martedì 9 ottobre 2012

Io e la montagna(Racconto) di Ezio Scaramuzzino



Sono nato e ho vissuto i primi trent' anni della mia vita in un paese di collina, dal quale era possibile scorgere in lontananza il mare Ionio e sul lato opposto, ancora più in lontananza, i monti della Sila. Quelle colline, dove  mi divertivo a fare lunghe corse con i miei compagni di gioco e  spesso  a rincorrere lucertole e talvolta a piazzare trappole per uccelli, erano per lo più scabre, tranne che per qualche uliveto che qua e là punteggiava il paesaggio. Da bambino pensavo che tutto il mondo fosse simile al mio mondo  e quindi ero convinto che i paesaggi di tutti i paesi, di tutti i luoghi abitati del mondo, presentassero colline scabre e macchie di uliveti.
Quando all’età di sei anni circa vidi da vicino la  Sila, ospite di una mia zia che colà villeggiava, rimasi incantato soprattutto dalle infinite distese dei pini. Già durante il viaggio  in macchina avevo osservato incredulo quegli alberi che non finivano di scorrere davanti ai miei occhi ed avevo chiesto a mia madre perché il Signore avesse fatto crescere lì tutti quegli alberi e non ne avesse piantati anche sulle nostre colline. Poi mi destò qualche perplessità il fatto che quei grandi alberi non producessero un frutto sostanzioso, a parte quei pinoli poco appariscenti  e difficili da sbucciare, il che me li faceva apparire belli e maestosi, ma tutto sommato inutili. Nella civiltà contadina e patriarcale le piante e la terra dovevano servire soprattutto a produrre frutti ed a sfamare la gente, non  a produrre foglie e fiori, che erano  belli, ma  non riempivano la pancia. Vissi quella vacanza in Sila come un sogno  ad occhi aperti, che mi consentì di conoscere da presso quegli alberi maestosi, sotto i quali mi trovai a correre e a giocare insieme con le mie cuginette.
In seguito e per molti anni ancora, durante tutta la mia fanciullezza, le mie escursioni in Sila si ridussero al giorno della Pasquetta. Sembrava quasi un rito allora. Intere famiglie, che spesso si allargavano a tutto il parentado,  alle prime luci dell’alba partivano con le auto piene della immancabile pasta al forno e di altre cibarie. La montagna, che per il resto dell’anno  sembrava essersi addormentata, quel giorno si svegliava in un rumore assordante di auto e di voci, che creavano un clima di festa invitante e contagioso. Si girava in lungo e in largo e poi, verso l’una, si sceglieva   il posto per il pranzo. Che doveva essere rigorosamente nei pressi di un ruscello, sotto un pino secolare e possibilmente con lo sfondo di un lago.
Le donne stendevano  le tovaglie, apparecchiavano, tutti si sdraiavano rigorosamente sull’erba e si dava inizio al pranzo. Il vino scorreva a fiumi e per tutti gli uomini e i ragazzi era un punto d’onore essere o apparire, se non proprio ubriachi, almeno brilli. A una certa ora saltava fuori una chitarra o una fisarmonica, si cantava e si facevano quattro salti. Verso l’ora del tramonto ci si preparava al ritorno e soprattutto si coglieva un rametto di pino da sistemare sul cofano: al paese il rametto sarebbe stato il segno distintivo dei “Silaioti”, di quelli cioè che erano andati in Sila per la Pasquetta.
Le vicende della vita mi indussero poi a lasciare il mio paese e a stabilirmi a Crotone, in una città di mare, anzi in una casa proprio di fronte al mare. Ma quei monti, quei pini, quei paesaggi, che spesso d’inverno apparivano imbiancati di neve, mi erano rimasti nel cuore. Con i primi soldi guadagnati, pensai a comprare anche io, come tanti, una casetta in montagna.
La Sila non era più quella della mia fanciullezza: discutibili villaggi turistici e improbabili condominî nelle più importanti località avevano favorito un turismo di massa, che riversava sulle montagne frotte di villeggianti. Anche io nei weekend portavo la mia famiglia in montagna: speravo che nascesse un amore per  quei luoghi. Ma l’innamoramento fu lento e contrastato fino ad interrompersi del tutto quando le mie figlie, ormai adolescenti, mi dissero chiaramente che in montagna non volevano più andarci. Avevo sperato che imparassero a sciare, ma erano rimaste ai primi rudimenti dello sci, facendo comunque meglio di me, che non ero mai andato al di là di un copertone con cui qualche volta mi lasciavo andare lungo brevi e facili tornanti. Negli ultimi tempi, pur di andare in montagna, di tanto in tanto mi ero anche risolto ad andarci da solo,  con qualche  pericolo, specie in inverno, quando le strade erano ricoperte dalla neve  o dal ghiaccio, invisibile e perciò tanto più insidioso.
