domenica 22 maggio 2011

La valigia dei miei sogni(Racconto) di Ezio Scaramuzzino



      Chi oggi si trova ad affrontare la strada che lungo la Sila porta da Crotone a Cosenza, se volge lo sguardo sulle fiancate dei ponti che collegano i vari tratti, può vedervi scritto a caratteri giganteschi CIDONIO SPA. Quel nome non è per me senza rilievo e talora mi induce, quando mi ritrovo a guidare su quei tornanti, a riandare con la mente ad una vicenda di tanti anni fa.
Era una prima di Ottobre e, all’età di diciannove anni, alle otto del mattino, varcai il portone della Scuola Media di Scandale. Non andavo a frequentare le lezioni. Vi andavo invece ad insegnare i fondamenti della poesia e della letteratura ai ragazzi e alle ragazze del paese. Non c’erano allora molti laureati in giro ed il Preside della scuola mi aveva affidato un incarico annuale, nonostante fossi solo uno studente universitario.
Con qualche emozione affrontai le  prime ore di insegnamento della mia vita. Verso le dieci, a causa di un buco nell’orario, mi diressi verso la sala docenti, che, nel suo grigiore e nel suo abbandono, dava  l’idea di una sala d’attesa di terza classe nelle stazioni ferroviarie di una volta.
C’era lì, seduta intorno ad un tavolo, una giovane donna, che a me sembrò subito bellissima. Saluti, presentazioni ed ogni mio interrogativo venne subito chiarito. Marilù Properzio, così si chiamava, con quello strano cognome che ricordava il grande poeta latino, era una Pugliese di Taranto, anche lei universitaria e con un incarico annuale. Era già sposata, senza figli, e con il marito ingegnere, che lavorava con l’impresa Cidonio nella costruzione della nuova strada Silana-Crotonese, si era stabilita in una villetta alla periferia del paese. Poi tirò fuori un pacchetto di sigarette, me ne offrì una e, tra una boccata e l’altra, incominciò a lamentarsi della vita che, già da qualche giorno, stava conducendo al paese. Non conosceva ancora nessuno, mi disse, non parlava mai con nessuno, tranne che con qualche esercente di bottega, dove andava a fare la spesa. Finì con l’invitarmi a casa sua, “a prendere il caffè” tenne a precisare sorridendo, cosa che non mi feci ripetere due volte, anche se il mio piacere fu in parte attenuato dalla sua ultima precisazione:“ Ovviamente verrai al Sabato pomeriggio, verso le cinque, quando ci sarà pure mio marito”.
La rividi, con molto piacere, il giorno successivo a scuola e poi ancora il Sabato mattina, quando l’invito fu riconfermato. Aspettavo con ansia mista a curiosità quel pomeriggio e mi accorsi che mi capitava, più di una volta, di pensare a lei. La rivedevo mentre parlava, mentre fumava, mentre accavallava le gambe, cosa che faceva di frequente, ed ero costretto ad ammettere che sì, era proprio una bella donna e che, soprattutto, mi piaceva. Forse nel suo atteggiamento c’era qualcosa di affettato, ma l’attribuii al fatto che, a quanto lei stessa mi aveva detto, poter recitare su un palcoscenico era stato uno dei grandi sogni della sua vita e quindi, almeno per il momento, si limitava a recitare un pochino sul grande palcoscenico della vita.
Quel Sabato pomeriggio, prima di recarmi da lei, mi fermai un po’ al Bar Centrale, ove il mio amico Romano Cizza mi vide e mi disse che mi trovava un po’ teso. Certamente aveva ragione, ma io non gli rivelai nulla di quanto occupava la mia mente.
Alle ore diciassette e qualche minuto, con la mia Cinquecento, ero davanti al portone della villetta. Mi accorsi che i coniugi mi stavano aspettando, perché li intravidi dietro le tendine spostate di una finestra al piano superiore. Dopo un po’ il portone si aprì automaticamente ed io affrontai una piccola rampa di scale. Sul pianerottolo tutti e due mi accolsero con un sorriso e potei vedere per la prima volta il marito. Era un signore che dimostrava molti più anni della moglie, con i capelli lunghi alla nazarena e una barba incolta, venata di qualche filo grigio. Si chiamava Vladimiro Lenin Delgado ed era di Napoli. Una volta seduti in salotto, mi invitò subito a dargli del tu e tenne a precisare che i suoi antenati erano baroni di discendenza spagnola, trapiantati in Italia nel Settecento. Aggiunse che da un bel po’ ormai il titolo non era più usato in famiglia e che anzi suo padre gli aveva dato il nome del famoso rivoluzionario russo e lui stesso si sentiva impegnato a professare ideali progressisti, se non proprio rivoluzionari.
