lunedì 21 gennaio 2019

La guerra sconosciuta (racconto inedito) di Ezio Scaramuzzino



Se a Scandale chiedi a qualcuno di Francesco Iemma, morto a Crotone il 9 settembre del 1943, quasi sempre ti senti rispondere “E chi è ‘sto Francesco Iemma?”. Ed è normale che sia così, perché dopo la sua morte Francesco è stato del tutto dimenticato e nessuno, o quasi nessuno, ha più parlato di lui. Non c’è al paese qualcosa o qualcuno che ne ricordi la vita e, soprattutto, ne ricordi la tragica morte. Perché Francesco è morto in guerra, in uno strano episodio di una guerra che ormai volgeva al termine in dolorose convulsioni e che, nell’emanare gli ultimi bagliori della sua ferocia, incontrò Francesco e lo travolse. Ovviamente il suo nome non è nemmeno compreso nell’elenco del monumento ai caduti di tutte le guerre che fa bella mostra di sé nel piazzale antistante il Municipio e probabilmente anche il suo nome sarebbe svanito per sempre nella giungla dei ricordi smarriti, se non fosse per il fatto che un suo discendente, geloso custode delle memorie familiari, me ne fece parte un giorno con l’intento di indurmi a narrarne la storia e ridestarne così il ricordo.
Tutto iniziò alcuni anni fa, quando un giorno mi pervenne una lettera insolita, forse una delle ultime ad essere scritte in tempi di email e di corrispondenza elettronica. La aprii e la lessi con molta curiosità. In una grafia incerta vi era scritto: Carissimo ed autoritario (forse voleva dire autorevole) professore, so che voi scrivete dei libri di carta stampata ( e di che altro possono essere i libri?) ed io qualche volta ho letto i vostri libri. E mi sono piaciuti (meno male!, pensai). Proprio per questo voglio raccontarvi la storia del mio bisnonno Francesco, che è molto importante e che è stata dimenticata. Se la cosa vi interessa, chiamatemi a questo numero….e vi racconterò la storia. Cordiali saluti, Eugenio Iemma. Scandale.
Rimasi perplesso di fronte alla strana proposta, ma la curiosità mi spinse a dare un seguito a quella lettera, che veniva da Scandale e che proprio per questo sollecitava ulteriormente il mio interesse, come ogni cosa che riguardava il luogo dove ero nato e dove avevo vissuto i primi trenta anni della mia vita. Speravo di scoprire una storia interessante e che mi desse la possibilità di ricavarne qualcosa di buono.
Lo chiamai al telefono.
- Io non ti conosco o almeno non ho alcun ricordo di te.
- Lo so che non mi conoscete, ma io vi conosco e vi ricordo molto bene. Quando eravate al paese, io ero ancora un bambino. Siete stato professore di mio fratello, ma sono stato anche io un vostro alunno. Quando giocavate a Terziglio nel Bar Sportivo di Scandale, io mi mettevo alle vostre spalle e, senza disturbare o dire una parola, seguivo le vostre giocate ed ho imparato a giocare come voi. Grande professore e grande giocatore di carte!
- Ti ringrazio per la stima, ma tieni presente che, se proprio debbo scegliere, preferisco essere ricordato come giocatore di carte, piuttosto che come professore. Comunque qual è ‘sta storia che mi vuoi raccontare? Anzi, facciamo una cosa. Tu registrala su una cassetta questa storia e me la porti, così possiamo parlarne meglio a voce.
- Va bene, professore. La preparo e ve la porto a casa, a Crotone.
        Qualche giorno dopo mi si presentò a casa un giovane di circa trenta anni, servizievole, gentilissimo, che mi consegnò una registrazione e con il quale parlai a lungo della vicenda del suo bisnonno, trovandola  meritevole di un qualche approfondimento.
-Trovo interessante ciò che mi hai raccontato, gli dissi, e non escludo di ricavarne al più presto qualcosa su cui imbastire un racconto. Spero anche che la tua registrazione possa essermi utile per chiarire alcuni punti della vicenda e ti prometto che quanto prima ti farò sapere.
-Grazie, professore, grazie. Sono sicuro che la storia vi piacerà. Comunque non c’è fretta. Prendetevi pure il tempo che volete ed in ogni caso grazie di nuovo.
In seguito, preso da altri problemi e da altre incombenze, trascurai la cosa e tutto finì nel dimenticatoio. A distanza di qualche anno, mentre rimettevo a posto le mille cianfrusaglie del mio studio, un mese fa ho ritrovato la cassetta in una busta su cui era scritto “Francesco Iemma di Scandale”. Ho ricordato tutto, ho ascoltato la cassetta e, seppure a distanza di tanto tempo, ho deciso di mantenere le mie promesse al giovane Iemma e di rendere giustizia alla memoria di Francesco Iemma, eroe sfortunato, sconosciuto e dimenticato di una guerra lontana e crudele. Il racconto che segue ricalca a grandi linee quanto mi era stato riferito, anche se, ovviamente, è stato integrato con tutte le ipotesi verosimili che ho ritenuto utili a completarlo.
