I
A Scandale solo pochi anziani ricordano ancora il caso, lo scandalo
del 1950, perché pochi allora riuscirono a saperne qualcosa di concreto e quei
pochi ne parlarono pure a bassa voce. Mai in precedenza si era verificato il
caso di una ragazza madre e, quel che è peggio, mai ci si sarebbe aspettati che
una cosa del genere avvenisse in una delle migliori famiglie. E invece avvenne,
proprio in una famiglia timorata di Dio e nella quale il rispetto del decoro
era considerato un principio sacro ed inviolabile.
Era
successo che nella famiglia Bontempo la seconda figlia, Ermelinda, destava
qualche preoccupazione nei genitori per la sua estrema vivacità. Il ragioniere
Bontempo, segretario capo nel locale Ufficio Comunale, non poteva sopportare ad
esempio che la figlia ritornasse da scuola ogni giorno da Crotone, avendo tra i
piedi Pinuccio, figlio di contadini. Era pur vero che Pinuccio era molto bravo
a scuola, mentre Ermelinda con il suo
carattere da svampita non riusciva altrettanto bene, ricorrendo quindi spesso
all’aiuto del suo amichetto, senza del quale si sentiva perduta: ma a tutto
c’era un limite. I coniugi Bontempo inoltre non sopportavano che, con la scusa
dei compiti, i due ragazzi si chiudessero qualche volta a chiave nello studio
di casa: anche a questo bisognava porre
un rimedio.
E siccome quel rimedio non si riusciva a trovarlo ed ogni loro ammonimento
sembrava inutile, i due presero una decisione drastica: Ermelinda avrebbe sì
frequentato il Liceo a Crotone, ma avrebbe abitato dalle suore, con espresso
divieto di incontrare il suo amico. Ma essi non avevano fatto i conti con la
forza degli ormoni, che possono talvolta essere deviati o frastornati, ma che,
prima o poi, inevitabilmente, ritornano quasi sempre a centrare il loro
obiettivo.
I due amici, ormai cresciutelli, avevano diradato i loro incontri, ma non avevano alcuna intenzione di
rinunziarvi. Certo non potevano più stare assieme nel pomeriggio a fare i compiti,
certo le suore non consentivano che Ermelinda uscisse da sola, ma le suore non
potevano avere cento occhi e soprattutto non potevano coprire con la loro
vigilanza tutte le ventiquattro ore della giornata. Quando per un motivo o per
l’altro non si faceva scuola, e la cosa non era infrequente, i due si incontravano
e trascorrevano insieme ore
meravigliose. Gli esami di maturità, ormai prossimi, non li distoglievano dai
loro incontri e qualcuno ebbe la felice idea di avvisare il ragioniere Bontempo. Ma ormai era troppo tardi.
Ermelinda era incinta. All’inizio ebbe solo
qualche sospetto, ma quando si convinse
che il ritardo era ormai da
considerarsi eccessivo e che non era paragonabile a quanto già altre volte le
era successo, si risolse a confidarsi con la madre. La quale ebbe il terrore di
rivelare la cosa al marito, sperando fino all’ultimo che si trattasse di un
falso allarme. Ma, quando le analisi spazzarono via ogni illusione, con la
morte nel cuore, gli spiattellò tutto.
Il ragioniere non gridò, non sbraitò e si
prese solo qualche giorno di tempo per riflettere sulla cosa e decidere il da
farsi. Ogni decisione toccava a lui, soltanto a lui che era il capofamiglia:
gli altri avrebbero obbedito come sempre e nessuno nel paese avrebbe capito che
qualcosa di terribile era avvenuto in quella famiglia. Anche Ermelinda, che
pure in altre circostanze si era permessa di muovere obiezioni o di tenere
testa al padre, questa volta non ebbe il coraggio di fiatare: in un pomeriggio
di aprile, mentre tutt’intorno la natura sembrava svegliarsi ai primi tepori
della primavera, lei, rassegnata e impotente, ascoltò la decisione del padre.
