Era
il mese di agosto del 1954 e di mattina, con il vestito della festa, mi
apprestavo ad uscire di casa. C’era a Scandale la festa della Madonna del
Condoleo e, come sempre in queste circostanze, avevo in tasca qualche soldino
in più. Non che potessi scialacquare, anche perché in quei tempi non poteva
scialacquare nessuno e tanto meno potevo scialacquare io, ma qualche spesuccia
in più in quel giorno di festa me la potevo permettere.
Per rassicurarmi sull’entità del mio
gruzzolo, camminavo per il corso con la
mano appoggiata sulla tasca dei calzoni, dove le monete creavano un piacevole
rigonfiamento e di tanto in tanto, quando sollevavo la mano, ne avvertivo il
dolce tintinnio. Un paio di volte mi fermai a contare i miei soldini. Tirai
fuori il gruzzolo, presi le monete e mi rassicurai. Avevo in tutto la bellezza
di 500 lire, frutto di un extra
consegnatomi quella mattina da mia
madre, ma soprattutto dovuto alle
settimanali dieci lire, che mi venivano consegnate perché io le mettessi nella
sacchetta del sacrestano alla messa domenicale, che invece io molto spesso
trattenevo per giocarmele a battimuro
con alterna fortuna e che avevo incrementato con una straordinaria vincita
proprio qualche giorno prima.
Avevo scrupolo per quei soldini che credevo
di sottrarre in maniera fraudolenta alla Chiesa ed avevo deciso, proprio per
togliermi i sensi di colpa, di andare in chiesa quel giorno a depositare
un’offerta più consistente. Volevo quasi condividere i soldi vinti con Don Renato, il
parroco, al quale sentivo di riconoscere una parziale e legittima proprietà in
ricompensa della protezione che il buon Dio mi aveva certamente accordato nel
gioco.
Evitai di correre, come facevo di solito a
quell’età, anche perché, correndo, mi riusciva difficile poggiare la mano sulla
tasca e non volevo correre il rischio di perdere qualche soldino. Scendevo
tranquillo lungo viale Puccini ed ero arrivato all’altezza dello Slargo Genuzzo,
quando vidi venirmi incontro Sarino Anastasi.
-Ezio,
dove vai?
-Vado
in chiesa, alla Messa.
-Ma
è ancora presto, manca ancora mezz’ora. Fermati, che facciamo un po’ di
battimuro.
-Non
posso, non posso…
-Ma
l’altro giorno, quando hai vinto tanto, il tempo ce l’avevi. Mi devi dare una
rivincita, anche se dobbiamo giocare io e te soli, anche per cinque minuti…..
non puoi rifiutarti o te ne faccio pentire, mi disse con tono vagamente
minaccioso.
-
L’altro giorno era l’altro giorno, oggi è oggi.
Sarino, che era molto più robusto di me, incominciò a strattonarmi ed io, per evitare
di strapazzare la mia camicia nuova, gli accordai, seppure a malincuore,
qualche minuto di gioco.
Tirammo a sorte chi doveva battere per primo
e toccò a me. Presi dieci lire dal mio gruzzolo, le famose dieci lire con
l’aratro e le spighe, e le feci rimbalzare sulla parete di una casa di fronte.
Sarino invece tirò male e le sue dieci si posarono a ridosso della parete. Per
me risultò facile vincere al tiro successivo. Il secondo giro fu iniziato da
Sarino che questa volta tirò bene e fece rimbalzare il suo decino a circa tre
metri dalla parete. Quando toccò a me, impressi molta forza al lancio, ma la
moneta ricadde a terra sul bordo, poi incominciò lentamente a rotolare e si
fermò a poca distanza dall’altra. Misurai con il palmo della mano, toccai le
due monete e rivinsi. Vinsi anche le tre volte successive: quel giorno tutto mi
andava bene.
-Ho
finito i soldi, disse Sarino. Se mi presti cinquanta lire, continuiamo.
-No,
caro. Quando uno non ha soldi, non si gioca.
E, per evitargli altre tentazioni, mi
affrettai ad allontanarmi, correndo, verso la chiesa, ove giunsi in anticipo.
C’era la possibilità, nell’attesa, di fare una partita a calciobalilla nel bar
di Benedetto Ierardi. Non fu difficile trovare un avversario per una partita in
due, con rivincita ed eventuale “bella”, da giocare al volo (cioè senza poter
fermare la palla e soprattutto senza il famoso “gancio” in zona d’attacco). Trovai
nel bar Ciccio Garieri, il quale, pur essendo figlio del sacrestano,
evidentemente quel giorno non godeva della protezione divina, perché perse le
due partite e fu costretto anche a pagarmi un gelato, che divorai in un baleno
per affrettarmi ad entrare in chiesa.