Francesco era nato a Scandale nel 1883 ed aveva partecipato alla Prima Guerra Mondiale. Era stato richiamato come tanti e, come tanti, aveva conosciuto la vita di trincea, il fango, il freddo, gli assalti, le ritirate, fino a Caporetto e poi fino a Vittorio Veneto. La guerra lo aveva segnato per il resto della vita, anche perché egli non ne aveva capito le cause e il senso. Certo, aveva sentito parlare di terre irredente e di unità della Patria, ma egli non sapeva che cosa fosse l’irredentismo e della Patria aveva un’idea vaga e fumosa. Aveva combattuto con onore e con coraggio, ma solo perché sapeva che in caso di codardia c’erano le decimazioni e soprattutto perché a fine guerra, così gli avevano detto, ci sarebbe stata la distribuzione delle terre ai contadini.
Quando la guerra finì, anche lui ritornò a casa ed attese invano quella distribuzione. Poi tutto incominciò a mescolarsi nella sua mente e solo poche cose egli ritenne meritevoli di essere conosciute dagli altri. E così egli raccontava preferibilmente il breve periodo in cui era stato distaccato in un reggimento di cavalleria e poi era stato al servizio di un certo generale Capello e di una contessa amica del generale, che egli ricordava bellissima e fatale.
Poi Francesco si sposò ed ebbe dei figli mentre al paese si incominciava a parlare di Fascismo, del Duce, di Mussolini e i muri delle case incominciavano a riempirsi delle frasi e delle parole d’ordine del nuovo regime. Ma egli, come sempre, stentava a raccapezzarsi nell’evoluzione dei fatti storici. I primi tempi arrivò addirittura a confondere Benito Mussolini con il brigante Giuseppe Musolino e trovò molto strano che un famoso brigante, autore di numerosi ed atroci delitti, potesse diventare Capo del governo ed amico del Re Vittorio emanuele III, per il quale egli era andato a combattere in guerra.
Ma, anche se ogni tanto faceva confusione, tutto questo non gli impedì in quel periodo di fare una vita normale e, tutto sommato, tranquilla. Partecipava alle manifestazioni del Sabato fascista, nelle quali indossava la sua camicia nera stirata di fresco, e finì col diventare anche uomo di fiducia dell’esponente più importante del Fascismo locale, don Nicola Girimonti, che lo utilizzava di tanto in tanto in compiti non ufficiali.
Quando l’Italia entrò nella Seconda Guerra Mondiale, non si preoccupò più di tanto. Il Duce, lo dicevano tutti, avrebbe portato alla vittoria, ma, soprattutto, non si preoccupò molto per il suo personale destino. Aveva ormai una certa età, quasi sessanta anni, e non c’era alcun rischio che potessero richiamarlo in guerra.
Fu assegnato alla milizia territoriale con compiti, tutto sommato, poco impegnativi. Insieme con un commilitone, a turno e per due giorni alla settimana doveva perlustrare le campagne intorno, alla ricerca di eventuali prigionieri di guerra evasi, e soprattutto, ipotesi ancora più temuta, alla scoperta di eventuali soldati americani o inglesi, infiltratisi oltre le linee nemiche. Ma i paventati pericoli non si tramutarono mai in  realtà. Francesco ed il suo compagno d’armi giravano tranquillamente per le campagne, verso mezzogiorno si sedevano all’ombra di un ulivo e mangiavano la colazione amorevolmente preparata dalle rispettive consorti e, sul far della sera, ritornavano in paese, dove preparavano il rapporto della giornata, sempre negativo, e lo consegnavano al Podestà.
Solo una volta, mentre stavano mangiando e bevendo un bicchiere di vino, Francesco vide che in una vigna si aggirava un tipo con fare sospetto.
- Ssst, fece segno al compagno.
- Che c’è?
- Silenzio! E non ti muovere…C’è qualcuno di là…
Entrambi si nascosero dietro un albero e da lì poterono vedere che uno sconosciuto si cibava furiosamente di uva, come se non mangiasse da tempo. Si precipitarono fuori con la pistola puntata e Francesco gridò: “Alto là, chi va là!”. Al vederli, lo sconosciuto si diede alla fuga e li costrinse ad una lunga rincorsa. Quando lo raggiunsero, quello incominciò ad esprimersi con i segni ed a parlare con suoni inarticolati come un sordomuto. Francesco non ebbe dubbi: quel giovane era certamente uno straniero, quasi certamente un soldato, e fingeva, soltanto fingeva, di essere sordomuto. Lo arrestarono e lo condussero in paese dove i due commilitoni erano certi di ricevere un encomio solenne. Ma non ci volle molto ad appurare che l’arrestato era un vero sordomuto, del vicino paese di San Mauro Marchesato, aduso a scorribande nelle campagne limitrofe, dove razziava tutto quel che gli capitava a tiro.
