venerdì 28 settembre 2018

La vendemmia del '52 (racconto inedito) di Ezio Scaramuzzino






Quando ero bambino, tre - quattro giorni all’anno, nel mese di settembre, erano dedicati alla vendemmia. Nei giorni precedenti, l’arrivo di questo evento era preannunziato da un fervore insolito a casa mia, dove  tutti erano indaffarati a preparare qualcosa.
Io mi limitavo ad osservare, pregustando in anticipo il sapore ed il frastuono allegro di quella che si preannunziava come una festa. Il colmo della felicità per me consisteva poi nel fare il tragitto tra il paese e la campagna sul dorso di qualche animale, unico mezzo di trasporto agricolo all’epoca. Ma ancora più felice mi sentivo quando, per non so quale motivo, venivo infilato in una delle due sporte che gli asini ed i muli, in lunga fila, trasportavano a destinazione.
Era un’operazione non facile questa. Bisognava trovare due bambini che avessero più o meno lo stesso peso, per equilibrare il carico ed evitare che le sporte si inclinassero pericolosamente. Ma, ad una certa ora, finalmente, si partiva. Si percorreva una parte del paese, che io guardavo compiaciuto ed orgoglioso, dall’alto del mio punto di osservazione, con lo stesso compiacimento e lo stesso orgoglio con cui qualcuno, al mondo d’oggi, esibirebbe in pubblico la sua Ferrari.
Poi si imboccavano sentieri di campagna e strade sterrate, che a volte si inerpicavano paurosamente e diventavano pericolose in caso di pioggia, perché gli animali potevano scivolare. Mio padre e mio fratello Nando, in questo caso, decidevano una deviazione attraverso una strada privata, più comoda,  che attraversava un aranceto in zona Broncalà, suscitando spesso le proteste dei proprietari, i Rota, che non tolleravano questi percorsi abusivi.
Una volta, quando ormai ero più grandicello, mi ritrovai ad essere fermato in paese da Pasquale Rota, uno  della famiglia.
-Eziu’, mi disse, devi dire a papà tuo di non far passare gli animali sulla strada dell’aranceto.
-Caro Pasquale, gli risposi, la strada è privata, lo so, ma, quando piove, siamo costretti a passare.
-Non è per voi, ma, se tutti prendono quest’abitudine, la strada diventa pubblica.
Pasquale protestava e forse non aveva tutti i torti, ma io non volevo darmi per vinto e, lì per lì, mi inventai una scemenza.
-Mi meraviglio, replicai. Broncalà significa forse Buona Calabria, perché la terra è buona, ma voi non siete buoni, siete cattivi.
Pasquale, che era una persona mite, sorrise ed andò via.
Lungo il tragitto i più grandi dicevano ai bambini in groppa agli animali quando e quanto dovessero piegarsi, per evitare di essere colpiti in viso dalle frasche che sporgevano pericolosamente dalle piante lungo i sentieri. Era un gioco quasi a rimpiattino, che mi coinvolgeva molto e mi rendeva felice. Io non andavo spesso in campagna, ma, quando ci andavo, osservavo tutto con un piacere che rasentava la voluttà.
Ed era normale che fosse così. Io non conoscevo la fatica che comporta la campagna, che per me restava solo uno spettacolo della natura da osservare e gustare con lo spirito incantato di un arcade redivivo.
Mi incuriosiva tutto. Osservavo i fiori, le piante, gli uccelli e continuavo a guardarli finché non sparivano alla vista, chiedendo ai più grandi, e spesso a mio fratello, i nomi di ciò che non ricordavo o vedevo per la prima volta.
Più raramente chiedevo a mio padre, che già allora, anche se non ne capivo appieno il motivo, vedevo impegnato ad intrattenersi con le donne, piuttosto che a seguire o preoccuparsi del lavoro degli altri.
