Alfredo Giglio è uno scrittore crotonese, capostazione in pensione delle Ferrovie dello Stato. Egli ha spesso ambientato le sue trame
nel mondo dei treni ed ha spesso rivolto
la sua attenzione a figure di religiosi,
osservandoli e raccontandoli per lo più da un punto di vista umano. Quello che segue è il suo terzo racconto pubblicato nel blog, del
che lo ringrazio.
Rispetto alla prima pubblicazione aggiungo in coda un racconto, con lo stesso titolo, di Luigi Pirandello. A me piace di più il racconto di A. Giglio. Voi che ne pensate?
IL VIAGGIO
Una sera di fine
ottobre, dalla stazione ferroviaria di Crotone Rosario Barbuto partì per la Capitale con il treno delle 19,30. Salutò
i genitori e la fidanzata, che l’avevano accompagnato, e prese posto in uno
scompartimento di prima classe completamente vuoto. Sistemò la sua piccola
valigia sul portapacchi ed uscì nel corridoio della vettura, anch’esso
completamente vuoto.
Una sensazione di sconforto
si era già impossessata di lui, quando, come spuntato dal nulla, apparve un
prete, alto, distinto, dai capelli leggermente brizzolati e crespi, che ripose
la sua valigia di pelle marrone e si sedette, salutando con un laconico “salve,
…Deo gratias!”
Erano passati solo
pochi minuti, da quando il treno aveva preso a correre sui binari, e il prete
tirò fuori da una tasca interna della sua lunga veste nera, abbottonata con una
sfilza interminabile di bottoncini, un libretto, forse un breviario. Lo aprì a
caso e cominciò a leggere mentalmente.
Dopo circa un’ora,
Rosario trasse da una busta un panino imbottito con una fetta di carne e,
spostatosi nel corridoio, incominciò quasi a divorarlo, ingurgitando i bocconi con una fame da lupo. Poi rientrò nello
scompartimento, bevve un sorso d’acqua da una bottiglietta e mangiò una banana che
espandeva tutt’intorno il suo delicato profumo.
Le ore trascorrevano
lente e i due non scambiarono nemmeno
una parola: il prete era tutto immerso nel suo breviario e talvolta dava
l’impressione di inseguire pensieri lontani, annidati nel profondo della sua
mente. Rosario nel frattempo aveva tirato fuori un periodico di parole crociate
e si trastullava stancamente, cercando di completare i cruciverba lasciati a
metà il giorno prima.
Si erano fatte quasi
le undici, quando fra uno sbadiglio e
l’altro Rosario tirò dalla tasca una scatolina di caramelle alla menta e ne offrì
una al prete, seduto di fronte a lui. Questi, senza togliere gli occhi dal
libercolo, allungò la mano ed accettò la caramella con un “grazie, molto
gentile….”. Quindi la mise in bocca, dopo averla privata dell’involucro di
carta, cosa che fece con una sola mano e con una manovra talmente tortuosa, che
dal libricino scivolò per terra un’immaginetta, che egli prontamente raccolse
con fare furtivo, come volesse nascondere qualcosa di veramente prezioso.
La manovra di
recupero della cosa caduta non sfuggì al giovane, il quale ebbe modo di vedere
benissimo non trattarsi di un’icona sacra, bensì di una foto, che il prete
velocemente occultò fra le pieghe o nelle tasche di quella sua veste lunga e
misteriosa.
Verso mezzanotte,
mentre il treno filava veloce verso la sua meta lontana in una altalenante
musica sulle rotaie, i due decisero, quasi contemporaneamente, di stendersi sui
posti vuoti dello scompartimento, per schiacciare un sonnellino.
Verso le quattro del
mattino, Rosario si accorse che aveva bisogno di andare al bagno. Si alzò senza
far rumore e aprì dolcemente la porta
dello scompartimento, lasciando il prete addormentato beatamente fra gli
angeli. Rientrò dopo una decina di minuti, perché si era fermato nel corridoio a
spiare attraverso i vetri dei finestrini il paesaggio notturno, che si
stagliava fuori sotto una tenue luce lunare e sembrava scorrere davanti ai suoi
occhi curiosi come nella scena di un film western.
Il prete sembrava
dormire beato: la sua valigia di pelle marrone, col talloncino del nome di
colore rosso cardinale, era al suo posto, sopra il portapacchi. Rosario, prima
di sdraiarsi nuovamente, mise in bocca un’altra caramella e poi rifletté un attimo sul destino dei
preti: sempre immersi nella preghiera, senza mai l’amore di una donna, senza la
gioia dei figli, di una famiglia... Che destino crudele!, pensò. Poi si
sdraiò per cercare di riprendere sonno: l’arrivo nella Capitale era previsto
per le sette del mattino. Mancavano
ancora circa tre ore.
Dedicò le sue ultime riflessioni notturne alla
fidanzata che aveva lasciato in Calabria: una bella ragazza che egli amava appassionatamente
e che in quei momenti silenziosi della notte alimentava le sue fantasie. Poi,
dopo quasi mezz’ora, si addormentò. Verso le sei si svegliò e, accortosi che il
prete si stava rigirando su se stesso, come fosse sul punto di svegliarsi anche
lui, rimase nel dormiveglia, ma cosciente e con un occhio aperto.
Dopo qualche minuto
infatti il religioso guardò l’orologio che portava al
polso e subito si alzò: si stiracchiò un pochino, accennò uno sbadiglio subito contenuto e prese la sua
valigia dal portapacchi, col cappello nero a larghe tese che era poggiato sulla
valigia. Rosario decise di tenere gli
occhi chiusi, come se dormisse.