Intanto la guerra andava avanti con alterne vicende, ma Francesco non ne risentiva più di tanto, perché il suo lavoro di contadino gli consentiva di tirare avanti con la sua famiglia. Inoltre la sua attività di milite territoriale non gli impediva di praticare con un certo successo il mercato nero. Lo facevano tutti, senza scrupoli, e ad un certo punto incominciò a farlo pure lui, non certo a Scandale, ma nella vicina Crotone, dove tutti si davano da fare e dove le varie ordinanze minacciose del regime erano considerate poco più che carta straccia.
Francesco era solito partire all’alba, poco prima del sorgere del sole, con uno sciaraballo a cui aveva legato un mulo. Lo riempiva, sotto una coperta, di ogni ben di Dio, uova, polli, verdura, formaggi, olio: in parte era roba che produceva lui, in parte egli non disdegnava di vendere anche per conto terzi, limitandosi poi a trattenere una parte del ricavato per l’opera di intermediazione.
Arrivava a Crotone dopo un’ora e mezza circa e stazionava con il suo sciaraballo in una stradina alle spalle dell’attuale piazza Pitagora, dove gli interessati sapevano di trovarlo con una certa regolarità. La roba gli andava via in un paio di ore e, subito dopo aver contato l’incasso e averlo messo al sicuro in una tasca segreta ricavata in un paio di mutandoni, si apprestava a ripartire.
Ma era ancora presto e molto spesso Francesco, sulla strada del ritorno, non disdegnava di fare una sosta alla foce del fiume Esaro o a quella del torrente Giammiglione, per praticare un po’ di pesca, in cui era molto bravo. Slegava il mulo e lo faceva pascolare liberamente, mentre lui in un’oretta si dava da fare a pescare quel che capitava, quasi sempre capitoni, anguille e comunque pesci d’acqua dolce. Poi si rimetteva in viaggio e nell’immediato pomeriggio era già a casa.
Così faceva un paio di volte a settimana. Una volta, per incrementare il bottino della pesca, decise di ricorrere alla pesca di frodo. Di ritorno dalle sue perlustrazioni nelle campagne di Scandale, dimenticò, o fece finta, di riconsegnare le due bombe a mano che gli venivano date in dotazione al mattino.
Il giorno dopo utilizzò una bomba nel fiume Esaro. Chi poteva accorgersi o far caso allo scoppio di una piccola bomba a mano, quando gli aerei alleati quasi ogni giorno da un po’ di tempo martellavano la zona industriale di Crotone e qualche volta anche il centro della città? Gli andò bene, perché il bottino di pesci fu ingente, e da quel giorno, sempre più spesso, Francesco dimenticò di riconsegnare le due bombe a mano in dotazione.
Intanto, si era nei primi giorni di settembre del 1943, la guerra andava avanti e si avviava verso il suo tragico epilogo. Ma Francesco non ascoltava Radio Londra, anche perché non aveva una radio e non leggeva i giornali, anche perché di giornali a Scandale non ne arrivavano. Cercava di carpire notizie a quelli che egli considerava informati, ma aveva idee confuse su quel che stava succedendo. Sapeva solo che il Fascismo era finito il 25 luglio del 1943 e che Mussolini era stato arrestato e custodito da qualche parte,  e lo sapeva anche perché la Milizia territoriale, di cui faceva parte, era stata sciolta ed aveva notato che tutti i Fascisti più in vista del paese cercavano di far dimenticare il loro passato. Ma per il resto non aveva idee precise e, soprattutto, non aveva idee precise sull’andamento della guerra, che comunque continuava.
La mattina del 9 settembre 1943, era un giovedì, Francesco si apprestò a partire per Crotone con il suo sciaraballo. Egli non sapeva che la sera prima, alle ore 19.45, la radio aveva trasmesso un drammatico proclama del nuovo capo del governo Pietro Badoglio, che annunziava la resa dell’Italia agli alleati angloamericani, con tutto ciò che questa decisione comportava sui rapporti con gli ex-alleati tedeschi. Ma probabilmente, se anche l’avesse saputo, egli non avrebbe rinunciato al suo viaggio.
Come al solito egli caricò la roba, poi andò a prelevare due bombe a mano nel nascondiglio segreto dove le aveva riposte nei mesi precedenti e verso le sei del mattino si avviò.