Ascoltai la Messa quel giorno con
particolare fervore. Mi sentivo protetto da Dio ed avvertivo la vaga necessità
di ricambiare in qualche modo, dimostrando riconoscenza con la mia devozione e,
soprattutto, mettendo nel sacchetto delle offerte ben cento lire, una sommetta
che non avevo mai messo in precedenza. Volevo dire al buon Dio che io non solo
lo consideravo il mio protettore, ma anche, perché no, il mio socio in affari,
dandogli giustamente la parte di sua spettanza.
All’ “Ite, Missa est” sgattaiolai fuori
dalla chiesa tra la folla che faceva ressa all’uscita e intanto, mentalmente,
facevo i conti di quanto avevo in tasca. Ero uscito con 500 lire, ne avevo vinte
50 a battimuro, ne avevo offerte 100 in chiesa, quindi avevo 450 lire:
una sommetta con cui potevo ancora permettermi qualcosa di
interessante.
Nella
piazza c’era una marea di gente. Comprai un mostacciuolo, di cui ero
particolarmente ghiotto, e poi mi misi a curiosare tra le varie bancarelle. In
un angolo della piazza, una sembrava particolarmente trascurata dalla gente ed
un tipo dall’aria piuttosto spavalda si affannava a richiamare l’attenzione dei
passanti agitando tra le mani alcune carte da giuoco.
Lo conoscevo quel tipo: era uno di Crotone
che, immancabilmente, ogni anno, alla festa della Madonna, preparava il suo
banchetto, appoggiato su uno scatolo di cartone, sempre allo stesso angolo
della piazza e lì faceva il gioco delle Tre Carte. Mi avvicinai per curiosità,
ma mantenendomi ad una certa distanza. Subito mi accorsi che due uomini si
erano avvicinati e si erano disposti dietro di me. Con movimenti pressoché
impercettibili e con piccole spinte mi fecero avvicinare sempre di più,
cosicché dopo nemmeno un paio di minuti finii col trovarmi in prima fila
proprio davanti al banchetto.
Intanto il tipo dava qualche dimostrazione,
roteando e posando tre carte, tra le quali bisognava indovinare l’Asso di
denari, e dicendo come un ritornello “questa vince e questa perde”. Il gioco
sembrava piuttosto facile e banale. Mentalmente cercavo di indovinare ed
indovinavo sempre. Non ci voleva molto a capire che il giocatore di carte ed i
suoi due compari, o zaraffi come erano comunemente chiamati, avevano puntato
gli occhi su di me, non facendosi scrupolo di spennare anche un bambino. Ma io,
che ero il pollo-bambino, non l’avevo capito e, pur non avendo voglia di farmi
spennare, ero ormai entrato perfettamente nel mio ruolo di vittima.
-Bel
bambino, non c’è bisogno di puntare soldi, voglio solo vedere se sei bravo ad
indovinare. Dov’è l’asso?, diceva.
Ed io, timidamente, alzai la mano sinistra,
mentre con la destra premevo sui soldini nella mia saccoccia, e toccai la carta
vincente. Avevo indovinato, come pensavo.
-Hai
indovinato, ma non avevi puntato e quindi non hai vinto niente.
Al turno successivo, mentre io stavo a
guardare, uno dei due zaraffi improvvisamente puntò e vinse cinquanta lire.
Vinse altre tre volte di fila, sempre cinquanta lire, e l’unica volta che perse
finse di disperarsi. Solo una volta, accortomi che quello aveva puntato male,
tirai fuori velocemente dieci lire e le puntai sulla carta giusta.
-Bravo,
bambino, sei sveglio ed hai indovinato. Ma la puntata minima è cinquanta.
Ad una puntata successiva partecipò anche il
secondo zaraffa. Mise una mano sulla carta vincente e con l’altra mano estrasse
dalla tasca posteriore il portafogli, ma, non potendo manovrare con una sola
mano, mi chiese di aprirlo e di prendere cento lire. Cosa che io feci
volentieri, consentendogli di vincere ben cento lire: cosa per me incredibile e
straordinaria. Nel mentre, con fare furtivo, io cercavo di avere pronte con la
mano in tasca le mie cinquanta lire, i due zaraffi continuavano a vincere. Ad
una puntata successiva, individuata la carta giusta, aggiunsi improvvisamente
il mio cinquantino ai soldi dei due zaraffi.
-Bravo,
bel bambino, le regole del gioco non permettono che tutti puntino sulla stessa
carta. Il terzo viene escluso. Ma con te voglio fare un’eccezione. Hai vinto.
E ricevetti cinquanta lire. Riavevo in tasca di
nuovo 500 lire. Ero sbalordito. Non mi sembrava vero che si potesse vincere
tanto con un gioco che mi sembrava addirittura sciocco nella sua semplicità.
Oltre tutto mi ero convinto che quella era una persona per bene, che non
imbrogliava, che non approfittava della mia età, e con cui si poteva giocare
lealmente. Bisognava solo fare attenzione alla due carte tenute nella mano
destra, che non sempre egli poneva sul tavolo nello stesso ordine con cui apparivano.
Ma lo faceva in maniera così lenta ed evidente che non creava particolari
difficoltà. Almeno a me, o almeno così credevo.