Il prete uscì e
chiuse con garbo la porta, per non far rumore. Rosario guardò l’orologio e vide
che erano le sei e dieci. Rimasto solo, si alzò anche lui, poi si diede una
sistemata e riprese le sue parole crociate. Verso le sei e mezza decise di
andare in bagno a darsi una rinfrescatina al viso, prima di scendere a Roma
Termini, e prese un asciugamano dalla valigia. Passò nel corridoio un venditore di caffè e Rosario pensò bene di prenderne uno,
che sorbì con sommo piacere. Poi si avviò verso il bagno, constatando distrattamente
che la vettura era quasi vuota.
Ritornò al suo
posto, dopo essersi lavato e pettinato e riguardò il suo orologio: erano le sei
e cinquanta. Era giunto il momento di avvicinarsi alla porta d’uscita, perché
il paesaggio indicava che la stazione era vicina.
Prese le sue cose e
si avviò verso la porta anteriore rispetto al senso di marcia. Un signore alto
e distinto era già accanto alla porta, pronto a scendere per primo, come se
avesse fretta. Era in un bell’abito a doppio petto, di colore grigio e teneva
in mano la sua valigia con estrema disinvoltura. Rosario si chiese
distrattamente da dove fosse spuntato, perché in precedenza non l’aveva notato.
Dopo pochi minuti il
treno si fermò lentamente nella stazione Termini. Lo sconosciuto scese prima di
Rosario e, appena toccato il
marciapiede, si avviò sorridendo e a passo svelto verso una bella signora, molto
elegante, che l’aspettava felice: un abbraccio forte ed un bacio sulla bocca
suggellarono, fra la folla, il loro sospirato incontro.
Rosario camminava
poco distante per raggiungere, all’esterno, il posto dei taxi. Passando vicino
ai due innamorati, non poté fare a meno di guardarli e di apprezzare la loro
aria beata, ma, d’un tratto, il suo sguardo si posò sulla valigia di pelle
marrone, che l’uomo teneva per mano. Notò che il talloncino porta nome era di colore rosso cardinale, come in quella del prete
seduto di fronte a lui, ed
istintivamente prese ad osservare meglio. Notò che anche i capelli di quel
signore erano leggermente brizzolati e crespi come quelli del prete. Capì che quel prete aveva dismesso l’abito talare
ed il cappello a larghe tese e che si era concesso una vacanza felice in una Roma laica e spensierata. Sorrise
profondamente e, nel mentre si
allontanava per disperdersi tra la
folla, sussurrò appena tra le labbra:”Buona fortuna, reverendo!”.
Il viaggio (Racconto) di Luigi Pirandello
Da
tredici anni Adriana Braggi non usciva più dalla casa antica, silenziosa come
una badia, dove giovinetta era entrata sposa. Non la vedevano più nemmeno
dietro le vetrate delle finestre i pochi passanti che di tanto in tanto
salivano quell'erta via a sdrucciolo e mezza dirupata, così solitaria che
l'erba vi cresceva tra i ciottoli a cespugli.
A ventidue anni, dopo quattro appena di matrimonio, con la morte del marito era
quasi morta anche lei per il mondo. Ne aveva ora trentacinque, e vestiva ancora
di nero, come il primo giorno della disgrazia; un fazzoletto nero, di seta, le
nascondeva i bei capelli castani, non più curati, appena ravviati in due bande
e annodati alla nuca. Tuttavia, una serenità mesta e dolce le sorrideva nel
volto pallido e delicato.
Di questa clausura nessuno si meravigliava in quell'alta cittaduzza
dell'interno della Sicilia, ove i rigidi costumi per poco non imponevano alla
moglie di seguire nella tomba il marito. Dovevano le vedove starsene chiuse così
in perpetuo lutto, fino alla morte.
Del resto, le donne delle poche famiglie signorili, da fanciulle e da maritate,
non si vedevano quasi mai per via: uscivano solamente le domeniche, per andare
a messa; qualche rara volta per le visite che di tempo in tempo si scambiavano
tra loro. Sfoggiavano allora a gara ricchissimi abiti d'ultima moda, fatti
venire dalle primarie sartorie di Palermo o di Catania, e gemme e ori preziosi;
non per civetteria: andavano serie e invermigliate in volto, con gli occhi a
terra, impacciate, strette accanto al marito o al padre o al fratello maggiore.
Quello sfoggio era quasi d'obbligo; quelle visite o quei due passi fino alla
chiesa erano per loro vere e proprie spedizioni da preparare fin dal giorno
avanti. Il decoro del casato poteva scapitarne; e gli uomini se ne
impacciavano; anzi, i più puntigliosi erano loro, perché volevano dimostrare
così di sapere e potere spendere per le loro donne.
Sempre sottomesse e obbedienti, queste si paravano com'essi volevano, per non
farli sfigurare; dopo quelle brevi comparse, ritornavano tranquille alle cure
casalinghe; e, se spose, attendevano a far figliuoli, tutti quelli che Dio
mandava (era questa la loro croce); se fanciulle, aspettavano di sentirsi dire
un bel giorno dai parenti: eccoti, sposa questo; lo sposavano; quieti e paghi
gli uomini di quella supina fedeltà senza amore.
Soltanto la fede cieca in un compenso oltre la vita poteva far sopportare senza
disperazione il lento e greve squallore in cui volgevano le giornate, una dopo
l'altra tutte uguali, in quella cittaduzza montana, così silenziosa che pareva
quasi deserta, sotto l'azzurro intenso e ardente del cielo, con le straducole
anguste, male acciottolate, tra le grezze casette di pietra e calce, coi
doccioni di creta e i tubi di latta scoperti.
