Al paese si cominciò a mormorare che la figlia del Maestro s’era “chiusa”, nel senso che era entrata in un convento per diventare suora. Ma come era possibile? Era la più bella delle sei figlie, la più istruita e corteggiata. Probabilmente aveva avuto una delusione d’amore e voleva così rompere ogni legame con il passato. E invece no, semplicemente, seppur nella confusione della grande casa che accoglieva la famiglia Fioravanti, la tenera Agnese, nel silenzio della sua anima, in una notte di un Gennaio particolarmente rigido aveva udito un richiamo chiaro e perentorio che non le lasciava scampo.
Così partì per un convento di Crotone, abbandonando senza rimpianti una vita felice e spensierata, una famiglia che l’amava e che l’aveva custodita e protetta soprattutto da lei stessa, dal suo animo ingenuo e puro. Agnese fu accolta, per il noviziato, in un convento di suore che si occupavano di bambini sordomuti, ai quali ella si dedicò con tutta l’anima, non facendo neppure caso alle piccole malvagità di cui era spesso fatta bersaglio da parte delle consorelle.
Il convento si trovava su una collina che dominava la spianata di Capocolonna e da alcuni punti, lungo le mura, consentiva di vedere il mare che si stendeva tutt’intorno. Lo sguardo poteva spaziare dalla chiesetta sino al centro abitato della città, poi sul giardino, grande e silenzioso, lindo e profumato della lavanda che le suore raccoglievano d’estate. Le giornate, scandite dalla regolarità della vita religiosa, iniziavano prestissimo con la recita del Mattutino e terminavano altrettanto presto con la Compieta.
Il vento della Guerra sembrava non raggiungere il convento, salvo che nella ristrettezza del cibo e nel numero sempre maggiore di persone che venivano a bussare in cerca di aiuto. Si intensificavano le preghiere a quel Dio Sposo inspiegabilmente sordo al tetro rombare degli aerei, che venivano a sganciare le loro bombe sempre più di frequente e in posti di giorno in giorno più vicini . Negli ultimi tempi gli aerei avevano intensificato le loro incursioni e capitava di frequente che essi scendessero a bassa quota per mitragliare da vicino la popolazione civile sempre più atterrita.
I contatti con le famiglie si erano diradati e Suor Agnese, abbandonato l’abito secolare, anche se non aveva ancora preso i voti, si sentiva già parte di quella Comunità che l’aveva accolta. Il suo carattere mite e ligio alle Regole, che imponevano l’assoluta obbedienza, aveva consentito alle sue consorelle di approfittare della sua disponibilità e di chiederle quindi un impegno sempre più grande, nella scuola per i bambini sordomuti e nelle incombenze di tutti i giorni. Chissà se il ciliegio nel giardino della grande casa era già fiorito, chissà se le sorelle ogni tanto pensavano a lei… E la mamma? Così gracile e provata dalla fatica, nelle innumerevoli incombenze della famiglia e del lavoro, come aveva superato l’inverno? Le notizie erano sempre più scarne, ma lei, presa com’era dalla nuova vita, si soffermava solo di rado in queste riflessioni.
Il cibo scarseggiava sempre di più e la Vocazione, che inizialmente l’aveva fatta decidere al grande passo, in quell’ambiente metodico e chiuso si stava pian piano trasformando in una vera e propria ossessione: le continue privazioni erano da lei esaltate e sublimate in un mistico esercizio di ascesi, l’obbedienza era applicata fino alle estreme conseguenze della sudditanza e della mortificazione, la sofferenza per il freddo delle celle era da lei considerata un’ offerta a Dio in espiazione dei peccati dell’intera umanità. Perfino le consorelle, anche se poco attente, intuirono che una volontà di autoannientamento si stava impadronendo di lei. Ma ormai era troppo tardi.
Tutto cominciò con un deperimento fisico accompagnato da un repentino cambiamento dello stile di vita, che oggi si sarebbe definito stato depressivo o maniacale religioso e che allora fu invece tragicamente diagnosticato come schizofrenia. E allora Agnese, la bella, la colta, la mite, fu rinchiusa, stavolta non per sua volontà, in un altro mondo, nel mondo dei matti. Durante una fredda mattina di Febbraio, un’auto adattata alla meglio la portò al manicomio di Girifalco.
Inizialmente lei non riuscì a capire bene né perché si trovasse lì, né per quanto tempo sarebbe stato necessario restarci. In seguito, stordita dai farmaci e dall’elettroshock, ebbe idee ancora più confuse sulla sua condizione. Allora non si faceva molta differenza tra la follia e una sindrome maniacale depressiva: entrambe venivano “curate” con gli stessi sistemi.
