Sono nato e ho vissuto i primi trent' anni
della mia vita in un paese di collina, dal quale era possibile scorgere in
lontananza il mare Ionio e sul lato opposto, ancora più in lontananza, i monti
della Sila. Quelle colline, dove mi
divertivo a fare lunghe corse con i miei compagni di gioco e spesso
a rincorrere lucertole e talvolta a piazzare trappole per uccelli, erano
per lo più scabre, tranne che per qualche uliveto che qua e là punteggiava il
paesaggio. Da bambino pensavo che tutto il mondo fosse simile al mio mondo e quindi ero convinto che i paesaggi di tutti
i paesi, di tutti i luoghi abitati del mondo, presentassero colline scabre e
macchie di uliveti.
Quando all’età di sei anni circa vidi da
vicino la Sila, ospite di una mia zia
che colà villeggiava, rimasi incantato soprattutto dalle infinite distese dei
pini. Già durante il viaggio in macchina
avevo osservato incredulo quegli alberi che non finivano di scorrere davanti ai
miei occhi ed avevo chiesto a mia madre perché il Signore avesse fatto crescere
lì tutti quegli alberi e non ne avesse piantati anche sulle nostre colline. Poi
mi destò qualche perplessità il fatto che quei grandi alberi non producessero
un frutto sostanzioso, a parte quei pinoli poco appariscenti e difficili da sbucciare, il che me li faceva
apparire belli e maestosi, ma tutto sommato inutili. Nella civiltà contadina e
patriarcale le piante e la terra dovevano servire soprattutto a produrre frutti
ed a sfamare la gente, non a produrre
foglie e fiori, che erano belli, ma non riempivano la pancia. Vissi quella
vacanza in Sila come un sogno ad occhi
aperti, che mi consentì di conoscere da presso quegli alberi maestosi, sotto i
quali mi trovai a correre e a giocare insieme con le mie cuginette.
In seguito e per molti anni ancora, durante
tutta la mia fanciullezza, le mie escursioni in Sila si ridussero al giorno
della Pasquetta. Sembrava quasi un rito allora. Intere famiglie, che spesso si
allargavano a tutto il parentado, alle
prime luci dell’alba partivano con le auto piene della immancabile pasta al
forno e di altre cibarie. La montagna, che per il resto dell’anno sembrava essersi addormentata, quel giorno si
svegliava in un rumore assordante di auto e di voci, che creavano un clima di
festa invitante e contagioso. Si girava in lungo e in largo e poi, verso l’una,
si sceglieva il posto per il pranzo.
Che doveva essere rigorosamente nei pressi di un ruscello, sotto un pino
secolare e possibilmente con lo sfondo di un lago.
Le donne stendevano le tovaglie, apparecchiavano, tutti si
sdraiavano rigorosamente sull’erba e si dava inizio al pranzo. Il vino scorreva
a fiumi e per tutti gli uomini e i ragazzi era un punto d’onore essere o apparire,
se non proprio ubriachi, almeno brilli. A una certa ora saltava fuori una
chitarra o una fisarmonica, si cantava e si facevano quattro salti. Verso l’ora
del tramonto ci si preparava al ritorno e soprattutto si coglieva un rametto di
pino da sistemare sul cofano: al paese il rametto sarebbe stato il segno
distintivo dei “Silaioti”, di quelli cioè che erano andati in Sila per la
Pasquetta.
Le vicende della vita mi indussero poi a
lasciare il mio paese e a stabilirmi a Crotone, in una città di mare, anzi in
una casa proprio di fronte al mare. Ma quei monti, quei pini, quei paesaggi,
che spesso d’inverno apparivano imbiancati di neve, mi erano rimasti nel cuore.
Con i primi soldi guadagnati, pensai a comprare anche io, come tanti, una
casetta in montagna.
La Sila non era più quella della mia
fanciullezza: discutibili villaggi turistici e improbabili condominî nelle più
importanti località avevano favorito un turismo di massa, che riversava sulle
montagne frotte di villeggianti. Anche io nei weekend portavo la mia famiglia
in montagna: speravo che nascesse un amore per
quei luoghi. Ma l’innamoramento fu lento e contrastato fino ad
interrompersi del tutto quando le mie figlie, ormai adolescenti, mi dissero
chiaramente che in montagna non volevano più andarci. Avevo sperato che
imparassero a sciare, ma erano rimaste ai primi rudimenti dello sci, facendo
comunque meglio di me, che non ero mai andato al di là di un copertone con cui
qualche volta mi lasciavo andare lungo brevi e facili tornanti. Negli ultimi
tempi, pur di andare in montagna, di tanto in tanto mi ero anche risolto ad
andarci da solo, con qualche pericolo, specie in inverno, quando le strade
erano ricoperte dalla neve o dal
ghiaccio, invisibile e perciò tanto più insidioso.
