Dei
morti non si può che parlar bene ed anche di Andrea Camilleri, che ci ha
lasciati ieri, quindi, non si può che parlar bene. A patto di non esagerare,
però. L’orgia di incensamento, che imperversa su quasi tutti i media, rischia di
diventare ridicola, se non grottesca.
Mi
è capitato di sentire di tutto, in questi due giorni. C’è chi lo ha paragonato
a Verga, chi, addirittura, non si è fatto scrupolo di accostarlo a Dante
Alighieri. E perché non accostarlo, già che ci siamo, a William Shakespeare, ad
Omero, a Giovanni Boccaccio?
La
verità su Camilleri aleggia in spazi molto più angusti e si mantiene su livelli
molto più modesti. E forse non è inopportuno dirne qualcosa, per evitare di cantare nel coro.
Camilleri
era un modesto scrittore, rispettabile nel complesso, ma modesto, ed il fatto
stesso di aver raggiunto il successo in età veneranda dovrebbe pur significare
qualcosa. Non che Camilleri in precedenza non lo avesse cercato, questo
successo, ma gli era andata buca. Forse non tutti sanno che i suoi primi
manoscritti egli li aveva mandati a Leonardo Sciascia, per averne un giudizio
ed un appoggio, ma Sciascia, che pure era suo amico o forse proprio per questo,
glieli aveva restituiti, consigliandogli di lasciar perdere e di continuare a
fare quello che stava già facendo, cioè l’impiegato/funzionario di Mamma Rai.
Poi,
quando era prossimo ai settanta, arrivò il successo, rapido, incredibile,
strepitoso, travolgente. Come si spiega questo successo? Come si spiegano i
milioni di libri venduti?
Ho
motivo di ritenere che il successo non fosse dovuto ai suoi meriti letterari,
ma al fatto che Camilleri spuntò dalla parte giusta, al momento giusto, con le
idee giuste.
Cercai
anche io di capirlo, ma non ci riuscii e, dopo aver letto solo un paio dei suoi
libri, lo accantonai, consapevole del
fatto che, ad ignorarlo, non si perdeva molto. Le storie che egli inventava non
erano molto diverse da quelle reperibili in qualunque giallo di livello medio,
ma mi creava un ostacolo insormontabile la sua grossolana lingua siculo-italiana, che egli
utilizzava nell’assurda presunzione di avvicinarsi all’inavvicinabile Verga.
Eppure
Camilleri continuava ad imperversare nelle classifiche e questo poteva destare
meraviglia solo in chi non sa come funziona il mercato editoriale. In questo
mercato i padroni del vapore sono sempre i soliti noti e, se vuoi avere
successo, è necessario, ma non sufficiente, che tu scriva qualcosa di decente,
ma è molto più importante che tu parli in un certo modo e dica certe cose.
E
Camilleri in questo fu insuperabile. Si scoprì militante antifascista quando il
fascismo non c’era più; fu prima antiberlusconiano e poi, giustamente e
coerentemente, antisalviniano e favorevole all’immigrazione clandestina, ai
centri sociali, alle dittature, purché di sinistra. Insomma fu il condensato di
tutti gli ideali indispensabili a quella sinistra sempre in cerca di miti da
coltivare. Al suo confronto impallidiscono Mimmo Lucano e la capitana Carola
Rackete.
Camilleri
non lascerà tracce durature nella letteratura italiana e sono convinto che
prima o poi egli sarà ridimensionato. A voler esagerare lo si può considerare un bravo scrittore, ma non
più di questo. Che riposi in pace.
Ezio Scaramuzzino