Di aborto clandestino non era proprio il
caso di parlare, dal momento che esso era considerato peccato mortale dalla
Santa Madre Chiesa. Ermelinda con una scusa qualsiasi si sarebbe trasferita a
Catanzaro, dove il Bontempo godeva di qualche protezione e di qualche amicizia
importante. Lì avrebbe frequentato il
Liceo, avrebbe sostenuto gli esami e avrebbe portato a termine la gravidanza,
non riconoscendo però il figlio dopo il parto e consentendo che l’assistenza
pubblica si facesse carico del mantenimento in vita di quello che, a tutti gli
effetti, era da considerarsi solo “il frutto del peccato”. Quanto ad un
eventuale matrimonio riparatore, l’ipotesi non fu nemmeno presa in considerazione, dal momento
che la persona in questione, pur
intelligente, era notoriamente un morto di fame, figlio di morti di fame e
certamente destinato a restare un morto di fame.
II
La sveglia segnava le quattro ed il suono insistente strappò Paolino violentemente
dal sonno. La bocca impastata, la testa ancora occupata dai brandelli
dell’ultimo sogno, un brivido di freddo
che gli correva lungo la schiena: tutto questo gli suggeriva di rimanere
ancora al calduccio del letto. Difficile a soli dodici anni comandare alle
gambe esili di scendere dal letto a quell’ora del mattino, quando ancora tutto
era avvolto dalle ombre della notte, ma il richiamo del padre lo convinse che
non era proprio il caso di indugiare.
La camera, dove dormiva insieme con tanti
fratelli, odorava leggermente di stalla: ogni letto ne ospitava un paio. A tentoni, inciampando nelle scarpe
abbandonate a terra in modo disordinato, Paolino raggiunse la cucina, dove
sperò di risvegliarsi con un po’ di
acqua gelida sul viso. Il frammento di specchio, appeso alla parete, gli
rimandò l’immagine di un animaletto arruffato, dallo sguardo acquoso, dal
ciuffo ribelle che non voleva proprio saperne
di rimanere abbassato e dalla strana voglia scura, dalla particolare forma a
virgola, stampata proprio sulla guancia destra. Pur non avendo consapevolezza
piena della sua condizione, egli avvertiva intimamente un senso di ingiustizia.
Perché a lui erano negati i giochi, la
scuola, la compagnia dei ragazzini della sua età? Era giusto che la vita gli
portasse via gli anni spensierati, le
energie che avrebbe al massimo dovuto sprecare in una inutile corsa a
perdifiato?
Il padre lo sollecitò ancora a sbrigarsi. Il ragazzo indossò velocemente i
panni del giorno prima, infilò il berretto calcandolo per bene fino agli occhi,
agguantò al volo una mela e si chiuse dietro l’uscio. Ogni giorno la stessa
storia, ogni giorno la stessa vita, da un tempo che gli sembrava simile all’eternità.
Suo padre aveva un banco da ambulante di frittelle che spostava di mercato in
mercato, di fiera in fiera ed egli lo
seguiva per aiutarlo. Il furgone traballante lo cullava e spesso gli consentiva
di addormentarsi di nuovo e di recuperare un po’ del sonno perduto. Quel
giorno, giunti a destinazione, montarono velocemente l’attrezzatura, come sempre,
in un rituale che non conosceva novità.
In breve tempo l’odore acre delle frittelle,
che sfrigolavano nell’olio bollente, invase l’aria e si confuse con un odore
dolciastro che proveniva dal banco
vicino. La pila dei foglietti di cartapaglia che servivano per incartare le
frittelle, il secchio di zinco che lo conteneva: tutto era al proprio posto e,
dato che ancora non era cominciato il giro dei clienti, Paolino chiese a suo
padre il permesso di allontanarsi a fare un giro. La fiera di Mulerà, quella in
cui si trovava, era grande e importante e la cadenza annuale, ogni primo di
Settembre a Roccabernarda, la faceva diventare un vero e proprio evento di
richiamo per gli abitanti di tutti i paesi vicini.
I banchi esponevano merce di vario tipo
ma erano quelli dei giochi ad attirare
di più la sua attenzione. Trenini di legno che trasportavano la sua fantasia in viaggi avventurosi per terre
sconosciute, macchinine di latta di vari colori delle quali si poteva
immaginare il rombo assordante nell’impazienza di partire per una gara
fantastica, intere guarnigioni di soldatini di piombo a difesa di castelli
incantati. Dato che non poteva permettersi di comprarli, riusciva a farli suoi
e a giocarci con la sua fantasia.