Poi, finalmente, dopo un viaggio di poco meno di un’ora, si arrivava a destinazione, nella nostra campagna, segnata sulle mappe  con un anonimo e burocratico Manco Destro Ferrato, ma che tutti, già allora, chiamavano ed avrebbero sempre chiamato con l’affettuoso nome di Garruòpolo. Il punto di raccolta era la casetta in muratura, che era anche il centro ed il punto di raccolta della campagna circostante. Qui si  fermavano gli animali e si scaricavano le sporte vuote destinate al trasporto dell’uva; qui facevano una prima  e momentanea sosta tutti quelli che erano impegnati nella vendemmia.
Quando arrivavo io, per prima cosa cercavo di vedere chi fossero i presenti, quasi sempre gli stessi, da un anno all’altro. Ricordo soprattutto mia madre con un fazzoletto in testa per riparasi dal sole, i miei fratelli Salvatore, Ludovico e Ferdinando, mia sorella Rosetta, poi alcuni parenti, soprattutto quelli più stretti, tra cui le mie cugine Emma ed Eufrasia, mio cugino Franco, immancabile. Era anche immancabile Iuzza ‘i Giardino: Iuzza, diminutivo di Maria, di cui ricordo l’abbigliamento sempre a lutto ed il portamento austero ed altero, nonostante la sua vita da contadina. Tanti li ho dimenticati, tanti non ci sono più: eravamo quasi sempre una trentina di persone.
Quell’anno, era, credo, il 1952, notai con curiosità una presenza insolita. Si trovava lì anche una ragazza, una vicina di casa, Teresa Panza, figlia di Mario, di cui altrove mi è capitato di raccontare qualcosa. La ragazza, già molto cresciuta e piuttosto graziosa con i suoi capelli rossicci che le conferivano un tono civettuolo, non godeva di buona fama e si diceva fosse la croce della sua famiglia, come anche io, più volte, avevo sentito in giro.
Mi avvicinai a lei con curiosità.
-Che ci fai da queste parti?
-Fatti i fatti tuoi, moccioso.
-I fatti miei sono anche quelli di sapere che ci fai tu qui, dal momento che qui è proprietà di mio padre, se non lo sai.
-E invece ti stai facendo i fatti degli altri, non i tuoi, replicò, mettendomi una mano sulla testa e stropicciandomi i capelli, con evidente intento di dileggio.
Le tolsi via la mano con decisione e contemporaneamente mi accorsi che un’altra mano si era poggiata sulla mia testa. Mi voltai subito con fastidio e vidi che dietro di me c’era Giovanni, un mio parente, già grandicello, che si divertiva, anche lui, a scompigliarmi i capelli.
-Ma non hai niente di meglio da fare? Smamma!, mi disse sottovoce.
Ovviamente mi resi subito conto che, per la mia tenera età, non era il caso di litigare e, insieme con gli altri bambini, mi diressi correndo verso le vigne poco distanti.
Correvo allora, correvo sempre, perché da bambino non facevo che correre, come sempre avrei fatto fino ad una certa età. A camminare avevo l’impressione di sprecare del tempo, per un’ansia di vivere intensamente che sembrava non abbandonarmi mai.
Superai gli altri bambini ed arrivai per primo alle vigne. Alcuni erano già al lavoro, un lavoro metodico e  per lo più ben distribuito: le donne staccavano l’uva dai tralci e riempivano i cesti, gli uomini ed i maschietti trasportavano i panieri fino alle sporte, i bambini giocavamo a  nascondiglio dietro i pampini delle viti ed i cespugli ed ogni tanto, a seconda dell’età e della vigoria fisica, trasportavamo qualche piccolo paniere pieno d’uva.