A inoltrarsi fin dove quelle straducole terminavano, la vista della distesa, ondeggiante delle terre arse dalle solfare, accorava. Alido il cielo, alida la
terra, da cui nel silenzio immobile, addormentato dal ronzio degli insetti, dal
fritinnìo di qualche grillo, dal canto lontano d'un gallo o dall'abbajare d'un
cane, vaporava denso nell'abbagliamento meridiano l'odore di tante erbe
appassite, dal grassume delle stalle sparso.
In tutte le case, anche nelle poche signorili, mancava l'acqua; nei vasti
cortili, come in capo alle vie, c'erano vecchie cisterne alla mercé del cielo;
ma anche d'inverno pioveva poco; quando pioveva era una festa: tutte le donne
mettevan fuori conche e buglioli, vaschette e botticine, e stavano poi su gli
usci con le vesti di baracane raccolte tra le gambe a vedere l'acqua piovana
scorrere a torrenti per i ripidi viottoli, a sentirla gorgogliare nelle
grondaie e per entro ai doccioni e ai cannoni delle cisterne. Si lavavano i
ciottoli, si lavavano i muri delle case, e tutto pareva respirasse più lieve
nella freschezza fragrante della terra bagnata.
Gli uomini, tanto o
quanto, trovavano nella varia vicenda degli affari, nella lotta dei partiti
comunali, nel Caffè o nel Casino di compagnia, la sera, da distrarsi in qualche
modo; ma le donne, in cui fin dall'infanzia s'era costretto a isterilire ogni
istinto di vanità, sposate senz'amore, dopo avere atteso come serve alle
faccende domestiche sempre le stesse, languivano miseramente con un bambino in
grembo o col rosario in mano, in attesa che l'uomo, il padrone, rincasasse.
Adriana
Braggi non aveva amato affatto il marito.
Debolissimo di complessione e in continuo orgasmo per la cagionevole salute,
quel marito l'aveva oppressa e torturata quattr'anni, geloso fin anche del
fratello maggiore, a cui sapeva d'aver fatto, sposando, un grave torto, anzi un
vero tradimento. Ancora, là, di tutti i figli maschi d'ogni famiglia ricca uno
solo, il maggiore, doveva prendere moglie, perché le sostanze del casato non
andassero sparpagliate tra molti eredi.
Cesare Braggi, il fratello maggiore, non aveva mai dato a vedere d'essersi
avuto a male di quel tradimento, forse perché il padre, morendo poco prima di
quelle nozze, aveva disposto che il capo della famiglia rimanesse lui e che il
secondogenito ammogliato gli dovesse obbedienza intera.
Entrando nella casa antica dei Braggi, Adriana aveva provato una certa
umiliazione nel sapersi così soggetta al cognato. La sua condizione era
diventata doppiamente penosa e irritante, allorché il marito stesso, nella
furia della gelosia, le aveva lasciato intendere che Cesare aveva già avuto in
animo di sposar lei. Non aveva saputo più come contenersi di fronte al cognato;
e tanto più imbarazzo era cresciuto, quanto meno il cognato aveva fatto pesare
la sua potestà su lei, accolta fin dal primo giorno con cordiale franchezza di
simpatia e trattata come una vera sorella.
Era di modi gentili, e nel parlare e nel vestire e in tutti i tratti, d'una
squisita signorilità naturale, che né il contatto della ruvida gente del paese,
né le faccende a cui attendeva, né le abitudini di rilassata pigrizia, a cui
quella vuota e misera vita di provincia induceva per tanti mesi dell'anno,
avevano potuto mai, non che arrozzire, ma neppure alterare d'un poco.
Ogni anno, del resto, per parecchi giorni, spesso anche per più d'un mese,
s'allontanava dalla cittaduzza e dagli affari. Andava a Palermo, a Napoli, a
Roma, a Firenze, a Milano, a tuffarsi nella vita, a prendere, com'egli diceva, un bagno di civiltà. Ritornava da quei viaggi ringiovanito nell'anima e nel
corpo.
Adriana, che non aveva mai dato un passo fuori del paese natale, nel vederlo
rientrare così nella vasta casa antica, ove il tempo pareva stagnasse in un
silenzio di morte, provava ogni volta un segreto turbamento indefinibile.
Il cognato recava con sé l'aria d'un mondo, che lei non riusciva nemmeno a
immaginare.
E il turbamento le cresceva, udendo le stridule risate del marito che di là
ascoltava il racconto delle saporite avventure occorse al fratello; diventava
sdegno, ribrezzo poi, la sera, allorché il marito, dopo quei racconti del
fratello, veniva a trovarla in camera, acceso, sovreccitato, smanioso. Lo
sdegno, il ribrezzo erano per il marito, e tanto più forti quanto più ella
vedeva invece il cognato pieno di rispetto, anzi di riverenza per lei.
Morto il marito, Adriana aveva provato un'angoscia piena di sgomento al
pensiero di restar sola con lui in quella casa. Aveva, sì, i due piccini che in
quei quattro anni le erano nati; ma, benché madre, non era riuscita a superare,
di fronte al cognato, la sua nativa timidezza di fanciulla. Questa timidezza,
veramente, non era stata mai in lei ritrosia; ma ora sì; e ne incolpava il
marito geloso, che l'aveva oppressa con la più sospettosa e obliqua
sorveglianza.
