Negli
anni, purtroppo ormai lontani, del mio insegnamento al Donegani di Crotone, non
sono mancati, pur nelle pieghe di un lavoro a volte poco gratificante, momenti
di rilassamento e di abbandono al piacere quotidiano del vivere: momenti che
ancora oggi ricordo quasi con rimpianto, come trasgressioni tutto sommato
esilaranti del mio rapporto affettuoso con i tanti alunni che si sono imbattuti
in me nel corso del loro faticoso apprendimento.
Eravamo nell’anno di grazia 1995, in una
quarta A Chimici, nel corso del secondo quadrimestre. Ero allora alquanto indulgente nei confronti
degli alunni, avendo superato, già da parecchio tempo, quella mia ingenua
convinzione dei primi anni di insegnamento, quando ritenevo che, pur nel mio
piccolo, potevo validamente contribuire al miglioramento della scuola italiana,
mentre ormai la scuola era già orgogliosamente avviata lungo quella china che
di lì a pochi anni l’avrebbe condotta all’attuale sfacelo.
Il mio lento adeguamento alle nuove
condizioni della scuola non mi aveva però ancora portato alla completa
rassegnazione, sicché, pur di fronte all’evidente impreparazione degli alunni,
non mi rassegnavo del tutto e mi scervellavo a trovare uno stratagemma,
qualcosa, fosse pure uno shock, che li inducesse a cambiare rotta ed a
raggiungere una preparazione meno sconfortante.
Ogni tanto, anzi abbastanza spesso, mi
rivolgevo agli alunni con il pistolotto di rito
e mi trovavo a dire le eterne parole che tutti i professori rivolgono in
simili circostanze:
-Cari
ragazzi, mi raccomando, studiate di più… blablabla… trovarvi bene nella vita… lo
studio è indispensabile… blablabla… colloquio di lavoro… come farete?...
Inutile dire che queste parole in genere non
sortivano nessun effetto, anche perché, diciamolo pure chiaramente, a parte
poche eccezioni, la stragrande maggioranza degli alunni, non è che non avesse
voglia di studiare, magari studiava pure, ma era condizionata da tante e così
gravi lacune di base per cui spesso essi erano proprio incapaci di mettere
insieme e scrivere quattro parole di senso compiuto.
Altre volte, un po’ per giustificare psicologicamente
me stesso, un po’ per non indurli allo sconforto, mi rivolgevo a loro in questi
termini:
-Cari
ragazzi, avrete notato che da un po’ di tempo i vostri voti sono molto bassi.
Vi prego, non prendetevela con me o con una mia presunta severità. Il fatto è
che io non posso abbassare più di tanto l’asticella del rendimento, perché,
qualunque sia questo livello, voi subito vi adeguate e vi limitate a
vivacchiare rendendo la metà. Per cui debbo pretendere 10 per ottenere 5 e, se
pretendessi 6, voi vi adagereste e vi adeguereste al 3.
Ma anche queste parole, il più delle volte,
ottenevano scarsi risultati. Non sapevo proprio che fare ed ero veramente
sconfortato, anche perché il sacro furore dei miei primi anni di insegnamento
riusciva in parte a sopravvivere in me, impedendomi di diventare un automa che
si accontentava soltanto di guadagnarsi
onestamente uno stipendio.
Un giorno mi sentii più sconfortato del
solito. Ero entrato in classe e, dopo gli adempimenti preliminari dell’appello e delle trascrizioni sul registro, avevo
inutilmente cercato qualche volontario disponibile a farsi interrogare. Non si
sentiva una mosca volare in classe, come del resto riuscivo ad ottenere con
grande facilità. Poi avevo fatto qualche nome e mi ero limitato a segnare sul
registro una i (impreparato) a fianco dei
malcapitati di turno. Ero pienamente consapevole del fatto che questo
rito era del tutto inutile, come era inutile il registro, come forse erano
inutili anche le mie lezioni su Petrarca e Leopardi. D’altra parte non volevo
rassegnarmi ed ero pienamente convinto del fatto che la scuola non serve senza
le verifiche e che, come dice Dante, “ non fa scienza sanza lo ritenere avere
inteso”, cioè senza tenere a mente quello che si impara.