Dopo qualche ora di lavoro, verso le 11, secondo le usanze dei contadini, si pensava già al pranzo. Le donne provvedevano a stendere delle tovaglie sull’erba, all’ombra di un ulivo centenario, e tutti, seduti o sdraiati  per terra davano inizio al rito. Giusto definirlo così, perché il rito era immutato da sempre e si svolgeva secondo un cerimoniale che sembrava sacrilego modificare. Il vino era abbondante e generoso; il primo era quasi sempre la famosa, mitica pasta al forno; il secondo era sempre a base di salsicce e carne di maiale; il contorno  a base di peperoni e patate. Bere acqua era quasi vietato per tutti, comprese le donne,  ed appena tollerato per i bambini, sicché dopo un po’ molti apparivano in preda ad una certa euforia ed inclini allo scherzo ed alle battute. Qualche volta i freni si allentavano e gli uomini  diventavano arditi nei confronti delle donne, che  non avevano paura di rispondere a tono. Ma tutto finiva lì, in un’atmosfera  di sana allegria che dava un senso ed un tono alla nostra voglia di vivere e di stare in armonia con il mondo circostante. E quel mondo, in quel momento, era il nostro, eravamo noi, riuniti sotto quell’ulivo secolare e felici di stare assieme e di volerci bene.
Ad un certo punto, quando i primi sintomi di stanchezza sembravano venire fuori, si udiva la voce di mia madre che, una volta all’anno, in quella circostanza, riteneva fosse giunto il momento di dare inizio al suo show personale.
Un anno prima, in un momento in cui forse si sentiva triste, mia madre mi aveva raccontato dei suoi sogni da ragazza. Mi aveva chiamato, mi aveva fatto sedere sulle sue ginocchia, mi aveva abbracciato e mi aveva raccontato una storia.
-Al mio paese, a Casabona, c’era una ragazza che sognava di diventare cantante, perché sapeva cantare ed aveva una bella voce. Doveva partire per Napoli, dove avrebbe studiato l’arte del canto, ma si era in inverno, si ammalò e la partenza fu rinviata. Poi quella ragazza crebbe, aspettò inutilmente che fosse fissata una  nuova partenza, poi si sposò e  di quella partenza non si parlò più. Non so se l’hai capito, ma quella ragazza ero io.
        A distanza di tempo, durante la vendemmia, udii improvvisamente la voce di mia madre.
-Silenzio, per favore! 5 minuti di silenzio!
Tutti tacevano. Mia madre si rischiarava la voce con qualche colpetto di tosse, poi, a cappella, incominciava a cantare.
-Signorinella pallida, dolce dirimpettaia del quinto piano…
Non si sentiva una mosca volare e l’unico rumore percepibile era il soffio del venticello pomeridiano che accarezzava dolcemente i nostri volti. Sarà stato un caso, ma, all’attacco della canzone, perfino una cicala che fino a qualche momento prima ci aveva rintronati da un ramo vicino, improvvisamente aveva smesso di frinire. Mia madre cantava con una certa emozione, che a volte le intorbidiva la voce, ma che rendeva proprio per questo ancora più coinvolgente la sua canzone. Io la ascoltavo con una certa trepidazione, perché, non so per quale  motivo, avevo sempre paura che la voce la abbandonasse improvvisamente e lei potesse andare incontro ad una figuraccia. Sicché quando la sentivo arrivare all’ultima nota, ero il primo a dare inizio ad un applauso, che subito coinvolgeva tutti fino a sfociare, a torto o a ragione, in in’atmosfera di esaltazione e di trionfo.
Poi, a poco a poco, qualcuno si sdraiava all’ombra dell’ulivo e si concedeva una pennichella ristoratrice.
Quel giorno, mentre gli altri si stendevano per terra, io avvertii un certo imbarazzo al ventre e capii che avevo una faccenda da sbrigare, oltre tutto da sbrigare personalmente.
Mi misi a correre, come al solito, e mi diressi verso una zona della campagna che chiamavamo “La fonte”, per via di una polla d’acqua che dava origine ad un piccolo stagno e ad un ruscello che fungeva da confine con le campagne limitrofe. 
In quelle circostanze ognuno sbrigava le proprie “faccende” all’aperto, tutt’al più al riparo di qualche pianta o di qualche cespuglio,  e si era soli con se stessi in quei momenti, a parte le donne, che, per un minimo di prudenza, andavano in coppia e si alternavano nel fare la sentinella.