Poi prendemmo il caffè e insomma trascorsi un piacevole pomeriggio. Da parte mia feci di tutto per compiacerli. Recitai la parte dell’ascoltatore attento, mi dissi genericamente d’accordo, seppur con qualche distinguo, con i suoi ideali progressisti, apprezzai il caffè e finsi di interessarmi ad una collezione di monete antiche, che egli volle farmi vedere ad ogni costo. In particolare mi interessai, ma questo non mi costò alcuno sforzo, ad una incredibile collezione di dischi in vinile nei quali era raccolta l’intera storia della canzone napoletana. Ad un certo punto anzi egli mise sul giradischi una versione di Core ‘ngrato interpretata  da Enrico Caruso e si mise a canticchiare, dimostrando una discreta voce tenorile. Poi allacciò la moglie e con lei si esibì in alcuni passi di danza. Infine si fermò, riattaccò il disco e mi invitò a fare altrettanto con la moglie. Mi sentivo in imbarazzo, anche perché ballare non mi attraeva già allora e non mi avrebbe mai attratto per il resto della vita. Ma lui insistette, mi costrinse, mi spinse quasi tra le braccia della moglie, sorridendo e un po’ maledicendo la ritrosia dei Calabresi.
Ad una certa ora, mentre eravamo ancora accaldati e vagamente eccitati dall’euforia, fui invitato a pranzo per una delle domeniche successive. Poi fui invitato un’altra volta ancora, poi un’altra. Finii col diventare quasi uno di famiglia e le mie visite aumentarono quando io e Marilù decidemmo di preparare insieme un esame di Latino.
In un  pomeriggio di Marzo io e lei eravamo seduti intorno ad un tavolo, intenti a tradurre un brano di Ovidio. Era, mi pare, la seconda volta che ci ritrovavamo insieme, da soli, in assenza del marito. Era una bella giornata, si avvertivano i primi tepori della Primavera ed io, tra una ricerca e l’altra sul dizionario, cercavo di stare comodo su quella sedia. Mentre ricercavo questa comodità, che una strana irrequietezza quel giorno non mi consentiva di raggiungere a pieno, appoggiai il ginocchio ad una gamba del tavolo. Dopo un po’ feci leva con il ginocchio per spostare la sedia, ma mi accorsi che quella gamba si muoveva, anzi aveva preso a dondolare leggermente. Rimasi come paralizzato, incapace di venir fuori da quella situazione imbarazzante in cui mi ero, seppur involontariamente, cacciato. Ci pensò Marilù a risolvere ogni problema: si alzò; mi mise una mano sulla fronte, stranamente, perché non aveva mai fatto una cosa del genere; infine notò un insolito rossore sul mio volto e mi chiese se mi sentivo bene. Notai, o credetti di notare, un certo tono canzonatorio nelle sue parole e mi sentii perduto. Capii chiaramente che cosa si intende quando si dice che il ridicolo uccide e che quello, che lei poteva ritenere un mio goffo tentativo di “provarci”, avrebbe potuto distruggere la nostra amicizia. Ma lei capì il mio imbarazzo, il mio sgomento quasi, e volle tranquillizzarmi. Allungò dolcemente la mano dietro la mia nuca e mi attirò a sé. L’irreparabile si consumò di lì a poco, su un divano posto lungo la parete, mentre i libri e i dizionari sul tavolo sembravano oggetti sprecati nella loro inutilità, come delle nature morte in un quadro di Morandi.
A circa cinquanta chilometri di distanza, nello stesso momento, in un cantiere dell’impresa Cidonio lungo la Silana Crotonese, l’ingegner  Delgado stava consultando una cartina topografica. Qualcuno gli aveva portato un caffè e lui, inavvertitamente, con un movimento brusco ne aveva fatto cadere una parte sulla cartina. Si affrettò a ripulire le macchie e, a operazione ultimata, non poté fare a meno di notare che l’alone lasciato dal caffè aveva una strana rassomiglianza con la testa di un cervo. Poi andò a seguire alcuni lavori nel cantiere, tranquillo come sempre e forse inconsapevole del fatto che le grandi tragedie della vita  possono verificarsi nei momenti più impensati, mentre tutto, intorno a noi, sembra svolgersi nella più disarmante e insignificante banalità.