Già, al bivio Giammiglione, ebbe modo di notare un insolito fermento di mezzi militari. Un soldato tedesco, molto nervoso, dirigeva il traffico dando la precedenza assoluta ad alcuni blindati diretti sulla strada per Taranto. Francesco fu costretto ad aspettare per circa dieci minuti, ma non si preoccupò più di tanto. Quando ebbe la possibilità di muoversi, sulla strada per Crotone incrociò anche alcuni carri armati, fatto per lui insolito, ma anche questo non valse a togliergli la tranquillità.
Arrivò a Crotone con un bel po’ di ritardo rispetto al solito, ma questo non cambiò più di tanto la sua giornata. Arrivò nella solita stradina e vendette tutte le sue mercanzie. Quel giorno, per la prima volta in vita sua, incassò anche dei dollari, offertigli da un cliente sconosciuto e che egli accettò ben volentieri. Poi, verso le 11 si preparò per il ritorno, riservandosi anche, se ce ne fosse stata la possibilità, una puntatina sul fiume Esaro per la sua pesca miracolosa.
Quando con il suo sciaraballo sboccò sulla strada statale 106, vide che il traffico di mezzi militari era aumentato notevolmente e che anche il nervosismo dei soldati tedeschi era aumentato di pari passo. Un’intera guarnigione tedesca, di stanza nella piazza militare di Crotone, si dirigeva verso il nord, mentre non si vedevano in giro soldati italiani.
Un ufficiale tedesco aveva anche istituito un posto di blocco, dove alcuni soldati chiedevano i documenti ai conducenti di tutti i mezzi. Francesco controllò che i soldi fossero al sicuro nella tasca nascosta dei mutandoni, nella quale tasca ripose furtivamente anche le due piccole bombe a mano che dovevano servirgli per la pesca. Si sentiva tranquillo, tutto sommato.
Quando arrivò il suo turno al posto di blocco, un soldato bloccò il mulo e gli si rivolse in un italiano molto stentato, misto ad un tedesco per lui incomprensibile.
-Papiren, bitte. Tocumendi…
Francesco gli diede la sua carta d’identità, con la sua vecchia foto che lo ritraeva ancora in camicia nera.
-Tu fascista? Pravo…Jawhol…
Francesco pensava di aver superato il controllo, ma improvvisamente il soldato ebbe come un ripensamento, contrasse leggermente il volto e gli ordinò di accostare sul bordo della strada, mentre affidava ad un suo commilitone il controllo degli altri mezzi.
-Schnell, schnell (Presto). Feloce…sséndere…
Francesco accostò e poi scese dal carretto.
- Vuotare taske. Métere per tera.
E Francesco svuotò con voluta lentezza il contenuto delle tasche e lo poggiò per terra. C’era poca roba: un coltellino, un fazzoletto, un involucro con un pezzo di pane, alcune chiavi.
-Schnell, schnell, mani in alto.
E Francesco alzò le mani. Il soldato incominciò a perquisirlo. Non notò niente all’altezza del torace, ma in basso, all’altezza delle pudenda, toccò qualcosa di duro, di molto duro. Lo costrinse a slacciare i pantaloni ed a tirar fuori quello che aveva nascosto nei mutandoni. Vennero fuori le due bombe a mano e i soldi di incasso della giornata, tra cui, cosa non meno grave agli occhi del Tedesco, i dollari ricevuti dallo sconosciuto.
-Ahhh….Pene…Tu essere spia. Tòllari, pompe a mano. Tu ciustificare con comando. Komm mit mir (Vieni con me). Fieni.
Il soldato lo prese per la collottola e lo trascinò via, mentre con l’altra mano teneva la pistola puntata verso di lui. Lo condusse in uno spiazzo a circa 100 metri di distanza dalla strada, dove in una tenda da campo un colonnello della Wermacht verosimilmente presiedeva alle operazioni di sgombero di un intero reggimento dalla città. La confusione tutt’intorno era incredibile, ma quell’ufficiale riusciva a mantenere la calma anche nella bolgia che lo circondava.
- Herr Oberst, hier ist ein amerikanischer Spion (Signor colonnello, ecco una spia americana), disse il soldato.
- Wo hast du es gefunden? (dove l’hai trovato?)
- Er befand sich in einem Wagen mit Dollars und Granaten (Era su un carretto con dollari e bombe a mano)
- Auftauchen (Fai vedere)
- Hier, Herr Oberst (Ecco, signor colonnello)
- Erschieß es jetzt (Fucilatelo subito).
- (rivolto a Francesco) Tu cosa dire?
Di tutto quel dialogo concitato Francesco aveva capito soltanto che l’avevano scambiato per una spia americana. Fu preso dal terrore e si sentì perduto.
-Signor comandante generale, io non sono una spia. Le bombe mi servono per la pesca e i dollari me li hanno dati stamattina in cambio di un paio di polli. Vi prego, capitemi e perdonatemi, disse, mentre si accorgeva che si stava inginocchiando e che un rivolo di calda urina gli stava bagnando i pantaloni. Signor generale, io non sono una spia, riprese ad implorare, ed ho tre figli che mi aspettano a casa.