Esplorai velocemente la zona e mi riparai in un cespuglio che offriva al suo interno un comodo slargo, che riduceva al minimo i disagi e al contempo proteggeva da occhi indiscreti. Ero lì da qualche tempo e stavo per rialzarmi, quando sentii una pietra rotolare lungo un declivio della collina di fronte.
Le pietre normalmente non rotolano da sole e capii che, se era rotolata, ciò significava che qualcuno l’aveva smossa. Alzai timidamente la testa fino ad arrivare a filo della sommità del cespuglio e vidi Teresa Panza e Giovanni, mio cugino. Mi abbassai istintivamente e continuai ad osservarli, di tra i rami del cespuglio, senza essere visto a mia volta.
Giovanni e Teresa, che erano spuntati da chissà quale anfratto, scendevano verso La fonte, in maniera decisa ma senza precipitazione. Si tenevano per mano o meglio sembrava che Giovanni la sorreggesse lungo il declivio, per evitarle qualche caduta, e parlavano a bassa voce, come per non farsi sentire. Poi si fermarono dietro un albero, si appoggiarono al tronco  e si baciarono a lungo, con passione.
Il cuore mi batteva forte, in tumulto, e cercavo quasi di trattenere il respiro. Ebbi la possibilità di osservarli a lungo, ma non sempre li osservavo, perché un senso di vergogna e di colpa mi induceva a distogliere lo sguardo. Li sentii parlare, ridere e sorridere. Li sentii mentre si dicevano parole d’amore e tutto ciò, mentre mi procurava imbarazzo, sembrò  anche aprire uno squarcio su tante cose che mi frullavano in testa, su tante cose di cui avevo tante volte sentito parlare in maniera oscura e fumosa, aprivano uno squarcio e mi facevano intravedere un certo senso della vita, dell’amore, del pudore, del sesso.
L’atmosfera tutt’intorno sembrava sospesa, come se la natura avesse per un po’ interrotto il ritmo della sua vita ed anche io sembravo aver interrotto il battito del mio cuore. Quando mi ripresi, vidi che i due erano ancora là. In alto un falco immobile nell’aria doveva aver individuato una preda, mentre in basso si udiva appena il fruscio delle foglie ed il gorgoglìo dell’acqua del ruscello.
L’incanto di tutto ciò che mi circondava fu però improvvisamente interrotto da un fruscio improvviso alla base del cespuglio nel quale ero nascosto. Mi voltai di scatto e vidi per terra qualcosa di nero, lubrico e sinuoso, che strisciava inesorabilmente verso di me. Non c’erano dubbi: era un piccolo serpente che quasi certamente si dirigeva verso lo stagno per dissetarsi o per trovarvi qualche rana da divorare. Ebbi paura. Gridai. Chiesi aiuto. Scappai. Finii diritto nella mani di Giovanni e Teresa.
-Ecco quello che dice di farsi solo gli affari suoi ed invece viene a spiare quello che fanno gli altri. Fu la prima cosa che sentii, quando mi ripresi un po’.
- Pietà, aiutatemi, implorai. C’è un serpente di là.
- Tu il serpente ce l’hai nella testa, gridò Giovanni. E, oltre al serpente, che cosa hai visto?
-Io, niente, ve lo giuro. Non ho visto niente. Ero appena arrivato.
- E, se eri appena arrivato, come mai sei uscito fuori da un cespuglio? Continuò Giovanni, mentre Teresa, per tutto il tempo, mantenne un atteggiamento imbronciato e sdegnoso.
Mi resi conto che per me si stava mettendo male ed allora decisi di ricorrere all’unico mezzo nel quale mi ritenevo imbattibile, quello della fuga e della corsa. Mi divincolai con uno strattone e via, a correre a perdifiato.
Quando giunsi alle vigne, vidi gli altri che vendemmiavano allegramente. Finsi una certa indifferenza e mi misi a fischiettare, cercando di apparire disinvolto. Nessuno sapeva niente di quel che era successo, ma io avevo visto tutto e due avevano visto me. Bisognava stare attenti.