Ho qualche ricordo non esaltante  di quegli ultimi viaggi, nonostante ricorressi ad ogni precauzione e procedessi piuttosto lentamente. Una volta per il ghiaccio  l’auto sbandò, sfondò il guardrail e rimase in bilico sul ciglio della strada all’altezza di un paio di metri dalla scarpata sottostante. Riuscii ad uscire dal portello posteriore ed avvisare tramite una rara e provvidenziale auto di passaggio un carro attrezzi che venne a tirarmi fuori.
Un’altra volta, in un autunno particolarmente ricco di funghi, ne raccolsi talmente tanti che mi feci prendere dall’entusiasmo e mi allontanai troppo. Ad un certo punto mi accorsi che non mi orientavo più. Fui preso dallo sconforto ed accelerai il passo, quasi che, correndo, potessi risolvere il problema. Mi sentii perso, anche perché  ero munito solo di una piccola bussola che non mi fu di alcun aiuto perché non funzionava bene e inoltre  il cielo era completamente ricoperto di nuvole e minacciava pioggia. Vidi, o credetti di vedere, un filo di fumo a qualche centinaio di metri di distanza. Abbandonai il paniere pieno di  funghi per  poter essere più veloce e corsi verso la mia salvezza. Trovai un pastore  che mi ospitò per la notte e la mattina dopo mi riportò alla mia  casa in Sila.
Avventure certo, che mi hanno fatto amare e qualche volta odiare la montagna. Ma sempre ne sono uscito fuori, senza troppi danni, mentre esse facevano nascere in me un sentimento di amore-odio che  mi avrebbe segnato per il resto della vita. Poi per motivi di salute non andai più in montagna e decisi di vendere quella casetta, che aveva  bisogno di continue cure. Trovai un acquirente, che mi chiese di vederla. Presi le chiavi e partii. L’acquirente rimase soddisfatto, concordammo il prezzo, il rogito e ci salutammo cordialmente.
Infine mi preparai  a chiudere la porta di casa. Con sgomento intuii che  probabilmente quella  era l’ultima volta  che chiudevo quella porta. Girai lentamente la chiave nella toppa, poi mi guardai attorno e rividi  quelle finestre, quello spiazzo, quei cespugli, di là da un ruscello, tra gli alberi. Sollevai lo sguardo e rividi quei pini giganteschi, poco distanti, che mi erano così familiari. Mi venne voglia di andare a vederli da vicino per l’ultima volta, di toccarli, di abbracciarli, come per dare ad essi l’ultimo saluto. Lentamente mi mossi e, dopo una breve salita, mi ritrovai in mezzo a loro.
Il silenzio era assoluto: non un alito di vento, o il fruscio di una foglia, o il tramestio improvviso  di un uccello o  di un qualunque altro animale. Mi venne da pensare che in quel luogo e in quel momento si avvertiva l’atmosfera arcana e religiosa che aveva avvolto la natura un attimo dopo la creazione.
Fui afferrato da un senso di vertigine  ed avvertii l’esigenza  istintiva di sdraiarmi per terra come per assaporarne  l’ultima volta gli odori e i sapori. Mi inchinai e poi mi stesi supino, con lo sguardo rivolto verso le cime dei pini. Ebbi l’impressione che essi cominciassero a muoversi lentamente, quasi con difficoltà,  e poi prendessero a girare in maniera sempre più veloce, quasi vorticosamente, intorno a me. Le pigne sembravano le loro mani, i rami  le loro braccia e sembrava volessero afferrarmi con le mani, sollevarmi in alto  e  stringermi affettuosamente tra le loro braccia. Chiusi gli occhi istintivamente, temendo di impazzire. Poi riaprii gli occhi e vidi che quegli alberi erano sempre lì, solenni, giganteschi ed immobili, come sempre.
Mi alzai e mi diressi verso  la mia auto ferma poco lontano. Misi in moto e poco prima dell’ultima svolta frenai, aprii il vetro e con un movimento sommesso della mano salutai per l’ultima volta quei luoghi.
Ezio Scaramuzzino