martedì 15 dicembre 2020

I costi della pandemia di Max Del Papa

 


Non so se conoscete Max Del Papa. Se non lo conoscete, o se non avete mai letto un suo articolo, vi siete perso qualcuno o qualcosa nella vita. Ma si può sempre iniziare a conoscerlo. Riporto il suo ultimo articolo. Questa volta il suo atteggiamento non è indignato, come spesso gli capita, bensì dolente e quasi commosso, come di chi osserva da una specola lontana il formicolio disperato degli umani su questa terra e sa che quel formicolio è inutile e che presto nessuno resterà immune.

File chilometriche per la minestra dei poveri, lungotevere ridotto una baraccopoli, portici invasi da coperte. Questi costi sono umani, ma non c’è umanità per loro. Vuoti a perdere, costi non rimborsati, è andata così, sotto a chi tocca… Una epidemia mal curata, politicamente, socialmente, e si muore ogni giorno un po’. Gli strombazzati piani di Conte sono fuffa cotta e mangiata. Il potere è così: cava le sue di castagne, sul fuoco ci lascia i cittadini. E insistono, richiudono tutto, non sentono ragioni, non si preoccupano di niente. Questi sono i costi che sfuggono, non controllabili, non calcolabili

Quali sono i costi non controllabili di una pandemia? Sono quelli che sfuggono, che nessuno si prende la briga di calcolare: considerati inevitabili e lasciati là, alla mercé del fato. Questi costi sono umani, ma non c’è umanità per loro. Vuoti a perdere, costi non rimborsati, è andata così, sotto a chi tocca. Poi succede che un telegiornale, per una volta, si sofferma a raccontare la vita di quelli che prima del Covid bene o male tiravano avanti e poi le ultime funi si sono spezzate e si sono ritrovati sotto i ponti del Tevere, chiusi in una tenda, a sperare l’impossibile. Una e una sola volta: si spara il servizio patetico di quello salvato dagli amici, dalle raccolte su Facebook, che ha ritrovato un futuro, e finisce lì. Come se gli altri invece non restassero alla mercé del nulla. Non se ne parla più, l’informazione ha fatto il suo dovere, “voltiamo decisamente pagina”, come dice la speaker.

Ma se volti pagina, ne trovi una uguale: file chilometriche per la minestra dei poveri, lungotevere ridotto una baraccopoli, portici invasi da coperte con dentro esseri umani. Che uno non ci crede, uno pensa: ma non è possibile. E non vuole saperlo, perché quei “barboni” sono troppo vicini, sono a un passo dal destino: perché è toccato a loro e non a te? Perché non avevano una rete familiare come la tua, in grado di sopperire alla scomparsa del futuro? Ma ci sono di continuo “costi” che perdono la bussola, che non hanno più lavorato, hanno tenuto duro fino a che gli espedienti non sono bastati più. Poi, lasciarsi morire giorno dopo giorno o farla finita in un attimo, il solito biglietto di scuse per una colpa mai commessa, non fa tutta questa differenza.

Molti, non tutti, stanno nel commercio spicciolo, nella ristorazione, nelle opere di fatica, o nello spettacolo: musici, istrioni, attori un tempo di successo, una, che non vogliamo nominare per rispetto, si è appena umiliata alla sua età: quarant’anni fa era sulla bocca di tutti, straziante attrice comica, adesso è volata via da Roma, tornata a casa di sua madre e “mando provini, mi dicono le faremo sapere, ma nessuno mi fa sapere. E non so che sarà di me”. “Se poi è così difficile morire”, cantava Lucio Battisti. No, non è difficile: basta un morbo inatteso, una epidemia mal curata, politicamente, socialmente, e si muore ogni giorno un po’, pur restando vivi.

Il Lungotevere come una baraccopoli? Possibile? Sì, possibile e verissimo. Roma come la Parigi di Simenon, nei cui romanzi, nei cui Maigret non c’è mai una indagine senza i clochard: non dettaglio, non sfondo, ma carne viva e consunta del racconto, non quinta ma centro, sbandate esistenze i cui odori, le cui ruggini dicono tutto della precarietà dell’uomo. A Simenon servono per illustrare una verità troppo ingrata: che un giorno prima anche quei “barboni” avevano case riscaldate, mestieri, futuri in saldo, e poi sono rotolati sotto i ponti della Senna, allo stesso modo in cui un assassino è un uomo “normale” fino a un attimo prima: dopo, non sarà mai più come gli altri.

L’abissale sincerità di Simenon è un insegnamento quasi evangelico: non disprezzare, non condannare, perché sei troppo fragile di fronte al mare della vita, ogni momento un’ondata può spazzarti via. E adesso Roma è un romanzo di Maigret. Vai per il Lungotevere e trovi questa allucinante trama di stracci, di tende rotte, di carabattole di chi ha finito i giorni. E si allungherà, perché lo sappiamo, perché la verità è che nessuno sa bene cosa fare – gli strombazzati “piani di resistenza e resilienza” di Conte sono la quintessenza della fuffa cotta e mangiata – e i soldi non ci sono. È difficile sfiorare un barbone. Uno teme sempre che la sua fine sia contagiosa quanto e più del Covid; ma si sta facendo inevitabile. E “barboni” sono in tanti: quello che ha perduto il lavoro, quello che sta seduto al tavolino della trattoria, unico cliente di se stesso, quello che guarda fuori dalla vetrina e vede solo fantasmi, quello che aspetta un provino, un colpo di telefono o semplicemente un colpo che se lo porti via. Magari il giorno di Natale, questo Natale che non ci sarà, perché qualcuno ha voluto così. Ma la solitudine, quando si sta al limite, è più letale del virus, è una sirena irresistibile. Neppure la sventura è democratica, si accanisce sempre sui deboli, quelli col destino a pieno carico che, se ci si posa sopra un corvo, tutto schianta.

Noi siamo un Paese di statalisti molto sedicenti liberali, pretendiamo sempre sia un potere istituzionale a cavarci le castagne dal fuoco. Ma il potere cava le sue di castagne, sul fuoco ci lascia i cittadini, percepiti come numeri. Roma, Milano, Como, Palermo come la Parigi di Simenon: ma insistono, richiudono tutto, non sentono ragioni, non si preoccupano di niente. Questi sono i costi che sfuggono, non controllabili, non calcolabili. Sono “loro”, e noi siamo a un passo da quelle tende.

Max Del Papa