Chi oggi si trova ad affrontare la strada che lungo la Sila porta da Crotone a Cosenza, se volge lo sguardo sulle fiancate dei ponti che collegano i vari tratti, può vedervi scritto a caratteri giganteschi CIDONIO SPA. Quel nome non è per me senza rilievo e talora mi induce, quando mi ritrovo a guidare su quei tornanti, a riandare con la mente ad una vicenda di tanti anni fa.
Era una prima di
Ottobre e, all’età di diciannove anni, alle otto del mattino, varcai il portone
della Scuola Media di Scandale. Non andavo a frequentare le lezioni. Vi andavo
invece ad insegnare i fondamenti della poesia e della letteratura ai ragazzi e
alle ragazze del paese. Non c’erano allora molti laureati in giro ed il Preside
della scuola mi aveva affidato un incarico annuale, nonostante fossi solo uno
studente universitario.
Con qualche emozione
affrontai le prime ore di insegnamento
della mia vita. Verso le dieci, a causa di un buco nell’orario, mi diressi
verso la sala docenti, che, nel suo grigiore e nel suo abbandono, dava l’idea di una sala d’attesa di terza classe
nelle stazioni ferroviarie di una volta.
C’era lì, seduta
intorno ad un tavolo, una giovane donna, che a me sembrò subito bellissima.
Saluti, presentazioni ed ogni mio interrogativo venne subito chiarito. Marilù Properzio, così si chiamava, con quello strano
cognome che ricordava il grande poeta latino, era una Pugliese di Taranto,
anche lei universitaria e con un incarico annuale. Era già sposata, senza
figli, e con il marito ingegnere, che lavorava con l’impresa Cidonio nella costruzione della nuova strada
Silana-Crotonese, si era stabilita in una villetta alla periferia del paese.
Poi tirò fuori un pacchetto di sigarette, me ne offrì una e, tra una boccata e
l’altra, incominciò a lamentarsi della vita che, già da qualche giorno, stava
conducendo al paese. Non conosceva ancora nessuno, mi disse, non parlava mai
con nessuno, tranne che con qualche esercente di bottega, dove andava a fare la
spesa. Finì con l’invitarmi a casa sua, “a prendere il caffè” tenne a precisare
sorridendo, cosa che non mi feci ripetere due volte, anche se il mio piacere fu
in parte attenuato dalla sua ultima precisazione:“ Ovviamente verrai al Sabato
pomeriggio, verso le cinque, quando ci sarà pure mio marito”.
La rividi, con molto
piacere, il giorno successivo a scuola e poi ancora il Sabato mattina, quando
l’invito fu riconfermato. Aspettavo con ansia mista a curiosità quel pomeriggio
e mi accorsi che mi capitava, più di una volta, di pensare a lei. La rivedevo
mentre parlava, mentre fumava, mentre accavallava le gambe, cosa che faceva di
frequente, ed ero costretto ad ammettere che sì, era proprio una bella donna e
che, soprattutto, mi piaceva. Forse nel suo atteggiamento c’era qualcosa di
affettato, ma l’attribuii al fatto che, a quanto lei stessa mi aveva detto,
poter recitare su un palcoscenico era stato uno dei grandi sogni della sua vita
e quindi, almeno per il momento, si limitava a recitare un pochino sul grande
palcoscenico della vita.
Quel Sabato
pomeriggio, prima di recarmi da lei, mi fermai un po’ al Bar Centrale, ove il
mio amico Romano Cizza mi vide e mi disse che mi trovava un po’ teso.
Certamente aveva ragione, ma io non gli rivelai nulla di quanto occupava la mia
mente.
Alle ore diciassette
e qualche minuto, con la mia Cinquecento, ero davanti al portone della villetta.
Mi accorsi che i coniugi mi stavano aspettando, perché li intravidi dietro le
tendine spostate di una finestra al piano superiore. Dopo un po’ il portone si
aprì automaticamente ed io affrontai una piccola rampa di scale. Sul
pianerottolo tutti e due mi accolsero con un sorriso e potei vedere per la
prima volta il marito. Era un signore che dimostrava molti più anni della
moglie, con i capelli lunghi alla nazarena e una barba incolta, venata di
qualche filo grigio. Si chiamava Vladimiro Lenin Delgado ed era di Napoli. Una volta seduti in salotto,
mi invitò subito a dargli del tu e tenne a precisare che i suoi antenati erano
baroni di discendenza spagnola, trapiantati in Italia nel Settecento. Aggiunse
che da un bel po’ ormai il titolo non era più usato in famiglia e che anzi suo
padre gli aveva dato il nome del famoso rivoluzionario russo e lui stesso si
sentiva impegnato a professare ideali progressisti, se non proprio
rivoluzionari.