- Geh, geh, schieß es (Via, via, fucilatelo).
Francesco fu afferrato da due valorosi soldati teutonici, che lo portarono dietro una collinetta. Nel mentre avanzava, trascinandosi quasi sul terreno, ebbe modo e tempo di ripercorrere come in un baleno l’intera sua esistenza, come si dice che capiti a quelli che stanno per abbandonare la vita terrena. Si rivide bambino che giocava sulle ginocchia della madre, poi soldato sulle montagne del Carso, poi marito e padre al paese e, ormai cessata la disperazione che lo aveva attanagliato fino a poco prima, sentì di avere una dolcissima e profonda pietà per se stesso. Mentre lo appoggiavano al tronco di un albero, mise le mani davanti agli occhi per riparasi dal sole; ebbe il tempo di guardare lontano e vide le case del suo paese che si stendevano sulle colline. Smise di piangere, si mise diritto, sollevò la testa e vide i due soldati che, ad una decina di metri di distanza, prendevano la mira contro di lui. Poi sentì due colpi di fucile e si accasciò al suolo. La fiammella della sua vita emanò un ultimo guizzo, crepitò ancora per un po’ e poi si spense, per sempre.
Un paio di giorni dopo il corpo di Francesco fu scoperto per caso. Non c’erano documenti di riconoscimento addosso e, dati i tempi calamitosi che si stavano vivendo, nessuno fece indagini per scoprirne l’identità. Fu sepolto in una fossa comune dopo che qualcuno con uno spago gli aveva legato ad una mano una targhetta di cartone con la scritta “SCONOSCIUTO”.
Ezio Scaramuzzino

gennaio 2019

giovedì 3 gennaio 2019

Il gioco delle Tre Carte (racconto inedito) di Ezio Scaramuzzino


*

Era il mese di agosto del 1954 e di mattina, con il vestito della festa, mi apprestavo ad uscire di casa. C’era a Scandale la festa della Madonna del Condoleo e, come sempre in queste circostanze, avevo in tasca qualche soldino in più. Non che potessi scialacquare, anche perché in quei tempi non poteva scialacquare nessuno e tanto meno potevo scialacquare io, ma qualche spesuccia in più in quel giorno di festa me la potevo permettere.
Per rassicurarmi sull’entità del mio gruzzolo, camminavo per il corso  con la mano appoggiata sulla tasca dei calzoni, dove le monete creavano un piacevole rigonfiamento e di tanto in tanto, quando sollevavo la mano, ne avvertivo il dolce tintinnio. Un paio di volte mi fermai a contare i miei soldini. Tirai fuori il gruzzolo, presi le monete e mi rassicurai. Avevo in tutto la bellezza di 500 lire, frutto  di un extra consegnatomi  quella mattina da mia madre, ma soprattutto  dovuto alle settimanali dieci lire, che mi venivano consegnate perché io le mettessi nella sacchetta del sacrestano alla messa domenicale, che invece io molto spesso trattenevo per giocarmele  a battimuro con alterna fortuna e che avevo incrementato con una straordinaria vincita proprio qualche giorno prima.
Avevo scrupolo per quei soldini che credevo di sottrarre in maniera fraudolenta alla Chiesa ed avevo deciso, proprio per togliermi i sensi di colpa, di andare in chiesa quel giorno a depositare un’offerta più consistente. Volevo  quasi condividere i soldi vinti con Don Renato, il parroco, al quale sentivo di riconoscere una parziale e legittima proprietà in ricompensa della protezione che il buon Dio mi aveva certamente accordato nel gioco.
Evitai di correre, come facevo di solito a quell’età, anche perché, correndo, mi riusciva difficile poggiare la mano sulla tasca e non volevo correre il rischio di perdere qualche soldino. Scendevo tranquillo lungo viale Puccini ed ero arrivato all’altezza dello Slargo Genuzzo, quando vidi venirmi incontro Sarino Anastasi.
-Ezio, dove vai?
-Vado in chiesa, alla Messa.
-Ma è ancora presto, manca ancora mezz’ora. Fermati, che facciamo un po’ di battimuro.
-Non posso, non posso…
-Ma l’altro giorno, quando hai vinto tanto, il tempo ce l’avevi. Mi devi dare una rivincita, anche se dobbiamo giocare io e te soli, anche per cinque minuti….. non puoi rifiutarti o te ne faccio pentire, mi disse con tono vagamente minaccioso.
- L’altro giorno era l’altro giorno, oggi è oggi.
 Sarino, che era molto più robusto di me,  incominciò a strattonarmi ed io, per evitare di strapazzare la mia camicia nuova, gli accordai, seppure a malincuore, qualche minuto di gioco.