 La sera ritornammo tutti a piedi, perché gli animali trasportavano le sporte cariche di uva. Dopo le  scorribande della giornata, mi sentivo finalmente un po’ stanco e lungo i sentieri evitai di correre. In testa avevo ancora tutto quello che avevo fatto ed avevo visto durante la giornata. Ogni tanto mi veniva la tentazione di spifferare qualcosa, ma riuscii a stare zitto. E soprattutto, arrivato in paese, riuscii a non dire  niente al padre di Teresa, Mario Panza, famoso per le legnate  che era solito dare alla figlia, quando veniva a sapere sul suo conto qualcosa di sconveniente.
Il giorno dopo, all’alba, eravamo già tutti in piedi e di primo mattino percorrevamo le strade ed i sentieri per Garruòpolo. Giunti a destinazione, notai subito la presenza di Teresa, ma notai anche che Giovanni, per qualche motivo a me sconosciuto, non c’era. Evitai di fare domande e mi diressi verso le vigne. Incominciava subito il lavoro della vendemmia, di primo mattino, quando le foglie erano ancora bagnate di rugiada, destinata a dissolversi non appena il sole si fosse sollevato sull’erta del cielo.
Le donne erano già tutte intente a raccogliere l’uva nei cesti e nei panieri. Diversamente da quanto aveva fatto il giorno prima, Teresa mi chiamava continuamente perché prendessi il suo paniere, ogni volta che risultava pieno. Non mi dispiaceva farlo ed io, anche con una punta di malizia, incominciai a starle vicino ed a seguirla, man mano che lei avanzava lungo i filari. Lei con una certa perizia passava il coltello sul gambo del grappolo, lo tagliava e si faceva cadere il grappolo nella mano aperta, infine lo depositava con grazia nel paniere.
Io la seguivo con ammirazione, ma stando di proposito in silenzio ed in attesa di qualche sua parola che certamente non sarebbe tardata ad arrivare.
-Ti debbo parlare, mi disse ad un certo punto.
-Dimmi, risposi con sicurezza e soprattutto consapevole del fatto che, dopo quel che avevo visto il giorno prima, avevo il coltello dalla parte del manico.
-Non mi interessa sapere che ci facevi ieri alla Fonte. Ma, che cosa hai visto?
-Ho visto tutto quello che c’era da vedere e forse anche qualcosa in più.
-E cioè?
-Ho visto non solo quello che facevate, ma anche da dove venivate.
-Ci hai seguiti?
-No, ma, dopo che sono scappato, aggiunsi dicendo una bugia, sono andato anche ad esplorare l’anfratto nel quale vi eravate rintanati e lì ho trovato le vostre tracce.
-Ma non è che hai spifferato qualcosa!?
-Questo non l’ho fatto, stai tranquilla. E, soprattutto, non ho detto niente a tuo padre, anche se potevo farlo, perché ieri l’ho visto al paese, conclusi, aggiungendo un’altra bugia.
-Sei un tesoro e ti meriti un premio.
-Che mi dai?
-Ti do un bacio. Posso?
-Certo che puoi.
-Ma non qui. Ci possono vedere. Ci vediamo oggi pomeriggio alla Fonte, alla stessa ora di ieri, finì lei, scompigliandomi dolcemente i capelli.
Ebbi l’impressione di ricevere un colpo in testa, da cui stentai a riprendermi, e smisi di trasportare panieri. Quel giorno non trasportai più alcun paniere, né di Teresa, né di nessun’altra. Girovagai a lungo per la campagna  e di tanto in tanto ritornavo verso le vigne, per chiedere l’ora ai pochi che avevano la fortuna di possedere un orologio. Una volta  mi misi a frugare anche tra la roba di mio padre e, sempre per vedere l’ora per l’ennesima volta, ne trassi fuori una grossa cipolla da taschino di cui egli era gelosissimo e che io maneggiai con molta circospezione, per evitare di fare danni.