Cesare Braggi, con squisita premura, aveva allora invitato la madre di lei a
venirsene a stare con la figliuola vedova. E a poco a poco Adriana, liberata
dall'esosa tirannia del marito, con la compagnia della madre, aveva potuto, se
non acquistare al tutto la pace, tranquillare alquanto lo spirito. S'era
dedicata con intero abbandono alla cura dei figliuoli, prodigando loro
quell'amore e quelle tenerezze che non avevano potuto trovare uno sfogo nel
matrimonio disgraziato.
Ogni anno Cesare aveva seguitato a fare il suo viaggio d'un mese nel
Continente, recando doni al ritorno così a lei come alla nonna e ai nipotini,
per i quali aveva sempre avuto le più delicate premure paterne.
La casa, senza il presidio d'un uomo, faceva paura alle donne, segnatamente la
notte. Nei giorni ch'egli era assente, pareva ad Adriana che il silenzio,
divenuto più profondo, più cupo, tenesse come sospesa sulla casa una grande
ignota sciagura; e con infinito sbigottimento udiva stridere la carrucola
dell'antica cisterna in capo all'erta via solitaria, se un soffio di vento
veniva a scuoterne la fune. Ma poteva egli, per riguardo a due donne e a due
piccini che in fondo non gli appartenevano, privarsi di quell'unico svago dopo
un anno di lavoro e di noja? Avrebbe potuto non curarsi né tanto né poco di
loro, vivere per sé, libero, poiché il fratello gli aveva impedito di formarsi
una famiglia sua; e invece - come non riconoscerlo? - tolte quelle brevi
vacanze, era tutto dedito alla casa e ai nipotini orfani.
Col tempo, s'era addormentato ogni rammarico nel cuore di Adriana. I figliuoli
crescevano e lei godeva che crescessero con la guida di quello zio. La sua
dedizione era divenuta ormai totale cosicché si meravigliava se il cognato o i
figliuoli si opponevano a qualche cura soverchia che si dava di loro. Le pareva
di non far mai abbastanza. E a che avrebbe dovuto pensare, se non a loro?
Era stato per lei un gran dolore la morte della madre: era venuta a mancarle
l'unica compagnia. Da un pezzo parlava con lei come con una sorella; tuttavia,
con la madre accanto, lei poteva pensarsi ancora giovane, qual era in fondo.
Sparita la madre, con quei due figliuoli ormai giovinetti, uno di sedici,
l'altro di quattordici anni, già alti quasi quanto lo zio, cominciò a sentirsi
e a considerarsi vecchia.
Era
in quest'animo, allorché per la prima volta le avvenne di avvertire un vago
malessere, una stanchezza, una oppressione un po' a una spalla, un po' al
petto; un certo dolor sordo che le prendeva talvolta anche tutto il braccio
sinistro e che di tratto in tratto diventava lancinante e le toglieva il
respiro.
Non ne mosse lamento; e forse nessuno lo avrebbe mai saputo, se un giorno a
tavola ella non avesse avuto l'assalto d'uno di quei fitti spasimi improvvisi.
Fu chiamato il vecchio medico di casa, il quale fin da principio restò
costernato dal ragguaglio di quei sintomi. La costernazione crebbe dopo un
lungo e attento esame dell'inferma.
Il male era alla pleura. Ma di che natura? Il vecchio medico, con l'ajuto d'un
collega, tentò una puntura esplorativa, senza alcun esito. Poi, notando un
certo indurimento nelle glandole sopra e sottoscapolari, consigliò al Braggi di
condurre subito la cognata a Palermo, lasciando intendere chiaramente che
temeva fosse un tumore interno, forse irrimediabile.
Partire subito non fu possibile. Adriana, dopo tredici anni di clausura, era
affatto sprovvista d'abiti per comparire in pubblico e per viaggiare. Bisognò
scrivere a Palermo per provvederla con la massima sollecitudine.
Cercò d'opporsi in tutti i modi, assicurando il cognato e i figliuoli che non
si sentiva poi così male. Un viaggio? Solo a pensarci, le venivano i brividi.
Era poi giusto il tempo che Cesare soleva prendersi le sue vacanze d'un mese.
Partendo con lui, gli avrebbe tolto la libertà, ogni piacere. No, no, non
voleva a nessun patto! E poi, come, a chi avrebbe lasciato i figliuoli? a chi
affidato la casa? Metteva avanti tutte queste difficoltà; ma il cognato e i
figliuoli gliele abbattevano con una risata. Si ostinava a dire che il viaggio
le avrebbe fatto certo più male. Oh, buon Dio, se non sapeva più neppure come
fossero fatte le strade! Non avrebbe saputo muovervi un passo! Per carità, per
carità, la lasciassero in pace!
Quando da Palermo arrivarono gli abiti e i cappelli, fu per i due figliuoli un
tripudio.
Entrarono esultanti con le grosse scatole avvolte nella tela cerata, in camera
della madre, gridando, strepitando, ch'ella dovesse subito subito provarseli.
Volevano veder bella la loro mammina, come non la avevano veduta mai. E tanto
dissero, tanto fecero, che dovette arrendersi e contentarli.
Erano abiti neri, da lutto anche quelli, ma ricchissimi e lavorati con
meravigliosa maestria. Ormai ignara affatto di mode, inesperta, non sapeva da
che parte prenderli per vestirsene. Dove e come agganciare i tanti uncinetti
che trovava qua e là? Quel colletto, oh Dio, così alto? E quelle maniche, con
tanti sbuffi... Usavano adesso così?
Dietro l'uscio, intanto, tempestavano i figliuoli, impazienti:
- Mamma, fatto? Ancora?