Poi prendemmo il
caffè e insomma trascorsi un piacevole pomeriggio. Da parte mia feci di tutto
per compiacerli. Recitai la parte dell’ascoltatore attento, mi dissi
genericamente d’accordo, seppur con qualche distinguo, con i suoi ideali
progressisti, apprezzai il caffè e finsi di interessarmi ad una collezione di
monete antiche, che egli volle farmi vedere ad ogni costo. In particolare mi
interessai, ma questo non mi costò alcuno sforzo, ad una incredibile collezione
di dischi in vinile nei quali era raccolta l’intera storia della canzone
napoletana. Ad un certo punto anzi egli mise sul giradischi una versione di Core ‘ngrato interpretata da Enrico Caruso e si mise a canticchiare, dimostrando una
discreta voce tenorile. Poi allacciò la moglie e con lei si esibì in alcuni
passi di danza. Infine si fermò, riattaccò il disco e mi invitò a fare
altrettanto con la moglie. Mi sentivo in imbarazzo, anche perché ballare non mi
attraeva già allora e non mi avrebbe mai attratto per il resto della vita. Ma
lui insistette, mi costrinse, mi spinse quasi tra le braccia della moglie,
sorridendo e un po’ maledicendo la ritrosia dei Calabresi.
Ad una certa ora,
mentre eravamo ancora accaldati e vagamente eccitati dall’euforia, fui invitato
a pranzo per una delle domeniche successive. Poi fui invitato un’altra volta
ancora, poi un’altra. Finii col diventare quasi uno di famiglia e le mie visite
aumentarono quando io e Marilù decidemmo di preparare insieme un esame di
Latino.
In un pomeriggio di Marzo io e lei eravamo seduti
intorno ad un tavolo, intenti a tradurre un brano di Ovidio. Era, mi pare, la seconda volta che
ci ritrovavamo insieme, da soli, in assenza del marito. Era una bella giornata,
si avvertivano i primi tepori della Primavera ed io, tra una ricerca e l’altra
sul dizionario, cercavo di stare comodo su quella sedia. Mentre ricercavo
questa comodità, che una strana irrequietezza quel giorno non mi consentiva di
raggiungere a pieno, appoggiai il ginocchio ad una gamba del tavolo. Dopo un
po’ feci leva con il ginocchio per spostare la sedia, ma mi accorsi che quella
gamba si muoveva, anzi aveva preso a dondolare leggermente. Rimasi come
paralizzato, incapace di venir fuori da quella situazione imbarazzante in cui
mi ero, seppur involontariamente, cacciato. Ci pensò Marilù a risolvere ogni problema: si alzò; mi mise
una mano sulla fronte, stranamente, perché non aveva mai fatto una cosa del
genere; infine notò un insolito rossore sul mio volto e mi chiese se mi sentivo
bene. Notai, o credetti di notare, un certo tono canzonatorio nelle sue parole
e mi sentii perduto. Capii chiaramente che cosa si intende quando si dice che
il ridicolo uccide e che quello, che lei poteva ritenere un mio goffo tentativo
di “provarci”, avrebbe potuto distruggere la nostra amicizia. Ma lei capì il
mio imbarazzo, il mio sgomento quasi, e volle tranquillizzarmi. Allungò
dolcemente la mano dietro la mia nuca e mi attirò a sé. L’irreparabile si
consumò di lì a poco, su un divano posto lungo la parete, mentre i libri e i
dizionari sul tavolo sembravano oggetti sprecati nella loro inutilità, come
delle nature morte in un quadro di Morandi.
A circa cinquanta
chilometri di distanza, nello stesso momento, in un cantiere dell’impresa
Cidonio lungo la Silana Crotonese, l’ingegner Delgado stava consultando una cartina topografica.
Qualcuno gli aveva portato un caffè e lui, inavvertitamente, con un movimento
brusco ne aveva fatto cadere una parte sulla cartina. Si affrettò a ripulire le
macchie e, a operazione ultimata, non poté fare a meno di notare che l’alone
lasciato dal caffè aveva una strana rassomiglianza con la testa di un cervo.
