15 maggio 2018

Il passero solitario


Di ritorno da un viaggio al Nord, mi fermo lungo l’autostrada. Mentre mangio un panino appena comprato all’ autogrill, mi accorgo che un passero si avvicina allo sportello. E’ proprio lui, il famoso “Passer Italiae”, che già nel suo nome scientifico ricorda il luogo in cui preferibilmente nasce e vive la sua breve esistenza. Lo incoraggio lanciandogli qualche briciola e lui si avvicina sempre di più, senza alcuna paura. Scatto qualche foto e nemmeno i clic insistenti del cellulare possono indurlo ad allontanarsi.
Lo osservo con un misto di compiacimento e di sorpresa ed io, perennemente avvolto in una sorta di "correlativo oggettivo" di elliotiana o montaliana memoria, non posso fare a meno di andare alla ricerca del tempo perduto, del mio tempo perduto.
Nella mia infanzia il mio primo approccio con gli uccellini, e con i passeri in particolare, fu quello che mi derivava dal mio continuo scorrazzare nella campagna circostante, insieme con altri coetanei, a preparare contro di loro trappole e insidie di ogni genere. Di questa nostra caccia il tratto costante era un’inconsapevole crudeltà, che ci induceva ad infierire su quelle povere bestioline, fino a provocarne la morte tra indicibili sofferenze.
Quando, tanti anni dopo, mi ritrovai in Svizzera e notai, in un parco pubblico, che alcuni passerotti si avvicinavano tranquillamente agli altri, mentre sembravano sordi ai miei richiami e si mantenevano a rispettosa distanza da me, non potei fare a meno di pensare, con un amaro sorriso, che forse quegli uccellini si vendicavano delle mie crudeltà di fanciullo, o forse avvertivano istintivamente nel mio DNA qualcosa di sospetto, che li induceva ad essere diffidenti ed a restare alla larga.
Avrei forse potuto dire a quegli uccellini che ero cambiato, che non ero più uno spietato cacciatore e soprattutto avrei potuto dire che le vicende della vita mi avevano ormai definitivamente allontanato dal loro mondo di cinguettanti ed indifese creature.
E difatti, man mano che andavo avanti nella vita, i passeri continuai a conoscerli più che altro nelle mie letture.
Già nei Carmi di Catullo il passero è l’innocente trastullo con cui Lesbia, l’amante del poeta, sopisce le sue pene d’amore e che con la sua morte ne provoca il dolore e le lacrime.
Poi, nella tradizione letteraria italiana, da Petrarca a Poliziano, il passero avrebbe costituito spesso fonte d’ispirazione. Fino a Leopardi, che, con il suo genio immenso, avrebbe fatto del passero solitario il simbolo della condizione umana, della solitudine dell’esistenza e del male di vivere.
Forse anche oggi, di fronte allo spettacolo inatteso del passerotto che saltella di fronte allo sportello della mia auto, sarebbe necessario il genio di un Leopardi, che riuscisse a dire parole non caduche e non destinate ad essere disperse dal vento.
Ma io non sono Leopardi e soprattutto non ho la pretesa di esserlo. Nel nostro mondo disturbato dal fruscio e dal rumore di fondo che impediscono di percepire chiaramente il senso delle parole, mi limito ad osservare, a riflettere, a ritrovare qualche concetto forse non banale. In attesa di ciò che è ultimo e definitivo, in attesa del nulla.
Ezio Scaramuzzino