Come se la mamma di là stesse ad abbigliarsi per una festa! Non pensavano più
alla ragione per cui quegli abiti erano arrivati; non ci pensava più,
veramente, nemmeno lei, in quel momento.
Quando, tutta confusa, accaldata, levò gli occhi e si vide nello specchio
dell'armadio, provò un'impressione violentissima, quasi di vergogna.
Quell'abito, disegnandole con procacissima eleganza i fianchi e il seno, le
dava la sveltezza e l'aria d'una fanciulla. Si sentiva già vecchia: si ritrovò
d'un tratto in quello specchio, giovane, bella; un'altra!
- Ma che! ma che! Impossibile! - gridò, storcendo il collo e levando una mano
per sottrarsi a quella vista.
I figliuoli, all'esclamazione, cominciarono a picchiare più forte all'uscio con
le mani, coi piedi, a sospingerlo, gridandole che aprisse, che si facesse
vedere.
Ma che! no! Si vergognava. Era una caricatura! No, no.
Ma quelli minacciarono di buttar l'uscio a terra. Dovette aprire.
Restarono anch'essi, i figliuoli, abbagliati dapprima da quella trasformazione
improvvisa. La mamma cercava di schermirsi, ripetendo: - Ma no, lasciatemi! ma
che! impossibile! siete matti? - quando sopravvenne il cognato. Oh, per pietà!
Tentò di scappare, di nascondersi, come se egli l'avesse sorpresa nuda. Ma i
figliuoli la tenevano; la mostrarono allo zio che rideva di quella vergogna.
- Ma se ti sta proprio bene! - disse egli, alla fine, ritornando serio. - Su,
lasciati vedere.
Si provò ad alzare il capo.
- Mi pare d'essere mascherata...
- Ma no! Perché? Ti sta invece benissimo. Voltati un poco... così, di fianco...
Obbedì, sforzandosi di parer calma; ma il seno, ben disegnato dall'abito, le si
sollevava al frequente respiro che tradiva l'interna agitazione cagionata da
quell'esame attento e tranquillo di lui, espertissimo conoscitore.
- Va proprio bene. E i cappelli?
- Certe ceste! - esclamò Adriana, quasi sgomenta.
- Eh sì, usano grandissimi.
- Come farò a mettermeli in capo? bisognerà che mi pettini in qualche altro
modo.
Cesare tornò a guardarla, calmo, sorridente; disse:
- Ma sì, hai tanti capelli...
- Sì, sì, brava mammina! Pettinati subito! - approvarono i figliuoli.
Adriana sorrise mestamente:
- Vedete che mi fate fare? - disse, rivolgendosi anche al cognato.
La partenza fu stabilita per la mattina appresso.
Sola
con lui!
Lo seguiva in uno di quei viaggi, a cui un tempo pensava con tanto turbamento.
E un solo timore aveva adesso: quello di apparire turbata a lui che le stava
davanti, tutto intento a lei, ma tranquillo come sempre.
Questa tranquillità di lui, naturalissima, avrebbe fatto stimare a lei indegno
il suo turbamento e tale da doverne arrossire, ove ella, con una finzione quasi
cosciente, appunto per non doverne aver vergogna e raffinarsi di se medesima,
non gli avesse dato un'altra cagione: la novità stessa del viaggio, l'assalto
di tante impressioni strane alla sua anima chiusa e schiva. E attribuiva lo
sforzo che faceva su se stessa per dominare quel turbamento (il quale tuttavia,
così interpretato, non avrebbe avuto nulla di riprovevole) alla convenienza di
non darsi a vedere tanto nuova delle cose e meravigliata, di fronte a uno che,
per esser da tanti anni esperto di tutto e padrone sempre di sé, avrebbe potuto
provarne fastidio e dispiacere. Anche ridicola, infatti, avrebbe potuto
apparire, alla sua età, per quella meraviglia quasi infantile che le ferveva
negli occhi.
Si costringeva pertanto a frenare l'ilare ansia febbrile dello sguardo e a non
voltare continuamente il capo da un finestrino all'altro, come aveva la
tentazione di fare per non perdere nulla delle tante cose, su cui i suoi occhi,
così in fuga, si posavano un attimo per la prima volta. Si costringeva a
nascondere la maraviglia, a dominare quella curiosità, che pure le avrebbe
giovato tener desta e accesa, per vincere con essa lo stordimento e la
vertigine che il rombar cadenzato delle ruote e quella fuga illusoria di siepi
e d'alberi e di colli le cagionavano.
Andava in treno per la prima volta. A ogni tratto, a ogni giro di ruota, aveva
l'impressione di penetrare, d'avanzarsi in un mondo ignoto, che d'improvviso le
si creava nello spirito con apparenze che, per quanto le fossero vicine, pur le
sembravano come lontane e le davano, insieme col piacere della loro vista,
anche un senso di pena sottilissima e indefinibile: la pena ch'esse fossero
sempre esistite oltre e fuori dell'esistenza e anche dell'immaginazione di lei;
la pena d'essere tra loro estranea e di passaggio, e ch'esse senza di lei
avrebbero seguitato a vivere per sé con le loro proprie vicende.
Ecco lì le umili case di un villaggio: tetti e finestre e porte e scale e
strade: la gente che vi dimorava era, come per tanti anni era stata lei nella
sua cittaduzza, chiusa lì in quel punto di terra, con le sue abitudini e le sue
occupazioni: oltre a quello che gli occhi arrivavano a vedere, non esisteva più
nulla per quella gente; il mondo era un sogno: tanti e tanti lì nascevano e lì
crescevano e morivano, senza aver visto nulla di quel che ora andava a veder
lei in quel suo viaggio, che era così poco a petto della grandezza del mondo, e
che tuttavia a lei sembrava già tanto.