Ebbi un’idea.
Il giorno dopo arrivo a scuola con un certo
anticipo e passo dal laboratorio di Chimica Organica. Vi trovo Masino Mazza,
scomparso di recente e cui va il mio affettuoso ricordo. Mi fa, gentile come
sempre,:
-Che
fai da queste parti?
-Proprio
te cercavo…
-Azz…
ed in che cosa ti posso essere utile?
-Mi
dovresti fare un favore…
-Dimmi…
-Mi
è capitato di vedere in questo laboratorio alcuni termometri abbastanza grandi.
Penso servano a misurare la temperatura di alcune reazioni chimiche. Bene. Me
ne dovresti prestare uno. Te lo riporto alla fine della prossima ora di
lezione.
-Questo
è tutto? Ma levami una curiosità: a che ti serve?
-Te
lo dico dopo.
-Ah…
come vuoi.
-Mi
dovresti fare il favore di avvolgerlo bene in un involucro, in modo che non si
veda subito che cosa è.
-Certo…
lo metto nella sua custodia… ci va
perfettamente…
-Ti
ringrazio, Masi’,…a dopo.
Masino mi prende il termometro, un grande
termometro, pienamente adatto allo scopo e lo ripone nella sua custodia. Con
fatica riesco ad infilarlo nella mia borsa solo togliendo un paio di libri. Vado
nella sala docenti dove mi fermo a parlare con alcuni colleghi. Al suono della
campanella mi avvio verso l’aula della IVA Chimici, quasi al centro del
corridoio.
Entro nell’aula, chiacchiericcio sommesso,
scrivo sul registro di classe e sul registro personale, annoto quel che c’è da
annotare, poi mi rivolgo agli alunni:
-C’è
qualcuno che vuole essere interrogato?
Silenzio
di tomba, forse lo stesso silenzio che avvolgeva l’universo prima della
creazione. Attendo un pochino, un paio di minuti, nei quali il silenzio sembra
ancora più pesante ed impenetrabile. Una macchina da presa, che si trovasse a
riprendere la scena, scorrerebbe su volti stupiti, altri semiaddormentati,
altri rassegnati all’inevitabile.
Riprendo il discorso:
-Ah…
quindi non c’è nessuno disponibile. Vabbè…c’è di peggio nella vita.
Prendo
in mano la borsa appoggiata di lato sulla cattedra. Lentamente sfilo
l’involucro, poi lo apro, tolgo il grande termometro e lo depongo davanti a me,
con l’atteggiamento ieratico di un sacerdote che sta celebrando messa. Sempre
silenzio di tomba. Alcuni spostano la testa di lato o la sollevano e si
sistemano meglio nel banco per poter vedere e capire di che si tratta.
Incomincio:
-Cari
ragazzi, vedo che anche oggi, come ieri e come l’altro ieri, non siete
preparati e quindi nessuno è disposto a venire all’interrogazione. D’altra
parte capite bene che io ho assoluto bisogno di una valutazione numerica,
perché siamo già verso la fine del secondo quadrimestre e prossimamente ci
saranno gli scrutini finali. Ed io agli scrutini che faccio? Mi presento con
una sfilza di i e dico che siete
tutti impreparati? Sapete che significa quella i? Significa preparazione nulla,
inesistente, e quindi in queste condizioni dovrei rimandarvi tutti a settembre
e magari bocciarvi a seconda di come andate nelle altre materie. Ma non voglio
essere così cattivo e voglio salvare la maggior parte di voi. Lo so…Ve lo state
chiedendo… Come faccio a salvarvi? E questo è il punto, questo è il momento in
cui entra in gioco questo oggetto che io ho deposto sulla cattedra e che
certamente voi conoscete, perché viene usato nei laboratori. Magari vi state
chiedendo: “E che c’entra questo termometro con la nostra valutazione?” Ed io
vi rispondo: “C’entra, c’entra”. Voi sapete che questo termometro serve a
misurare la temperatura in alcune reazioni chimiche. Orbene, mi sono detto,
temperatura per temperatura, perché non utilizzarlo per misurare un’altra
temperatura non meno importante? Voi sapete che di un alunno che non studia e
non si impegna, spesso, nel linguaggio comune, si dice che si limita a
riscaldare il banco. E qui sta il punto. Io mi impegno a premiare quelli tra
voi che almeno il banco lo riscaldano bene.