Tirammo a sorte chi doveva battere per primo e toccò a me. Presi dieci lire dal mio gruzzolo, le famose dieci lire con l’aratro e le spighe, e le feci rimbalzare sulla parete di una casa di fronte. Sarino invece tirò male e le sue dieci si posarono a ridosso della parete. Per me risultò facile vincere al tiro successivo. Il secondo giro fu iniziato da Sarino che questa volta tirò bene e fece rimbalzare il suo decino a circa tre metri dalla parete. Quando toccò a me, impressi molta forza al lancio, ma la moneta ricadde a terra sul bordo, poi incominciò lentamente a rotolare e si fermò a poca distanza dall’altra. Misurai con il palmo della mano, toccai le due monete e rivinsi. Vinsi anche le tre volte successive: quel giorno tutto mi andava bene.
-Ho finito i soldi, disse Sarino. Se mi presti cinquanta lire, continuiamo.
-No, caro. Quando uno non ha soldi, non si gioca.
E, per evitargli altre tentazioni, mi affrettai ad allontanarmi, correndo, verso la chiesa, ove giunsi in anticipo. C’era la possibilità, nell’attesa, di fare una partita a calciobalilla nel bar di Benedetto Ierardi. Non fu difficile trovare un avversario per una partita in due, con rivincita ed eventuale “bella”, da giocare al volo (cioè senza poter fermare la palla e soprattutto senza il famoso “gancio” in zona d’attacco). Trovai nel bar Ciccio Garieri, il quale, pur essendo figlio del sacrestano, evidentemente quel giorno non godeva della protezione divina, perché perse le due partite e fu costretto anche a pagarmi un gelato, che divorai in un baleno per affrettarmi ad entrare in chiesa.
Ascoltai la Messa quel giorno con particolare fervore. Mi sentivo protetto da Dio ed avvertivo la vaga necessità di ricambiare in qualche modo, dimostrando riconoscenza con la mia devozione e, soprattutto, mettendo nel sacchetto delle offerte ben cento lire, una sommetta che non avevo mai messo in precedenza. Volevo dire al buon Dio che io non solo lo consideravo il mio protettore, ma anche, perché no, il mio socio in affari, dandogli giustamente la parte di sua spettanza.
All’ “Ite, Missa est” sgattaiolai fuori dalla chiesa tra la folla che faceva ressa all’uscita e intanto, mentalmente, facevo i conti di quanto avevo in tasca. Ero uscito con 500 lire, ne avevo vinte 50 a battimuro, ne avevo offerte 100 in chiesa, quindi avevo 450 lire: una sommetta con cui potevo ancora permettermi qualcosa di interessante.
 Nella piazza c’era una marea di gente. Comprai un mostacciuolo, di cui ero particolarmente ghiotto, e poi mi misi a curiosare tra le varie bancarelle. In un angolo della piazza, una sembrava particolarmente trascurata dalla gente ed un tipo dall’aria piuttosto spavalda si affannava a richiamare l’attenzione dei passanti agitando tra le mani alcune carte da giuoco.
Lo conoscevo quel tipo: era uno di Crotone che, immancabilmente, ogni anno, alla festa della Madonna, preparava il suo banchetto, appoggiato su uno scatolo di cartone, sempre allo stesso angolo della piazza e lì faceva il gioco delle Tre Carte. Mi avvicinai per curiosità, ma mantenendomi ad una certa distanza. Subito mi accorsi che due uomini si erano avvicinati e si erano disposti dietro di me. Con movimenti pressoché impercettibili e con piccole spinte mi fecero avvicinare sempre di più, cosicché dopo nemmeno un paio di minuti finii col trovarmi in prima fila proprio davanti al banchetto.
Intanto il tipo dava qualche dimostrazione, roteando e posando tre carte, tra le quali bisognava indovinare l’Asso di denari, e dicendo come un ritornello “questa vince e questa perde”. Il gioco sembrava piuttosto facile e banale. Mentalmente cercavo di indovinare ed indovinavo sempre. Non ci voleva molto a capire che il giocatore di carte ed i suoi due compari, o zaraffi come erano comunemente chiamati, avevano puntato gli occhi su di me, non facendosi scrupolo di spennare anche un bambino. Ma io, che ero il pollo-bambino, non l’avevo capito e, pur non avendo voglia di farmi spennare, ero ormai entrato perfettamente nel mio ruolo di vittima.
-Bel bambino, non c’è bisogno di puntare soldi, voglio solo vedere se sei bravo ad indovinare. Dov’è l’asso?, diceva.
Ed io, timidamente, alzai la mano sinistra, mentre con la destra premevo sui soldini nella mia saccoccia, e toccai la carta vincente. Avevo indovinato, come pensavo.
-Hai indovinato, ma non avevi puntato e quindi non hai vinto niente.
