giovedì 3 gennaio 2019

Il gioco delle Tre Carte (racconto inedito) di Ezio Scaramuzzino


*

Era il mese di agosto del 1954 e di mattina, con il vestito della festa, mi apprestavo ad uscire di casa. C’era a Scandale la festa della Madonna del Condoleo e, come sempre in queste circostanze, avevo in tasca qualche soldino in più. Non che potessi scialacquare, anche perché in quei tempi non poteva scialacquare nessuno e tanto meno potevo scialacquare io, ma qualche spesuccia in più in quel giorno di festa me la potevo permettere.
Per rassicurarmi sull’entità del mio gruzzolo, camminavo per il corso  con la mano appoggiata sulla tasca dei calzoni, dove le monete creavano un piacevole rigonfiamento e di tanto in tanto, quando sollevavo la mano, ne avvertivo il dolce tintinnio. Un paio di volte mi fermai a contare i miei soldini. Tirai fuori il gruzzolo, presi le monete e mi rassicurai. Avevo in tutto la bellezza di 500 lire, frutto  di un extra consegnatomi  quella mattina da mia madre, ma soprattutto  dovuto alle settimanali dieci lire, che mi venivano consegnate perché io le mettessi nella sacchetta del sacrestano alla messa domenicale, che invece io molto spesso trattenevo per giocarmele  a battimuro con alterna fortuna e che avevo incrementato con una straordinaria vincita proprio qualche giorno prima.
Avevo scrupolo per quei soldini che credevo di sottrarre in maniera fraudolenta alla Chiesa ed avevo deciso, proprio per togliermi i sensi di colpa, di andare in chiesa quel giorno a depositare un’offerta più consistente. Volevo  quasi condividere i soldi vinti con Don Renato, il parroco, al quale sentivo di riconoscere una parziale e legittima proprietà in ricompensa della protezione che il buon Dio mi aveva certamente accordato nel gioco.
Evitai di correre, come facevo di solito a quell’età, anche perché, correndo, mi riusciva difficile poggiare la mano sulla tasca e non volevo correre il rischio di perdere qualche soldino. Scendevo tranquillo lungo viale Puccini ed ero arrivato all’altezza dello Slargo Genuzzo, quando vidi venirmi incontro Sarino Anastasi.
-Ezio, dove vai?
-Vado in chiesa, alla Messa.
-Ma è ancora presto, manca ancora mezz’ora. Fermati, che facciamo un po’ di battimuro.
-Non posso, non posso…
-Ma l’altro giorno, quando hai vinto tanto, il tempo ce l’avevi. Mi devi dare una rivincita, anche se dobbiamo giocare io e te soli, anche per cinque minuti….. non puoi rifiutarti o te ne faccio pentire, mi disse con tono vagamente minaccioso.
- L’altro giorno era l’altro giorno, oggi è oggi.
 Sarino, che era molto più robusto di me,  incominciò a strattonarmi ed io, per evitare di strapazzare la mia camicia nuova, gli accordai, seppure a malincuore, qualche minuto di gioco.
Tirammo a sorte chi doveva battere per primo e toccò a me. Presi dieci lire dal mio gruzzolo, le famose dieci lire con l’aratro e le spighe, e le feci rimbalzare sulla parete di una casa di fronte. Sarino invece tirò male e le sue dieci si posarono a ridosso della parete. Per me risultò facile vincere al tiro successivo. Il secondo giro fu iniziato da Sarino che questa volta tirò bene e fece rimbalzare il suo decino a circa tre metri dalla parete. Quando toccò a me, impressi molta forza al lancio, ma la moneta ricadde a terra sul bordo, poi incominciò lentamente a rotolare e si fermò a poca distanza dall’altra. Misurai con il palmo della mano, toccai le due monete e rivinsi. Vinsi anche le tre volte successive: quel giorno tutto mi andava bene.
-Ho finito i soldi, disse Sarino. Se mi presti cinquanta lire, continuiamo.
-No, caro. Quando uno non ha soldi, non si gioca.