Commenti sottovoce, incredulità, sorpresa
mista a meraviglia, speranza per qualcuno di potercela comunque fare, anche se
la faccenda è ancora nebulosa e poco chiara. Faccio una pausa. Mi accorgo che
la tensione e lo stupore aumentano. Poi riprendo:
-Qualcuno
si chiederà: “Ma come fa il prof a verificare questo?” E qui entra in gioco il
termometro. Il termometro serve, perché, oltre a misurare la temperatura delle
reazioni chimiche, può misurare anche la temperatura dei banchi, magari con
qualche approssimazione, ma pur sempre in modo significativo e tale comunque da
consentirmi di valutare il vostro comportamento a scuola.
Noto alcune perplessità , ben visibili
soprattutto sul volto delle alunne, che fanno fatica ad accettare il sistema di
misurazione di questa benedetta temperatura a metà strada tra il loro didietro
ed il banco sottostante.
Continuo:
-Ovviamente
ci si deve organizzare bene e procedere con diligenza. Io personalmente
provvederò alla misurazione di cui sopra, con l’ausilio di un segretario scelto
tra di voi, che avrà il compito di trascrivere con immediatezza il risultato
della misurazione su apposito registro da me controfirmato. Intanto vi obbligo,
onde evitare imbrogli e raggiri, al rispetto di alcuni comportamenti, come di
seguito indicati. (Ed intanto noto con piacere che il linguaggio paludato e
vagamente allusivo a criteri burocratici
ed amministrativi ha l’effetto di
dissipare le perplessità di alcuni che
appaiono un po’ esitanti ed incerti.)
1- Al
mio segnale tutti vi dovete sedere e rimanere seduti per quattro minuti.
2-
In questi quattro minuti è vietato muoversi
e/o sfregare con il didietro il banco sottostante. (Nessuno, come pensavo, ha
da ridire sul fatto che il legno è cattivo conduttore di calore e che pertanto
la variazione di calore in relazione al calore umano è del tutto trascurabile,
per non dire inutile ed insignificante).
3-
Quando mi avvicino, l’alunno si alza
prontamente e resta in piedi accanto al suo banco.
4-
Io procedo immediatamente alla misurazione
della temperatura del banco nell’arco di
dieci secondi, per evitarne il raffreddamento, e comunico il risultato.
5-
Con altrettanta celerità il segretario annota
il risultato sull’apposito registro.
6-
Una volta esaurita la misurazione di
temperatura dei banchi, si procede a stilare apposita classifica.
7- Considerato
che la temperatura media di noi umani si aggira intorno ai 36,5 gradi
centigradi, che i voti di valutazione scolastica sono espressi in decimi e che
la sufficienza corrisponde a 6/10, l’esame si intende superato, nel senso che
il banco può considerarsi ben riscaldato, se la temperatura risulta non
inferiore ai 37 gradi centigradi, con valutazioni progressivamente superiori
nel caso di risultati superiori.