Al turno successivo, mentre io stavo a guardare, uno dei due zaraffi improvvisamente puntò e vinse cinquanta lire. Vinse altre tre volte di fila, sempre cinquanta lire, e l’unica volta che perse finse di disperarsi. Solo una volta, accortomi che quello aveva puntato male, tirai fuori velocemente dieci lire e le puntai sulla carta giusta.
-Bravo, bambino, sei sveglio ed hai indovinato. Ma la puntata minima è cinquanta.
Ad una puntata successiva partecipò anche il secondo zaraffa. Mise una mano sulla carta vincente e con l’altra mano estrasse dalla tasca posteriore il portafogli, ma, non potendo manovrare con una sola mano, mi chiese di aprirlo e di prendere cento lire. Cosa che io feci volentieri, consentendogli di vincere ben cento lire: cosa per me incredibile e straordinaria. Nel mentre, con fare furtivo, io cercavo di avere pronte con la mano in tasca le mie cinquanta lire, i due zaraffi continuavano a vincere. Ad una puntata successiva, individuata la carta giusta, aggiunsi improvvisamente il mio cinquantino ai soldi dei due zaraffi.
-Bravo, bel bambino, le regole del gioco non permettono che tutti puntino sulla stessa carta. Il terzo viene escluso. Ma con te voglio fare un’eccezione. Hai vinto.
E ricevetti cinquanta lire. Riavevo in tasca di nuovo 500 lire. Ero sbalordito. Non mi sembrava vero che si potesse vincere tanto con un gioco che mi sembrava addirittura sciocco nella sua semplicità. Oltre tutto mi ero convinto che quella era una persona per bene, che non imbrogliava, che non approfittava della mia età, e con cui si poteva giocare lealmente. Bisognava solo fare attenzione alla due carte tenute nella mano destra, che non sempre egli poneva sul tavolo nello stesso ordine con cui apparivano. Ma lo faceva in maniera così lenta ed evidente che non creava particolari difficoltà. Almeno a me, o almeno così credevo.
        Per il turno successivo mi tenni pronte in mano 150 lire: i due zaraffi ed il giocatore dovevano essersene accorti e prepararono la prima trappola. I due si astennero dal giocare ed il baro posò le carte con la solita flemma. Con il cuore in tumulto puntai 150, ma ero sicuro di vincere. Mi distrassi solo un attimo quando qualcuno gridò che c’erano le guardie lì vicino e girai la testa forse per uno-due secondi. Quando le carte furono scoperte, dovetti amaramente constatare che l’asso di denari non era dove io avevo puntato e che in una sola botta il mio gruzzolo si era ridotto a 350 lire. Ma non mi diedi per vinto. Giocai 50 lire e vinsi: gruzzolo a quota 400. Poi puntai 100, mentre i due compari non giocavano più. Persi: gruzzolo a quota 300.
Non mi rassegnai a perdere e decisi di giocare il tutto per tutto. Bisognava solo stare attenti ai virtuosismi della mano destra. Rimasi attentissimo. Forse con la testa mimavo addirittura i movimenti della mano destra del baro. Puntai le 300 lire che mi erano rimaste ed ero sicuro di vincere, non potevo non vincere. Mentre ero in attesa che venissero scoperte le carte, la stessa voce di prima gridò che c’erano le guardie. Questa volta non mi girai e non mi distrassi, ma non servì a niente. In un attimo vidi che uno dei due compari diede un calcio allo scatolo di cartone che reggeva il banchetto, mentre l’altro arraffava i soldi che avevo puntato e tutto finiva per terra.
Nella calca che ne seguì fui travolto e calpestato dal baro che stava scappando e rimasi a terra dolorante e con un po’ di sangue che mi colava dal labbro. Quando mi rialzai, vidi davanti a me don Amedeo Cizza, la guardia comunale, come allora si chiamava la polizia locale, che mi prese per mano e mi condusse con sé al piano terra del Municipio, che si trovava a pochissima distanza e dove ritrovai anche i tre compari della mia disavventura, nel frattempo bloccati da un’altra guardia.
Con qualche lacrima che mi colava lungo il viso, riuscii a raccontare quello che mi era successo.
Io-Ero appena uscito dalla chiesa, quando mi sono avvicinato al banchetto del gioco. Ho puntato le mie ultime 300 lire, ma è saltato via tutto perché quel signore ha dato un calcio allo scatolo del banchetto e mi sono ritrovato per terra, senza capire più niente.
Il primo compare- Io non ho dato un calcio allo scatolo. Lo scatolo è caduto da solo perché era mal posto ed il banchetto è crollato sullo scatolo. E’ vero che ho alzato il piede, ma solo per reggere il banchetto, non per farlo cadere.
Il secondo compare- Io ho preso le 300 lire, è vero, ma solo per ridargliele ed evitare che nella confusione potessero finire per terra e perdersi.