Nel volgere gli occhi, incontrava a quando a quando lo sguardo e il sorriso del
cognato, che le domandava:
- Come ti senti?
Gli rispondeva con un cenno del capo:
- Bene.
Più d'una volta il cognato venne a sederlesi accanto per mostrarle e nominarle
un paese lontano, ov'era stato, e quel monte là dal profilo minaccioso, tutti
gli aspetti di maggior rilievo che si figurava dovessero più vivamente
richiamare l'attenzione di lei. Non intendeva che tutte le cose, anche le
minime, quelle che per lui erano le più comuni, destavano intanto in lei un
tumulto di sensazioni nuove; e che le indicazioni, le notizie ch'egli le dava,
anziché accrescere, diminuivano e raffreddavano quella fervida, fluttuante
immagine di grandezza, ch'ella, smarrita, con quel sentimento di pena
indefinibile, si creava alla vista di tanto mondo ignoto.
Nel tumulto interno delle sensazioni, inoltre, la voce di lui, anziché far
luce, le cagionava quasi un arresto bujo e violento, pieno di fremiti pungenti;
e allora quel sentimento di pena si faceva più acuto in lei, più distinto. Si
vedeva meschina nella sua ignoranza; e avvertiva un oscuro e quasi ostile
rincrescimento della vista di tutte quelle cose che ora, troppo tardi per lei,
all'improvviso, le riempivano gli occhi e le entravano nell'anima.
A Palermo, scendendo il giorno dopo dalla casa del clinico primario dopo la
lunghissima visita, comprese bene dallo sforzo che faceva il cognato per
nascondere la profonda costernazione, dalla premura affettata con cui ancora
una volta aveva voluto farsi insegnare il modo di usare la medicina prescritta
e dell'aria con cui il medico gli aveva risposto; comprese bene che questi
aveva dato su lei la sentenza di morte, e che quella mistura di veleni da
prendere a gocce con molta precauzione, due volte al giorno prima dei pasti,
non era altro che un inganno pietoso o il viatico di una lenta agonia.
Eppure, appena, ancora un po' stordita e disgustata dal diffuso odore
dell'etere nella casa del medico, uscì dall'ombra della scala sulla via,
nell'abbagliamento del sole al tramonto, sotto un cielo tutto di fiamma che
dalla parte della marina lanciava come un immenso nembo sfolgorante sul Corso
lunghissimo; e vide tra le vetture entro quel baglior d'oro il brulichio della
folla rumorosa, dai volti e dagli abiti accesi da riflessi purpurei, i guizzi
di luce, gli sprazzi colorati, quasi di pietre preziose, delle vetrine, delle
insegne, degli specchi delle botteghe; la vita, la vita, la vita soltanto si
sentì irrompere in subbuglio nell'anima per tutti i sensi commossi ed esaltati
quasi per un'ebbrezza divina; né poté avere alcuna angustia, neppure un fuggevole
pensiero per la morte prossima e inevitabile per la morte ch'era pure già
dentro di lei, appiattata là, sotto la scapola sinistra, dove più acute a
tratti sentiva le punture. No, no, la vita, la vita! E quel subbuglio interno
che le sconvolgeva lo spirito, le faceva impeto intanto alla gola, ove non
sapeva che cosa, quasi un'antica pena sommossa dal fondo del suo essere le si
era a un tratto ingorgata, ed ecco la forzava alle lagrime, pur fra tanta
gioja.
- Niente, niente... - disse al cognato, con un sorriso che le s'illuminò
vividissimo negli occhi attraverso le lagrime. - Mi par d'essere... non so...
Andiamo, andiamo...
- All'albergo?
- No... no...
- Andiamo allora a cenare allo «Châlet» a mare, al Foro Italico; ti piace?
- Sì, dove vuoi.
- Benissimo. Andiamo! Poi vedremo il passeggio al Foro; sentiremo la musica...
Montarono in vettura e andarono incontro a quel nembo sfolgorante, che
accecava.
Ah, che serata fu quella per lei, nello «Châlet» a mare, sotto la luna, alla
vista di quel Foro illuminato, corso da un continuo fragore di vetture
scintillanti, tra l'odore delle alghe che veniva dal mare, il profumo delle
zagare che veniva dai giardini! Smarrita come in un incanto sovrumano, a cui
una certa angoscia le impediva di abbandonarsi interamente, l'angoscia destata
dal dubbio che non fosse vero quanto vedeva, si sentiva lontana, lontana anche
da se stessa, senza memoria, né coscienza, né pensiero, in una infinita
lontananza di sogno.
L'impressione di questa lontananza infinita, la riebbe più intensa la mattina
seguente, percorrendo in vettura gli sterminati viali deserti del parco della
Favorita, perché, a un certo punto, con un lunghissimo sospiro poté quasi
rivenire a sé da quella lontananza e misurarla, pur senza rompere l'incanto, né
turbare l'ebbrezza di quel sogno nel sole, tra quelle piante che parevano
assorte anch'esse in un sogno senza fine.
E, senza volerlo, si voltò a guardare il cognato e gli sorrise, per
gratitudine.
Subito però quel sorriso le destò una viva e profonda tenerezza per sé condannata
a morire, ora, ora che le si schiudevano davanti agli occhi stupiti tante
bellezze maravigliose, una vita, quale anche per lei avrebbe potuto essere qual
era per tante creature che lì vivevano. E sentì che forse era stata una
crudeltà farla viaggiare.