E, per evitargli altre tentazioni, mi affrettai ad allontanarmi, correndo, verso la chiesa, ove giunsi in anticipo. C’era la possibilità, nell’attesa, di fare una partita a calciobalilla nel bar di Benedetto Ierardi. Non fu difficile trovare un avversario per una partita in due, con rivincita ed eventuale “bella”, da giocare al volo (cioè senza poter fermare la palla e soprattutto senza il famoso “gancio” in zona d’attacco). Trovai nel bar Ciccio Garieri, il quale, pur essendo figlio del sacrestano, evidentemente quel giorno non godeva della protezione divina, perché perse le due partite e fu costretto anche a pagarmi un gelato, che divorai in un baleno per affrettarmi ad entrare in chiesa.
Ascoltai la Messa quel giorno con particolare fervore. Mi sentivo protetto da Dio ed avvertivo la vaga necessità di ricambiare in qualche modo, dimostrando riconoscenza con la mia devozione e, soprattutto, mettendo nel sacchetto delle offerte ben cento lire, una sommetta che non avevo mai messo in precedenza. Volevo dire al buon Dio che io non solo lo consideravo il mio protettore, ma anche, perché no, il mio socio in affari, dandogli giustamente la parte di sua spettanza.
All’ “Ite, Missa est” sgattaiolai fuori dalla chiesa tra la folla che faceva ressa all’uscita e intanto, mentalmente, facevo i conti di quanto avevo in tasca. Ero uscito con 500 lire, ne avevo vinte 50 a battimuro, ne avevo offerte 100 in chiesa, quindi avevo 450 lire: una sommetta con cui potevo ancora permettermi qualcosa di interessante.
 Nella piazza c’era una marea di gente. Comprai un mostacciuolo, di cui ero particolarmente ghiotto, e poi mi misi a curiosare tra le varie bancarelle. In un angolo della piazza, una sembrava particolarmente trascurata dalla gente ed un tipo dall’aria piuttosto spavalda si affannava a richiamare l’attenzione dei passanti agitando tra le mani alcune carte da giuoco.
Lo conoscevo quel tipo: era uno di Crotone che, immancabilmente, ogni anno, alla festa della Madonna, preparava il suo banchetto, appoggiato su uno scatolo di cartone, sempre allo stesso angolo della piazza e lì faceva il gioco delle Tre Carte. Mi avvicinai per curiosità, ma mantenendomi ad una certa distanza. Subito mi accorsi che due uomini si erano avvicinati e si erano disposti dietro di me. Con movimenti pressoché impercettibili e con piccole spinte mi fecero avvicinare sempre di più, cosicché dopo nemmeno un paio di minuti finii col trovarmi in prima fila proprio davanti al banchetto.
Intanto il tipo dava qualche dimostrazione, roteando e posando tre carte, tra le quali bisognava indovinare l’Asso di denari, e dicendo come un ritornello “questa vince e questa perde”. Il gioco sembrava piuttosto facile e banale. Mentalmente cercavo di indovinare ed indovinavo sempre. Non ci voleva molto a capire che il giocatore di carte ed i suoi due compari, o zaraffi come erano comunemente chiamati, avevano puntato gli occhi su di me, non facendosi scrupolo di spennare anche un bambino. Ma io, che ero il pollo-bambino, non l’avevo capito e, pur non avendo voglia di farmi spennare, ero ormai entrato perfettamente nel mio ruolo di vittima.
-Bel bambino, non c’è bisogno di puntare soldi, voglio solo vedere se sei bravo ad indovinare. Dov’è l’asso?, diceva.
Ed io, timidamente, alzai la mano sinistra, mentre con la destra premevo sui soldini nella mia saccoccia, e toccai la carta vincente. Avevo indovinato, come pensavo.
-Hai indovinato, ma non avevi puntato e quindi non hai vinto niente.
Al turno successivo, mentre io stavo a guardare, uno dei due zaraffi improvvisamente puntò e vinse cinquanta lire. Vinse altre tre volte di fila, sempre cinquanta lire, e l’unica volta che perse finse di disperarsi. Solo una volta, accortomi che quello aveva puntato male, tirai fuori velocemente dieci lire e le puntai sulla carta giusta.
-Bravo, bambino, sei sveglio ed hai indovinato. Ma la puntata minima è cinquanta.
Ad una puntata successiva partecipò anche il secondo zaraffa. Mise una mano sulla carta vincente e con l’altra mano estrasse dalla tasca posteriore il portafogli, ma, non potendo manovrare con una sola mano, mi chiese di aprirlo e di prendere cento lire. Cosa che io feci volentieri, consentendogli di vincere ben cento lire: cosa per me incredibile e straordinaria. Nel mentre, con fare furtivo, io cercavo di avere pronte con la mano in tasca le mie cinquanta lire, i due zaraffi continuavano a vincere. Ad una puntata successiva, individuata la carta giusta, aggiunsi improvvisamente il mio cinquantino ai soldi dei due zaraffi.