A pranzo mangiai  di fretta e voracemente, pur di non perdere tempo e, dopo la solita esibizione canora di mia madre,  che quel giorno ebbe il pregio di essere molto sbrigativa e veloce, sgattaiolai furtivamente e mi diressi verso La fonte.
        Non mi misi a correre, anzi camminavo a passi piuttosto lenti, per allungare il più a lungo possibile il piacere dell’attesa. Ogni tanto mi giravo indietro e ad un certo punto mi accorsi che Teresa mi stava seguendo, a circa cento metri di distanza. Mi fermai ad aspettarla e proseguimmo insieme, fianco a fianco e in silenzio.
        Mi era difficile dire qualcosa e, in particolare, avvertivo che mi era anche difficile capire davvero quello che io sentivo in seno, mentre la campagna tutt’intorno era sprofondata in uno strano silenzio ed una sparsa nuvolaglia, apparsa improvvisamente in cielo, sembrava preannunziare un temporale estivo.
Quando arrivammo alla Fonte, prima Teresa si diresse dietro un folto cespuglio, poi riapparve rassettandosi e si avvicinò a me. Io ero quasi paralizzato, mentre lei, come era solita fare, mi metteva le mani tra i capelli e li scompigliava amorevolmente.
-Avvicinati, mi disse.
Ed io mi avvicinai a lei il più possibile, fino a sentire il contatto delle sue gambe.
-Chiudi gli occhi, aggiunse.
Ed io chiusi gli occhi. E nello stesso tempo mi sollevai sulle punte dei piedi, nella speranza che così  il mio volto potesse almeno arrivare all’altezza del suo collo. Ero in attesa del bacio fatale che avrebbe aperto le cateratte del cielo, avrebbe scatenato le gerarchie degli angeli e dei demoni ed infine avrebbe dovuto sconvolgere per l’oggi e per il futuro l’equilibrio della mia esistenza.
Ed il bacio arrivò, non sulle labbra, nonostante mi fossi sollevato sulle punte dei piedi, ma sulla fronte. Fu un bacio dolce, ma rapido  e quasi sbrigativo.
-Ma tu stai tremando e la tua fronte scotta, esclamò Teresa.
-Io non sto tremando e la mia fronte non scotta. Sei tu che non capisci niente, risposi seccato, mentre già le prime gocce di pioggia cadevano tutt’intorno.
Ci mettemmo a correre tutti e due. Io ero più veloce, ma rallentai di proposito, per non lasciarla indietro e, dopo alcuni minuti, con qualche affanno e quasi ansimanti, con i vestiti molli di pioggia, arrivammo alla casetta dove già tutti gli altri avevano trovato rifugio ed erano preoccupati per la nostra assenza. Rassicurammo tutti con qualche bugia e instaurammo tra noi due una sorta di complicità che mi faceva presagire per il futuro una catena di delizie e di ulteriori piacevoli progetti.
Fuori intanto la pioggia continuava a cadere tra scrosci, lampi e tuoni  e durò fino a sera, quando, ormai sulle soglie del buio, tutti ci mettemmo in fila e, scivolando tra l’erba bagnata e le gocce che continuavano  a cadere dalle foglie degli alberi, finalmente ci avviammo verso il paese.
Il giorno successivo, terzo giorno di vendemmia, quando la carovana degli uomini e degli animali arrivò alla casetta, mi balzò subito agli occhi l’assenza di Giovanni, ma anche quella di Teresa. Qualcuno aveva saputo e riferì che, durante la notte, la ragazza aveva avuto un attacco di febbre e che per questo i genitori le avevano impedito di venire.
Ero scontroso e irascibile, in guerra con tutto e con tutti, con la vita, con gli uomini e anche con Dio. Girovagai in lungo ed in largo per la campagna, sconfinando anche in quelle limitrofe e senza mai avvicinarmi alle vigne. Arrivai fino al limite delle proprietà dei miei zii e zie, fino all’ultima, che era quella di zia Elena. Lì, potei vedere, incredibilmente vicina, la sagoma della nave di Santa Severina che si stagliava netta sullo sfondo. C’era un burrone, oltre quel limite, e io mi avvicinai pericolosamente, fino quasi a penzolare nel vuoto. Quel burrone, con la sua valle scoscesa e profonda, mi attraeva incredibilmente ed io provavo quasi un senso di vertigine.