Ma poco dopo, quando la vettura finalmente si fermò in fondo a un viale remoto,
ed ella sorretta da lui ne scese per vedere da vicino la fontana d'Ercole; lì davanti a quella fontana, sotto il cobalto del cielo così intenso che quasi
pareva nero attorno alla fulgida statua marmorea del semidio su l'alta colonna
sorgente in mezzo all'ampia conca, chinandosi a guardare l'acqua vitrea, su cui
natava qualche foglia, qualche cuora verdastra che rifletteva l'ombra sul
fondo; e poi, a ogni lieve ondulio di quell'acqua, vedendo vaporare come una
nebbiolina sul volto impassibile delle sfingi che guardano la conca, quasi
un'ombra di pensiero, si sentì anche lei passare sul volto come un alito
fresco che veniva da quell'acqua; e subito a quel soffio un gran silenzio di
stupore le allargò smisuratamente lo spirito; e, come se un lume d'altri cieli
le si accendesse improvviso in quel vuoto incommensurabile, ella sentì
d'attingere in quel punto quasi l'eternità, d'acquistare una lucida, sconfinata
coscienza di tutto, dell'infinito che si nasconde nella profondità dell'anima
misteriosa, e d'aver vissuto, e che le poteva bastare, perché era stata in un
attimo, in quell'attimo, eterna.
Propose
al cognato di ripartire quello stesso giorno. Voleva ritornarsene a casa, per
lasciarlo libero, dopo quei quattro giorni sottratti alle sue vacanze. Un altro
giorno egli avrebbe perduto per riaccompagnarla; poi poteva riprendere la via,
la sua corsa annuale per paesi più lontani, oltre quell'infinito mare turchino.
Senza timore poteva, ché di sicuro lei non sarebbe morta così presto, in quel
mese delle sue vacanze.
Non gli disse tutto questo; lo pensò soltanto; e lo pregò che fosse contento di
ricondurla al paese.
- Ma no, perché? - le rispose egli. - Ormai ci siamo; tu verrai con me a
Napoli. Consulteremo là, per maggior sicurezza, qualche altro medico.
- No, no, per carità, Cesare! Lasciami ritornare a casa. E' inutile!
- Perché? Nient'affatto. Sarà meglio. Per maggior sicurezza.
- Non basta quello che abbiamo saputo qua? Non ho nulla; mi sento bene, vedi?
Farò la cura. Basterà.
Egli la guardò serio e disse:
- Adriana, desidero così.
E
allora ella non poté più replicare: vide in sé la donna del suo paese che non
deve mai replicare a ciò che l'uomo stima giusto e conveniente; pensò che egli
volesse per sé la soddisfazione di non essersi contentato d'un solo consulto,
la soddisfazione che gli altri, là in paese, domani, alla morte di lei,
potessero dire: «Egli fece di tutto per salvarla; la portò a Palermo, anche a
Napoli...». O forse era in lui veramente la speranza che un altro medico di più
lontano, più bravo, riconoscesse curabile il male, scoprisse un rimedio per
salvarla? O forse... ma sì, questo era da credere piuttosto: sapendola
irremissibilmente perduta, egli voleva, poiché si trovava in viaggio con lei,
procurarle quell'ultimo e straordinario svago, come un tenue compenso alla
crudeltà della sorte.
Ma ella aveva orrore, ecco, orrore di tutto quel mare da attraversare. Solo a
guardarlo, con questo pensiero, si sentiva mozzare il fiato quasi avesse dovuto
attraversarlo a nuoto.
- Ma no, vedrai - la rassicurò egli, sorridendo. - Non avvertirai neppure
d'esserci, di questa stagione. Vedi com'è tranquillo? E poi vedrai il
piroscafo... Non sentirai nulla.
Poteva ella confessargli l'oscuro presentimento che la angosciava alla vista di
quel mare, che cioè, se fosse partita, se si fosse staccata dalle sponde
dell'isola che già le parevano tanto lontane dal suo paesello e così nuove; in
cui già tanta agitazione, e così strana, aveva provato; se con lui si fosse
avventurata ancor più lontano, con lui sperduta nella tremenda, misteriosa
lontananza di quel mare, non sarebbe più ritornata alla sua casa, non avrebbe
più rivalicato quelle acque, se non forse morta? No, neanche a se stessa poteva
confessarlo questo presentimento; e credeva anche lei a quell'orrore del mare,
per il solo fatto che prima non lo aveva mai neppur veduto da lontano; e,
doverci ora andar sopra...
S'imbarcarono quella sera stessa per Napoli.
Di nuovo, appena il piroscafo si mosse dalla rada e uscì dal porto, passato lo
stordimento per il trambusto e il rimescolio di tanta gente che saliva e
scendeva per il pontile, vociando, e lo stridore delle grue su le stive;
vedendo a grado a grado allontanarsi e rimpiccolirsi ogni cosa, la gente su lo
scalo, che seguitava ad agitare in saluto i fazzoletti, la rada, le case,
finché tutta la città non si confuse in una striscia bianca, vaporosa, qua e là
trapunta da pallidi lumi sotto la chiostra ampia dei monti grigi rossigni; di
nuovo si sentì smarrire nel sogno, in un altro sogno maraviglioso, che le
faceva però sgranare gli occhi di sgomento, quanto più, su quel piroscafo, pur
grande, sì, ma forse fragile se vibrava tutto così ai cupi tonfi cadenzati
delle eliche, entrava nelle due immensità sterminate del mare e del cielo.