Le persone, addette alla cura dei ricoverati, erano talmente abbrutite dall’ambiente in cui operavano che consideravano normale lavare i malati con acqua gelida o tenerli in ambienti sporchi e malsani. Quando Agnese entrò in manicomio, prima di sprofondare nel limbo provocato dagli psicofarmaci, ebbe il tempo di guardarsi un po’ attorno e di vedere l’anticamera dell’inferno. Il microcosmo del manicomio era separato dal mondo dei “normali” da sbarre, inferriate e chiavistelli, che servivano a contenere ed arginare la furia della forza fisica scaturita dal delirio della mente. Chi era “dentro” perdeva la propria identità, vivendo in un eterno sottofondo di urla e discorsi vaneggianti.
Intanto a casa, oltre alla preoccupazione per la malattia di Agnese, si doveva far fronte alle spese per il suo ricovero ed ai viaggi per le visite, sempre più difficoltose a causa della guerra. Quando la mamma andava a trovare Agnese, tornava svuotata di ogni energia, non solo per le condizioni in cui trovava la figlia, ma anche per la realtà con la quale veniva a contatto. Giovani donne scarmigliate erano spesso rinchiuse in celle di contenimento per evitare, nei momenti di crisi estrema, che potessero far del male a sé stesse ed agli altri. Donne giovanissime, quasi delle bambine, vivevano lì, dimenticate ed abbandonate dalle famiglie, senza speranza e senza futuro.
Ma un giorno Agnese guarì, o si credette che fosse guarita. Avvenne quando la superiora del convento andò a trovarla nel manicomio e lei parlò lucidamente della sua malattia e dei problemi che questa le aveva procurato. La superiora si convinse che l’ammalata non era più tale e con il permesso dei medici se la riportò in convento, dove ripresero anche le visite della madre, di giovedì, come prevedevano le regole .
Agnese conservava un ricordo confuso di queste visite materne, ma le aspettava con trepidazione e dava segni di irrequietezza, quando le visite tardavano o, qualche volta, saltavano. Nell’attesa, di tanto in tanto, le capitava di sorridere, pregustando la dolcezza di quegli incontri. Un giovedì aspettò inutilmente per tutta la giornata. Ma anche la settimana successiva la giornata trascorse in una vana attesa e così avvenne per un po’ di tempo. Agnese aveva preso a sbiadire ancora di più i suoi ricordi e le precedenti visite della madre, nella sua mente confusa, incominciavano ad assumere le parvenze di un sogno destinato a non più ripetersi. Lei partecipava in maniera discontinua alla vita comune e, quando si trovava sola nella sua cella, talvolta si trascinava stancamente verso una sedia che ne costituiva l’unico arredamento assieme ad un inginocchiatoio.
Un giorno, mentre stava pregando con un fervore che credeva di avere smarrito ormai da tanto tempo, sentì un cigolio alla porta della cella. Si girò incuriosita e vide che la maniglia girava su se stessa, inspiegabilmente, mentre la porta si apriva, lentamente. Apparve una signora, che lei non aveva mai visto. La sconosciuta avanzò, quasi scivolando, sul pavimento della cella, andò a fermarsi vicino al letto e le fece segno di avvicinarsi. Poi le strinse le mani fredde e Agnese avvertì un tepore che quasi non ricordava più. Le disse che non doveva più aspettare la mamma, perché la sua mamma ormai non c’era più. Poi, sorridendo, ritornò sui suoi passi, silenziosamente, e sparì oltre la porta, che si richiuse con uno scatto sommesso. Lei riprese le sue preghiere e si accorse che lacrime calde stavano rigando il suo volto.
Qualche mese dopo, durante una delle rare visite a casa concesse dal regolamento, le sorelle ritennero giunto il momento di rivelare ad Agnese la morte della madre. In precedenza, per ovvi motivi di opportunità, avevano deciso di non dirle nulla, né avevano ritenuto di incaricarne qualcuno. Ma lei le precedette, dicendo che sapeva già tutto. Raccontò tutti i particolari di quella morte, ripeté addirittura le ultime parole della madre pochi istanti prima che cessasse di vivere. Le sorelle, sbalordite, non osarono chiedere spiegazioni, convinte che qualcosa di straordinario, quasi di incredibile, si fosse verificato nella loro famiglia. Il giorno dopo, abbracciate le sorelle per l’ultima volta, Agnese ritornò in convento, dal quale non sarebbe ritornata mai più.
Oggi Agnese riposa nel piccolo cimitero del convento, che dall’alto della collina continua a dominare il paesaggio della spianata di Capocolonna. Il cimitero, posto in un angolo di quel giardino profumato di lavanda, è anche diventato troppo angusto ed ha subito nel corso degli anni varie sistemazioni e riadattamenti. Ma chi volge lo sguardo verso un cespuglio di ginestra, lasciato crescere fino a occuparne un breve tratto, può scorgere, dietro i suoi fiori odorosi, una piccola lapide che fuoriesce dal terreno e che riporta soltanto un nome e due date: Agnese Fioravanti, 1/5/1921 – 11/1/2007.
Ezio Scaramuzzino
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