-Bravo, bel bambino, le regole del gioco non permettono che tutti puntino sulla stessa carta. Il terzo viene escluso. Ma con te voglio fare un’eccezione. Hai vinto.
E ricevetti cinquanta lire. Riavevo in tasca di nuovo 500 lire. Ero sbalordito. Non mi sembrava vero che si potesse vincere tanto con un gioco che mi sembrava addirittura sciocco nella sua semplicità. Oltre tutto mi ero convinto che quella era una persona per bene, che non imbrogliava, che non approfittava della mia età, e con cui si poteva giocare lealmente. Bisognava solo fare attenzione alla due carte tenute nella mano destra, che non sempre egli poneva sul tavolo nello stesso ordine con cui apparivano. Ma lo faceva in maniera così lenta ed evidente che non creava particolari difficoltà. Almeno a me, o almeno così credevo.
        Per il turno successivo mi tenni pronte in mano 150 lire: i due zaraffi ed il giocatore dovevano essersene accorti e prepararono la prima trappola. I due si astennero dal giocare ed il baro posò le carte con la solita flemma. Con il cuore in tumulto puntai 150, ma ero sicuro di vincere. Mi distrassi solo un attimo quando qualcuno gridò che c’erano le guardie lì vicino e girai la testa forse per uno-due secondi. Quando le carte furono scoperte, dovetti amaramente constatare che l’asso di denari non era dove io avevo puntato e che in una sola botta il mio gruzzolo si era ridotto a 350 lire. Ma non mi diedi per vinto. Giocai 50 lire e vinsi: gruzzolo a quota 400. Poi puntai 100, mentre i due compari non giocavano più. Persi: gruzzolo a quota 300.
Non mi rassegnai a perdere e decisi di giocare il tutto per tutto. Bisognava solo stare attenti ai virtuosismi della mano destra. Rimasi attentissimo. Forse con la testa mimavo addirittura i movimenti della mano destra del baro. Puntai le 300 lire che mi erano rimaste ed ero sicuro di vincere, non potevo non vincere. Mentre ero in attesa che venissero scoperte le carte, la stessa voce di prima gridò che c’erano le guardie. Questa volta non mi girai e non mi distrassi, ma non servì a niente. In un attimo vidi che uno dei due compari diede un calcio allo scatolo di cartone che reggeva il banchetto, mentre l’altro arraffava i soldi che avevo puntato e tutto finiva per terra.
Nella calca che ne seguì fui travolto e calpestato dal baro che stava scappando e rimasi a terra dolorante e con un po’ di sangue che mi colava dal labbro. Quando mi rialzai, vidi davanti a me don Amedeo Cizza, la guardia comunale, come allora si chiamava la polizia locale, che mi prese per mano e mi condusse con sé al piano terra del Municipio, che si trovava a pochissima distanza e dove ritrovai anche i tre compari della mia disavventura, nel frattempo bloccati da un’altra guardia.
Con qualche lacrima che mi colava lungo il viso, riuscii a raccontare quello che mi era successo.
Io-Ero appena uscito dalla chiesa, quando mi sono avvicinato al banchetto del gioco. Ho puntato le mie ultime 300 lire, ma è saltato via tutto perché quel signore ha dato un calcio allo scatolo del banchetto e mi sono ritrovato per terra, senza capire più niente.
Il primo compare- Io non ho dato un calcio allo scatolo. Lo scatolo è caduto da solo perché era mal posto ed il banchetto è crollato sullo scatolo. E’ vero che ho alzato il piede, ma solo per reggere il banchetto, non per farlo cadere.
Il secondo compare- Io ho preso le 300 lire, è vero, ma solo per ridargliele ed evitare che nella confusione potessero finire per terra e perdersi.
La guardia Cizza- E voi vi siete approfittati di un bambino?!
Il baro- Signora guardia, intanto ci tengo a precisare che questi due signori, che avete messo accanto a me, non sono miei compari e proprio non li conosco. Per il resto io sapevo bene di avere a che fare con un bambino e stavo giocando con lui ma solo su sua richiesta e per scherzare, per passare il tempo.