Egli sorrise di quello sgomento e, invitandola ad alzarsi e passandole con una
intimità che finora non s'era mai permessa un braccio sotto il braccio, per
sorreggerla, la condusse a vedere di là, su la coperta stessa, i lucidi
possenti stantuffi d'acciaio che movevano quelle eliche. Ma ella, già turbata
di quel contatto insolito, non poté resistere a quella vista e più al fiato
caldo, al tanfo crasso che vaporavano di là, e fu per mancare e reclinò e quasi
appoggiò il capo su la spalla di lui. Si contenne subito, quasi atterrita di
quella voglia istintiva d'abbandono a cui stava per cedere.
E di nuovo egli, con maggior premura, le chiese:
- Ti senti male?
Col capo, non trovando la voce, gli rispose di no. E andarono tutti e due, così
a braccio, verso la poppa, a guardar la lunga scia fervida, fosforescente sul
mare già divenuto nero sotto il cielo polverato di stelle, in cui il tubo
enorme della ciminiera esalava con continuo sbocco il fumo denso e lento, quasi
arroventato dal calore della macchina. Finché, a compir l'incanto, non sorse
dal mare la luna; dapprima tra i vapori dell'orizzonte come una lugubre
maschera di fuoco che spuntasse minacciosa a spiare in un silenzio spaventevole
quei suoi dominii d'acqua; poi a mano a mano schiarendosi, restringendosi
precisa nel suo niveo fulgore che allargò il mare in un argenteo palpito senza
fine. E allora più che mai Adriana sentì crescersi dentro l'angoscia e lo
sgomento di quella delizia che la rapiva e la traeva irresistibilmente a
nascondere, esausta, la faccia sul petto di lui.
Fu
a Napoli, in un attimo, nell'uscire da un caffè-concerto, ove avevano cenato e
passato la sera. Solito egli, nei suoi viaggi annuali, a uscire di notte da
quei ritrovi con una donna sotto il braccio, nel porgerlo ora a lei, colse
all'improvviso sotto il gran cappello nero piumato il guizzo d'uno sguardo
acceso, e subito, quasi senza volerlo, diede col braccio al braccio di lei una
stretta rapida e forte contro il suo petto. Fu tutto. L'incendio divampò.
Là, al bujo, nella vettura che li riconduceva all'albergo, allacciati, con la
bocca su la bocca insaziabilmente, si dissero tutto, in pochi momenti, tutto
quello che egli or ora, in un attimo, in un lampo, al guizzo di quello sguardo
aveva indovinato: tutta la vita di lei in tanti anni di silenzio e di martirio.
Ella gli disse come sempre, sempre, senza volerlo, senza saperlo, lo avesse
amato; e lui quanto da giovinetta la aveva desiderata, nel sogno di farla sua,
così, sua! sua!
Fu un delirio, una frenesia, a cui diedero una violenta lena instancabile la
brama di ricompensarsi in quei pochi giorni sotto la condanna mortale di lei,
di tutti quegli anni perduti, di soffocato ardore e di nascosta febbre; il
bisogno d'accecarsi, di perdersi, di non vedersi quali finora l'uno per l'altra
erano stati per tanti anni, nelle composte apparenze oneste, laggiù, nella
cittaduzza dai rigidi costumi, per cui quel loro amore, le loro nozze domani
sarebbero apparse come un inaudito sacrilegio.
Che nozze? No! Perché lo avrebbe costretto a quell'atto quasi sacrilego per tutti? perché lo avrebbe legato a sé che aveva ormai tanto poco da vivere? No,
no: l'amore, quell'amore frenetico e travolgente, in quel viaggio di pochi
giorni; viaggio d'amore, senza ritorno; viaggio d'amore verso la morte.
Non poteva più ritornare laggiù, davanti ai figliuoli. Lo aveva ben presentito,
partendo; lo sapeva che, passando il mare, sarebbe finita per lei. E ora, via,
via, voleva andar via, più sé, più lontano, così in braccio a lui, cieca, fino
alla morte.
E così passarono per Roma, poi per Firenze, poi per Milano, quasi senza veder
nulla. La morte, annidata in lei, con le sue trafitture, li fustigava, e
fomentava l'ardore.
- Niente! - diceva a ogni assalto, a ogni morso. - Niente...
E porgeva la bocca, col pallore della morte sul volto.
- Adriana, tu soffri...
- No, niente! Che m'importa?
L'ultimo giorno, a Milano, poco prima di partire per Venezia, si vide nello
specchio, disfatta. E quando, dopo il viaggio notturno, le si aprì nel silenzio
dell'alba la visione di sogno, superba e malinconica, della città emergente
dalle acque, comprese che era giunta al suo destino; che lì il suo viaggio
doveva aver fine.
Volle tuttavia avere il suo giorno di Venezia. Fino alla sera, fino alla notte,
per i canali silenziosi, in gondola. E tutta la notte rimase sveglia, con una
strana impressione di quel giorno: un giorno di velluto.
Il velluto della gondola? il velluto dell'ombra di certi canali? Chi sa! Il
velluto della bara.
Com'egli, la mattina seguente, scese dall'albergo per andare a impostare alcune
lettere per la Sicilia, ella entrò nella camera di lui: scorse sul tavolino una
busta lacerata; riconobbe i caratteri del maggiore dei suoi figliuoli: si portò
quella busta alle labbra e la baciò disperatamente; poi entrò nella sua camera;
trasse dalla borsa di cuojo la boccetta con la mistura dei veleni intatta, si
buttò sul letto disfatto e la bevve d'un sorso.