La guardia Cizza- E voi vi siete approfittati di un bambino?!
Il baro- Signora guardia, intanto ci tengo a precisare che questi due signori, che avete messo accanto a me, non sono miei compari e proprio non li conosco. Per il resto io sapevo bene di avere a che fare con un bambino e stavo giocando con lui ma solo su sua richiesta e per scherzare, per passare il tempo.
La guardia Cizza- E tu, per passare il tempo, gli hai fregato quasi 500 lire? Così passi il tempo tu? Quanto a quei due lo stabilirà il signor Pretore se erano o non erano tuoi compari. Abbiamo chiamato i carabinieri di Santa Severina che ti porteranno direttamente in carcere dove potrai chiarire con il signor Pretore.
Il baro- Ma no, signora guardia, io i soldi glieli stavo solo tenendo, solo per gioco, in attesa di restituirglieli, quando è successo il finimondo. E anzi, per farvi vedere che dico la verità, ecco, i soldi glieli restituisco adesso….(rivolto a me) Quanti soldi avevi, quando sei arrivato?
Io- 450.
Il baro- Ecco 450. Anzi te ne do 500, per farti vedere che ti sono amico e non volevo fregarti.
E così dicendo mi passò un bel gruzzolo di soldi, che io contai, accorgendomi che in realtà erano 600 lire, quanto contavo di averne alla fine dell’ultima puntata, prima del patatrac.
Fu l’ultima volta che ebbi a che fare con il gioco delle tre Carte, a parte un veloce assaggio da studente all’autostazione di Romano, dove circa dieci anni dopo riuscii a farmi fregare, dal baro di turno, 500 lire. Bazzecole, ormai.
A distanza di tanti anni, nel corso della mia vita, mi è capitato spesso di ricordare queste piccole disavventure e non nascondo che, ogni volta, assieme alla delusione per i pochi soldi persi, ho sempre avvertito un senso di ammirazione per l’abilità da prestigiatore che contraddistingue questi virtuosi del gioco delle Tre Carte.
Circa 50 anni dopo dai fatti appena rievocati, mi sono ritrovato a Praga in una gita scolastica insieme con i miei studenti. In un angolo di piazza  Venceslao  notai la presenza di un banchetto con un giocatore che in un Italiano approssimativo si esibiva nel gioco delle Tre Carte. Mi avvicinai con cautela e curiosità. Non ero più un bambino, anzi….ma ero sempre affascinato dalle giravolte e dalle traversie di quel gioco per me quasi inafferrabile e ripieno di un fascino misterioso che mi attraeva.
Puntai diecimila lire, una cifra tutto sommato modesta allora. Mentre aspettavo che le carte fossero scoperte, un signore, uno zaraffa evidentemente, mi fece a qualche metro di distanza un segno con la mano, come volesse chiamarmi. A distanza di cinquanta anni, ancora una volta come quando ero bambino, alzai gli occhi senza neppure voltarmi. Li alzai forse per uno-due secondi che furono sufficienti per farmi perdere. E difatti persi, ancora una volta, come una volta, come cinquanta anni prima. Mi rassegnai e me ne andai, un po’ scornato.
 A distanza di due anni mi ritrovai, in un’altra gita scolastica, ancora una volta a Praga, in Piazza Venceslao. Guardai nello stesso angolo di due anni prima e vidi che, ancora una volta, c’era un tipo, forse sempre lo stesso, che faceva il gioco delle Tre Carte. Fui preso dal demone della rivincita e decisi di ritentare la fortuna. Puntai altre diecimila lire e tenni gli occhi fissi sul tavolo, insensibile ad ogni eventuale richiamo esterno. Penso che, se qualcuno mi avesse detto che in quel momento a cento metri di distanza era scoppiata una bomba atomica, io sarei morto lì a Praga, in Piazza Venceslao, con gli occhi fissi e sbarrati sul tavolo delle Tre Carte. Ma non scoppiò nessuna bomba atomica e non ci fu bisogno che io mi distraessi neppure per un secondo. Rimasi con gli occhi fissi sulla mia puntata e, come in un film al rallentatore, vidi il baro che scopriva lentamente le carte e ripeteva con una voce cavernosa “hai perso…hai perso…mi dispiace…”. Me ne andai, al rallentatore, come nel prosieguo del film appena iniziato, con la morte nel cuore ed ormai rassegnato. Per il resto della mia vita non avrei più tentato, non dico di vincere, ma almeno di capire il mistero di quelle mani che si movevano con la leggerezza delle ali di una farfalla e di quelle carte che si spostavano e si dileguavano con la stessa inconsistenza dei sogni. 
Ezio Scaramuzzino

* Caravaggio: I bari (1594) - Kimbell Art Museum di Fort Worth (USA)