Quando entrambi ci rialzammo e ci ricomponemmo, notai su una sveglia che erano le cinque del pomeriggio. Bisognava sbrigarsi, perché l’ingegnere poteva rientrare da un momento all’altro.
Da quel giorno i nostri incontri diventarono più frequenti, mentre noi diventavamo sempre più temerari, quasi che la pacchia fosse ormai un diritto acquisito e che la fine non dovesse mai arrivare. E invece arrivò, come per tutte le cose di questo mondo. Eravamo a Giugno ormai, verso la fine dell’anno scolastico, e un pomeriggio Vladimiro, forse messo all’erta da qualcuno, forse inseguendo un suo rovello interiore che gli aveva fatto intuire qualcosa, alle tre del pomeriggio era già con la sua auto davanti al portone di casa. Diversamente da quanto aveva fatto in altre circostanze simili, non aveva preavvertito la moglie per telefono.
Noi, dal piano superiore, forse storditi, forse solo incoscienti, non sentimmo l’arrivo dell’auto, non sentimmo lui che, silenziosamente, saliva lungo le scale. Vladimiro arrivò all’improvviso, aprì bruscamente la porta e ci colse sul fatto, in atteggiamento inequivocabile. Avrebbe potuto gridare e inveire, Vladimiro, ma non lo fece. Del resto non poteva rinnegare platealmente, con una scenata piccolo borghese, i suoi ideali progressisti, se non proprio rivoluzionari. Non disse una parola, anzi sembrò quasi chiedere scusa per il disturbo; si diresse verso un’altra stanza e richiuse la porta dietro di sé.
Rividi Marilù solo dopo qualche giorno, a scuola. Mi comunicò che il marito aveva deciso di trasferirsi, tanto più che il suo lavoro presso l’impresa Cidonio era ormai agli sgoccioli, e che la partenza era fissata per la fine del mese, alla chiusura dell’anno scolastico.
Una mattina di Giugno, mi ritrovai davanti alla loro villetta a salutare i due che partivano. Avevano riempito ogni più piccolo spazio dell’auto, nella quale non entrava più niente, e anzi mi lasciavano in custodia una valigia, che avrei dovuto spedire loro in seguito. Al momento dei saluti, Marilù mi abbracciò con trasporto, Vladimiro si limitò a stringermi la mano. Sapevo che non li avrei più rivisti.
A distanza di qualche mese, rovistando in un armadio, vidi la valigia che avrei dovuto spedire. La cosa, chissà perché, m’era del tutto passata di mente e d’altra parte nessuno me l’aveva più richiesta. Avvertii una stretta e capii, se mai ce ne fosse stato bisogno, che Marilù, che pure era passata come una meteora, aveva contato più di qualcosa nella mia vita e che il suo ricordo continuava a bruciarmi. Armeggiando con un temperino, riuscii ad aprire la valigia, curioso di vedere che cosa ci fosse dentro. Vi trovai dei libri, un mazzo di cartoline illustrate legate con un nastro, una busta che conteneva un paio di calze da donna e un rossetto, altre cianfrusaglie. Credetti di capire che quella valigia, quegli oggetti, mi legavano ancora ad un ricordo che mi faceva soffrire. Credetti di capire che, per non soffrire più, dovevo compiere un gesto, anche simbolico, di liberazione.
Misi la valigia nella mia Cinquecento e mi diressi a Crotone. Andai verso il mare alla ricerca di un punto solitario della spiaggia. Era da poco tramontato il sole, una nuvolaglia nera incominciava a ricoprire il cielo e c’era un fortissimo vento di tramontana, che spazzava via ogni cosa. Aprii la valigia sulla spiaggia e attesi. Il vento incominciò a disperdere le buste, poi singole pagine, poi i libri, poi le altre cose. Alla fine anche la valigia, alleggerita del suo peso, fu sollevata in aria, roteò tante volte su se stessa, si richiuse come per magia e finì col posarsi, come la bottiglia di un naufrago, sulla distesa infinita del mare.
Ezio Scaramuzzino













Nessun commento:

Posta un commento