Ho qualche ricordo non esaltante di quegli ultimi viaggi, nonostante ricorressi
ad ogni precauzione e procedessi piuttosto lentamente. Una volta per il
ghiaccio l’auto sbandò, sfondò il
guardrail e rimase in bilico sul ciglio della strada all’altezza di un paio di
metri dalla scarpata sottostante. Riuscii ad uscire dal portello posteriore ed
avvisare tramite una rara e provvidenziale auto di passaggio un carro attrezzi
che venne a tirarmi fuori.
Un’altra volta, in un autunno
particolarmente ricco di funghi, ne raccolsi talmente tanti che mi feci
prendere dall’entusiasmo e mi allontanai troppo. Ad un certo punto mi accorsi
che non mi orientavo più. Fui preso dallo sconforto ed accelerai il passo,
quasi che, correndo, potessi risolvere il problema. Mi sentii perso, anche
perché ero munito solo di una piccola
bussola che non mi fu di alcun aiuto perché non funzionava bene e inoltre il cielo era completamente ricoperto di nuvole
e minacciava pioggia. Vidi, o credetti di vedere, un filo di fumo a qualche
centinaio di metri di distanza. Abbandonai il paniere pieno di funghi per
poter essere più veloce e corsi verso la mia salvezza. Trovai un
pastore che mi ospitò per la notte e la
mattina dopo mi riportò alla mia casa in
Sila.
Avventure certo, che mi hanno fatto amare e
qualche volta odiare la montagna. Ma sempre ne sono uscito fuori, senza troppi
danni, mentre esse facevano nascere in me un sentimento di amore-odio che mi avrebbe segnato per il resto della vita. Poi
per motivi di salute non andai più in montagna e decisi di vendere quella casetta,
che aveva bisogno di continue cure.
Trovai un acquirente, che mi chiese di vederla. Presi le chiavi e partii.
L’acquirente rimase soddisfatto, concordammo il prezzo, il rogito e ci
salutammo cordialmente.
Infine mi preparai a chiudere la porta di casa. Con sgomento
intuii che probabilmente quella era l’ultima volta che chiudevo
quella porta. Girai lentamente la chiave nella toppa, poi mi guardai attorno e
rividi quelle finestre, quello spiazzo,
quei cespugli, di là da un ruscello, tra gli alberi. Sollevai lo sguardo e
rividi quei pini giganteschi, poco distanti, che mi erano così familiari. Mi
venne voglia di andare a vederli da vicino per l’ultima volta, di toccarli, di
abbracciarli, come per dare ad essi l’ultimo saluto. Lentamente mi mossi e,
dopo una breve salita, mi ritrovai in mezzo a loro.
Il silenzio era assoluto: non un alito di
vento, o il fruscio di una foglia, o il tramestio improvviso di un uccello o di un qualunque altro animale. Mi venne da
pensare che in quel luogo e in quel momento si avvertiva l’atmosfera arcana e
religiosa che aveva avvolto la natura un attimo dopo la creazione.
Fui afferrato da un senso di vertigine ed avvertii l’esigenza istintiva di sdraiarmi per terra come per
assaporarne l’ultima volta gli odori e i
sapori. Mi inchinai e poi mi stesi supino, con lo sguardo rivolto verso le cime
dei pini. Ebbi l’impressione che essi cominciassero a muoversi lentamente,
quasi con difficoltà, e poi prendessero
a girare in maniera sempre più veloce, quasi vorticosamente, intorno a me. Le
pigne sembravano le loro mani, i rami le
loro braccia e sembrava volessero afferrarmi con le mani, sollevarmi in
alto e
stringermi affettuosamente tra le loro braccia. Chiusi gli occhi
istintivamente, temendo di impazzire. Poi riaprii gli occhi e vidi che quegli
alberi erano sempre lì, solenni, giganteschi ed immobili, come sempre.
Mi alzai e mi diressi verso la mia auto ferma poco lontano. Misi in moto
e poco prima dell’ultima svolta frenai, aprii il vetro e con un movimento
sommesso della mano salutai per l’ultima volta quei luoghi.
Ezio Scaramuzzino
Ezio Scaramuzzino
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