Poi andò a seguire alcuni lavori nel cantiere, tranquillo come sempre e forse inconsapevole
del fatto che le grandi tragedie della vita
possono verificarsi nei momenti più impensati, mentre tutto, intorno a
noi, sembra svolgersi nella più disarmante e insignificante banalità.
Quando entrambi ci
rialzammo e ci ricomponemmo, notai su una sveglia che erano le cinque del
pomeriggio. Bisognava sbrigarsi, perché l’ingegnere poteva rientrare da un
momento all’altro.
Da quel giorno i
nostri incontri diventarono più frequenti, mentre noi diventavamo sempre più
temerari, quasi che la pacchia fosse ormai un diritto acquisito e che la fine
non dovesse mai arrivare. E invece arrivò, come per tutte le cose di questo
mondo. Eravamo a Giugno ormai, verso la fine dell’anno scolastico, e un
pomeriggio Vladimiro, forse messo all’erta da qualcuno,
forse inseguendo un suo rovello interiore che gli aveva fatto intuire qualcosa,
alle tre del pomeriggio era già con la sua auto davanti al portone di casa.
Diversamente da quanto aveva fatto in altre circostanze simili, non aveva
preavvertito la moglie per telefono.
Noi, dal piano
superiore, forse storditi, forse solo incoscienti, non sentimmo l’arrivo
dell’auto, non sentimmo lui che, silenziosamente, saliva lungo le scale.
Vladimiro arrivò all’improvviso, aprì bruscamente la porta
e ci colse sul fatto, in atteggiamento inequivocabile. Avrebbe potuto gridare e
inveire, Vladimiro, ma non lo fece. Del resto non poteva rinnegare
platealmente, con una scenata piccolo borghese, i suoi ideali progressisti, se
non proprio rivoluzionari. Non disse una parola, anzi sembrò quasi chiedere
scusa per il disturbo; si diresse verso un’altra stanza e richiuse la porta
dietro di sé.
Rividi Marilù solo dopo qualche giorno, a scuola. Mi
comunicò che il marito aveva deciso di trasferirsi, tanto più che il suo lavoro
presso l’impresa Cidonio era ormai agli sgoccioli, e che la partenza
era fissata per la fine del mese, alla chiusura dell’anno scolastico.
Una mattina di
Giugno, mi ritrovai davanti alla loro villetta a salutare i due che partivano.
Avevano riempito ogni più piccolo spazio dell’auto, nella quale non entrava più
niente, e anzi mi lasciavano in custodia una valigia, che avrei dovuto spedire
loro in seguito. Al momento dei saluti, Marilù mi abbracciò con trasporto, Vladimiro si limitò a stringermi la mano. Sapevo che non
li avrei più rivisti.
A distanza di
qualche mese, rovistando in un armadio, vidi la valigia che avrei dovuto
spedire. La cosa, chissà perché, m’era del tutto passata di mente e d’altra
parte nessuno me l’aveva più richiesta. Avvertii una stretta e capii, se mai ce
ne fosse stato bisogno, che Marilù, che pure era passata come una
meteora, aveva contato più di qualcosa nella mia vita e che il suo ricordo
continuava a bruciarmi. Armeggiando con un temperino, riuscii ad aprire la
valigia, curioso di vedere che cosa ci fosse dentro. Vi trovai dei libri, un
mazzo di cartoline illustrate legate con un nastro, una busta che conteneva un
paio di calze da donna e un rossetto, altre cianfrusaglie. Credetti di capire
che quella valigia, quegli oggetti, mi legavano ancora ad un ricordo che mi
faceva soffrire. Credetti di capire che, per non soffrire più, dovevo compiere
un gesto, anche simbolico, di liberazione.
Misi la valigia
nella mia Cinquecento e mi diressi a Crotone. Andai verso il mare alla ricerca
di un punto solitario della spiaggia. Era da poco tramontato il sole, una
nuvolaglia nera incominciava a ricoprire il cielo e c’era un fortissimo vento
di tramontana, che spazzava via ogni cosa. Aprii la valigia sulla spiaggia e
attesi. Il vento incominciò a disperdere le buste, poi singole pagine, poi i
libri, poi le altre cose. Alla fine anche la valigia, alleggerita del suo peso,
fu sollevata in aria, roteò tante volte su se stessa, si richiuse come per
magia e finì col posarsi, come la bottiglia di un naufrago, sulla distesa
infinita del mare.
Ezio Scaramuzzino
Ezio Scaramuzzino
Nessun commento:
Posta un commento