Mi feci rivedere solo all’ora di pranzo, al quale non mi sentivo di rinunziare e che consumai in fretta e con la solita voracità. Poi di nuovo in giro, ad esplorare anfratti e dirupi, ad inseguire lucertole, a distruggere tutto quello che si poteva umanamente distruggere. Nel mio folle girovagare rividi anche La fonte ed il posto preciso in cui Teresa, il giorno prima, mi aveva dato quel primo, timido bacio.
Il giorno successivo era il quarto ed ultimo giorno di vendemmia, di norma riservato alle ultime incombenze. Non partii nemmeno per la campagna, perché sapevo che quell’ultimo giorno era sempre caratterizzato da un senso di disincanto e di malinconia, come normalmente avviene alla fine di ogni festa. Si raccoglieva tutto, si sistemava ciò che c’era da sistemare e si ritornava mestamente a casa, al grigiore della vita di ogni giorno. In più, alla mia età, all’idea della fine della vendemmia si associava un’altra idea: quella dell’inizio dell’anno scolastico e del ritorno a scuola, con i compiti da fare, lo studio, la disciplina.
Così io vivevo allora il rapporto con la campagna. Era per me l’età dell’innocenza non ancora perduta e che mi induceva a credere ostinatamente in un mondo che forse non esisteva più, o che almeno era sul punto di non esistere più. Ma quell’innocenza stava per dissolversi e si dissolse definitivamente un paio di anni dopo.
Si era in un mese di agosto particolarmente caldo ed arido. Allora, come sempre, non erano infrequenti gli incendi nelle campagne. Solo che allora non c’erano i pompieri o i Canadair e l’unica lotta agli incendi era quella dei volenterosi chiamati a raccolta dal suono delle campane. Era motivo di onore e di orgoglio poter aiutare gli altri, nella speranza che, in caso di bisogno, anche gli altri corressero in aiuto.
Quell’anno toccò a noi e al suono delle campane seppi che Garruòpolo era in pericolo. Ero un bambino di dieci anni allora, ma non ci pensai due volte. Scattai come una molla e mi misi a correre disperatamente. Lungo quei sentieri che avevo già percorso tante volte, l’unica mia ossessione era quella di arrivare presto, come se tutto dipendesse dalla mia presenza.
La polvere si sollevava fino a formare nuvole tortuose ed un paio di volte mi capitò anche di cadere.  Mi accorsi che il mio volto era bagnato e pensai si trattasse di sangue, ma, quando sollevai la mano a toccarmi, capii che quelle che rigavano il mio volto erano soltanto lacrime. Correvo e piangevo e ad un certo punto mi venne anche di pregare: Gesù , fai che Garruòpolo non bruci, fai che non diventiamo poveri. Ave Maria…
Quando arrivai in campagna, c’erano già tante persone che, armate di pertiche, frasche e bastoni, lottavano contro le fiamme. Anche io diedi il mio seppur modesto contributo, quando, prima di far ritorno a casa, spensi con la mia pipì una piccola fiamma che si ostinava a bruciare. Ritornai a casa sfinito.
A casa c’era solo Franca, la nostra domestica, che io consideravo come una sorella o una seconda mamma. Mi chiese allarmata:
-Com’ è andata, Zinnì (così mi chiamava)?
Ma io non avevo nemmeno voglia di parlare, tanto mi sentivo stanco. Allora Franca mi prese in braccio, poi si mise a sedere, mi strinse a sé e incominciò a cullarmi, sussurrando:
-Dormi, Zinnì,…dormi, dormi, Zinnì…
Ezio Scaramuzzino

(Nella foto: Tempo di vendemmia di Francesco Gioli)





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