Detto
questo, con fare solenne e ieratico, afferro il termometrone e do inizio alla
procedura di misurazione della temperatura dei banchi. Nessun alunno si sottrae
alla misurazione. Quando arriva il suo turno, ognuno si alza rispettosamente e
si sposta; io poggio il termometro sul banco e
leggo una finta temperatura;
infine ognuno si risiede al suo posto, sempre con rispetto e compunzione. Il
segretario trascrive il risultato ed io passo alla misurazione successiva.
Tutto si svolge nella massima serietà, mentre io, ovviamente, baro in maniera sfacciata,
anche se nessuno se ne accorge. I risultati, mentre faccio finta di leggere con
attenzione, sono di pura fantasia e sono da me idealmente collegati ai
rispettivi alunni, dei quali già conosco la preparazione ed il presumibile
risultato finale. Alla fine della sfilata io e l’alunno-segretario ritorniamo
verso la cattedra in maniera seria e paludata e teniamo stretti tra le mani i
nostri strumenti di lavoro. Chissà perché mi vengono in mente il parroco ed il
sagrestano che sfilano lungo le strade del paese, sotto il baldacchino, mentre
il primo solleva tra le mani il Santissimo nella festività del Corpus Domini.
Alla
fine della cerimonia, leggo i risultati e così concludo:
-Miei cari ragazzi, noto
con rammarico che, anche nel riscaldamento del banco, alcuni di voi lasciano a
desiderare, ma sento di poter dire che coloro che hanno una valutazione di
riscaldamento uguale o superiore a 37 gradi centigradi, possono legittimamente
aspirare alla promozione. Vi ringrazio per la collaborazione e vi saluto. A
domani.
Ovviamente la cosa non finì lì. Il fatto
divenne subito di pubblico dominio, almeno nella scuola, e se ne parlò per
molti giorni. Ci fu anche qualche collega che mi chiese delucidazioni ed
approfondimenti, perché ne aveva sentito parlare, ma non aveva un quadro
convincente dell’accaduto e manifestava delle perplessità. Mi limitai, come con
tutti, a rispondere in maniera vaga e talvolta volutamente ambigua.
Ma ricordo ancora più distintamente quanto
mi capitò con il collega Giovanni Pizzimenti. Mi venne incontro il giorno
successivo con una certa sollecitudine e mi disse:
-Ho saputo tutto. Ma cosa
hai fatto? Ma sei impazzito?
-Perché, Giova’, che ho
fatto di tanto grave? Che è successo?
-Ma ci pensi che, se viene
a saperlo qualche genitore, può venire qui a farti un casino?
Non nascondo che queste parole mi fecero
preoccupare un pochino, ma non più di tanto. La scuola, proprio in quegli anni,
stava cambiando, molto cambiando e, già allora, qua e là scoppiavano casi
clamorosi, seppure ancora isolati, di genitori che protestavano per molto meno.
Ma mi sentivo tranquillo. Quel che avevo
fatto in fondo lo avevo fatto a fin di bene e i primi a sorriderne sarebbero
stati proprio i miei alunni.
Come ne sorrido io adesso, a distanza di
tanti anni, ora che i ricordi della mia vita trascorsa sono molto più numerosi
delle mie speranze. Ho ancora un vivo ricordo di quei fatti e soprattutto di
quel fatto, come di un episodio in fondo tenero e affettuoso di anni
indimenticabili e come della parte irripetibile di un rapporto affascinante che
mi ha legato ai miei alunni nel corso della mia vita nel mondo della scuola.
Ezio Scaramuzzino
Geniale😊💤
RispondiEliminaScusa il segno del sonno sfuggito nella risata 😂
RispondiEliminaHo un ricordo indelebile di questo fatto.
RispondiEliminaLa ricostruzione è fedele, e combacia perfettamente con quanto
realmente è accaduto.
Credo che il carisma e sopratutto
Il rapporto umano che pochi docenti
sono in grado di stabilire con gli alunni scongiuro quanto da me preventivato.
Gli alunni consci dei loro difetti
interpretarono il fatto in modo
giusto e cioè come un pesante ma
affettuoso e paterno rimprovero.