Preso com’era da tali e tante fantasticherie,
Paolino non si accorse che il tempo era trascorso.
Lo avvertì dal movimento di persone nel
frattempo aumentato, dalle gomitate di chi,
ingombro di pacchi e mercanzie varie, cercava di farsi largo per trovare spazio
nella calca. Allora, temendo i rimproveri del padre, cercò di affrettarsi
sgusciando fra le persone, facendosi spazio con le braccia magre nella folla,
come nuotando in un mare in tempesta. Le scarpe, troppo grandi per i piccoli
piedi che dovevano contenere, gli fecero il brutto scherzo di farlo cadere,
così che si trovò a terra, con un ginocchio sbucciato che sanguinava. La ferita
quasi non si vedeva, tanto era ricoperta di terra. Ma un rigagnolo di sangue cominciò a scendere
lungo la gamba e lui rimase lì per terra,
quasi inebetito e disorientato, non trovando lo spazio e la forza per rialzarsi.
III
Nel giro di pochi istanti una giovane signora
ben vestita si accovacciò per aiutarlo a rialzarsi e, con quel gesto spontaneo
che accomuna tutte le mamme del mondo, prese un fazzolettino dalla borsetta, lo
bagnò di saliva e lo appoggiò sulla ferita, cercando di ripulirla. Un gesto da
nulla, ma di un’intimità e di un affetto che lo lasciarono senza fiato. La
dolce signora lo strinse per un attimo fra le braccia quasi a volerlo consolare
e rassicurare ed egli respirò intensamente l’odore che ella emanava: un odore
di pane e di latte, di lisciva e di salvia, di biscotti appena sfornati e di
caffè, di violetta, di talco, di casa…! Poi, con lo stesso fazzoletto usato per
ripulire la ferita, la signora gli asciugò la faccia dai lacrimoni che si ostinavano a scendere lungo le guance. Solo
allora ella vide la voglia dalla particolare forma a virgola sulla guancia del
bimbo e impallidì.
Pensieri e ricordi assalirono la sua mente e
la fecero tornare indietro, a dodici
anni prima, quando quel bambino le era stato strappato, perché considerato dalla sua famiglia una vergogna
da nascondere. Lei aveva potuto
stringere quel bimbo per un solo attimo fra le braccia, prima che fosse affidato alla pubblica assistenza. Lei avrebbe
dovuto solo dimenticare quello che suo padre definiva “un piccolo incidente”, capace
di macchiare il buon nome e l’onore della famiglia.
Ma ora, a distanza di dodici anni, quel
“piccolo incidente” l’aveva guardata e
lei aveva guardato lui, cercando di imprimere nella mente i più piccoli
dettagli della sua fisionomia. E fra questi
dettagli spiccava quella
particolarissima voglia scura a forma di virgola sulla guancia destra. Lei avvertiva confusamente dentro di sé che quello sguardo li avrebbe legati per il resto della vita , qualunque
fosse stato il loro destino, lo stesso destino che quel giorno li aveva fatti incontrare di nuovo.
La signora si curvò ancora di più sul
bambino, quasi a volerlo proteggere dall’irruenza della folla, poi si alzò
lentamente, sorreggendolo tra le sue braccia. Una lacrima calda e liberatoria,
una sola, prese a scorrerle lungo la guancia ed andò a mescolarsi a quelle, in
parte asciugate e rapprese, del figlio.
Qualcuno si accorse di quello strano gruppo,
che cercava di avanzare e istintivamente si scostò per fare largo. Altri,
cercando di capire che cosa fosse successo, si unirono a quel gesto gentile. Si
poté vedere un piccolo corridoio che si formava davanti alla signora che procedeva
con il bambino in braccio e si richiudeva subito dopo alle sue spalle. Lei
continuava ad avanzare, pur senza una direzione precisa: sapeva solo che da
quel giorno la sua vita non sarebbe stata più la stessa di prima.
Ezio Scaramuzzino
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