La guardia Cizza- E tu, per passare il tempo, gli hai fregato quasi 500 lire? Così passi il tempo tu? Quanto a quei due lo stabilirà il signor Pretore se erano o non erano tuoi compari. Abbiamo chiamato i carabinieri di Santa Severina che ti porteranno direttamente in carcere dove potrai chiarire con il signor Pretore.
Il baro- Ma no, signora guardia, io i soldi glieli stavo solo tenendo, solo per gioco, in attesa di restituirglieli, quando è successo il finimondo. E anzi, per farvi vedere che dico la verità, ecco, i soldi glieli restituisco adesso….(rivolto a me) Quanti soldi avevi, quando sei arrivato?
Io- 450.
Il baro- Ecco 450. Anzi te ne do 500, per farti vedere che ti sono amico e non volevo fregarti.
E così dicendo mi passò un bel gruzzolo di soldi, che io contai, accorgendomi che in realtà erano 600 lire, quanto contavo di averne alla fine dell’ultima puntata, prima del patatrac.
Fu l’ultima volta che ebbi a che fare con il gioco delle tre Carte, a parte un veloce assaggio da studente all’autostazione di Romano, dove circa dieci anni dopo riuscii a farmi fregare, dal baro di turno, 500 lire. Bazzecole, ormai.
A distanza di tanti anni, nel corso della mia vita, mi è capitato spesso di ricordare queste piccole disavventure e non nascondo che, ogni volta, assieme alla delusione per i pochi soldi persi, ho sempre avvertito un senso di ammirazione per l’abilità da prestigiatore che contraddistingue questi virtuosi del gioco delle Tre Carte.
Circa 50 anni dopo dai fatti appena rievocati, mi sono ritrovato a Praga in una gita scolastica insieme con i miei studenti. In un angolo di piazza  Venceslao  notai la presenza di un banchetto con un giocatore che in un Italiano approssimativo si esibiva nel gioco delle Tre Carte. Mi avvicinai con cautela e curiosità. Non ero più un bambino, anzi….ma ero sempre affascinato dalle giravolte e dalle traversie di quel gioco per me quasi inafferrabile e ripieno di un fascino misterioso che mi attraeva.
Puntai diecimila lire, una cifra tutto sommato modesta allora. Mentre aspettavo che le carte fossero scoperte, un signore, uno zaraffa evidentemente, mi fece a qualche metro di distanza un segno con la mano, come volesse chiamarmi. A distanza di cinquanta anni, ancora una volta come quando ero bambino, alzai gli occhi senza neppure voltarmi. Li alzai forse per uno-due secondi che furono sufficienti per farmi perdere. E difatti persi, ancora una volta, come una volta, come cinquanta anni prima. Mi rassegnai e me ne andai, un po’ scornato.
 A distanza di due anni mi ritrovai, in un’altra gita scolastica, ancora una volta a Praga, in Piazza Venceslao. Guardai nello stesso angolo di due anni prima e vidi che, ancora una volta, c’era un tipo, forse sempre lo stesso, che faceva il gioco delle Tre Carte. Fui preso dal demone della rivincita e decisi di ritentare la fortuna. Puntai altre diecimila lire e tenni gli occhi fissi sul tavolo, insensibile ad ogni eventuale richiamo esterno. Penso che, se qualcuno mi avesse detto che in quel momento a cento metri di distanza era scoppiata una bomba atomica, io sarei morto lì a Praga, in Piazza Venceslao, con gli occhi fissi e sbarrati sul tavolo delle Tre Carte. Ma non scoppiò nessuna bomba atomica e non ci fu bisogno che io mi distraessi neppure per un secondo. Rimasi con gli occhi fissi sulla mia puntata e, come in un film al rallentatore, vidi il baro che scopriva lentamente le carte e ripeteva con una voce cavernosa “hai perso…hai perso…mi dispiace…”. Me ne andai, al rallentatore, come nel prosieguo del film appena iniziato, con la morte nel cuore ed ormai rassegnato. Per il resto della mia vita non avrei più tentato, non dico di vincere, ma almeno di capire il mistero di quelle mani che si movevano con la leggerezza delle ali di una farfalla e di quelle carte che si spostavano e si dileguavano con la stessa inconsistenza dei sogni. 
Ezio Scaramuzzino

* Caravaggio: I bari (1594) - Kimbell Art Museum di Fort Worth (USA)



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