Per il turno successivo mi tenni pronte
in mano 150 lire: i due zaraffi ed il giocatore dovevano essersene accorti e
prepararono la prima trappola. I due si astennero dal giocare ed il baro posò
le carte con la solita flemma. Con il cuore in tumulto puntai 150, ma ero
sicuro di vincere. Mi distrassi solo un attimo quando qualcuno gridò che
c’erano le guardie lì vicino e girai la testa forse per uno-due secondi. Quando
le carte furono scoperte, dovetti amaramente constatare che l’asso di denari
non era dove io avevo puntato e che in una sola botta il mio gruzzolo si era
ridotto a 350 lire. Ma non mi diedi per vinto. Giocai 50 lire e vinsi: gruzzolo
a quota 400. Poi puntai 100, mentre i due compari non giocavano più. Persi:
gruzzolo a quota 300.
Non mi rassegnai a perdere e decisi di giocare
il tutto per tutto. Bisognava solo stare attenti ai virtuosismi della mano
destra. Rimasi attentissimo. Forse con la testa mimavo addirittura i movimenti
della mano destra del baro. Puntai le 300 lire che mi erano rimaste ed ero
sicuro di vincere, non potevo non vincere. Mentre ero in attesa che venissero
scoperte le carte, la stessa voce di prima gridò che c’erano le guardie. Questa
volta non mi girai e non mi distrassi, ma non servì a niente. In un attimo vidi
che uno dei due compari diede un calcio allo scatolo di cartone che reggeva il
banchetto, mentre l’altro arraffava i soldi che avevo puntato e tutto finiva
per terra.
Nella calca che ne seguì fui travolto e
calpestato dal baro che stava scappando e rimasi a terra dolorante e con un po’
di sangue che mi colava dal labbro. Quando mi rialzai, vidi davanti a me don
Amedeo Cizza, la guardia comunale, come allora si chiamava la polizia locale,
che mi prese per mano e mi condusse con sé al piano terra del Municipio, che si
trovava a pochissima distanza e dove ritrovai anche i tre compari della mia
disavventura, nel frattempo bloccati da un’altra guardia.
Con qualche lacrima che mi colava lungo il
viso, riuscii a raccontare quello che mi era successo.
Io-Ero
appena uscito dalla chiesa, quando mi sono avvicinato al banchetto del gioco.
Ho puntato le mie ultime 300 lire, ma è saltato via tutto perché quel signore
ha dato un calcio allo scatolo del banchetto e mi sono ritrovato per terra,
senza capire più niente.
Il
primo compare- Io non ho dato un calcio allo scatolo. Lo scatolo è caduto da
solo perché era mal posto ed il banchetto è crollato sullo scatolo. E’ vero che
ho alzato il piede, ma solo per reggere il banchetto, non per farlo cadere.
Il
secondo compare- Io ho preso le 300 lire, è vero, ma solo per ridargliele ed
evitare che nella confusione potessero finire per terra e perdersi.
La
guardia Cizza- E voi vi siete approfittati di un bambino?!
Il
baro- Signora guardia, intanto ci tengo a precisare che questi due signori, che
avete messo accanto a me, non sono miei compari e proprio non li conosco. Per
il resto io sapevo bene di avere a che fare con un bambino e stavo giocando con
lui ma solo su sua richiesta e per scherzare, per passare il tempo.
La
guardia Cizza- E tu, per passare il tempo, gli hai fregato quasi 500 lire? Così
passi il tempo tu? Quanto a quei due lo stabilirà il signor Pretore se erano o
non erano tuoi compari. Abbiamo chiamato i carabinieri di Santa Severina che ti
porteranno direttamente in carcere dove potrai chiarire con il signor Pretore.
Il
baro- Ma no, signora guardia, io i soldi glieli stavo solo tenendo, solo per
gioco, in attesa di restituirglieli, quando è successo il finimondo. E anzi,
per farvi vedere che dico la verità, ecco, i soldi glieli restituisco
adesso….(rivolto a me) Quanti soldi avevi, quando sei arrivato?
Io-
450.
Il
baro- Ecco 450. Anzi te ne do 500, per farti vedere che ti sono amico e non
volevo fregarti.
E
così dicendo mi passò un bel gruzzolo di soldi, che io contai, accorgendomi che
in realtà erano 600 lire, quanto contavo di averne alla fine dell’ultima
puntata, prima del patatrac.
Fu l’ultima volta che ebbi a che fare con il
gioco delle tre Carte, a parte un veloce assaggio da studente all’autostazione
di Romano, dove circa dieci anni dopo riuscii a farmi fregare, dal baro di
turno, 500 lire. Bazzecole, ormai.
A distanza di tanti anni, nel corso della
mia vita, mi è capitato spesso di ricordare queste piccole disavventure e non nascondo
che, ogni volta, assieme alla delusione per i pochi soldi persi, ho sempre
avvertito un senso di ammirazione per l’abilità da prestigiatore che
contraddistingue questi virtuosi del gioco delle Tre Carte.
Circa 50 anni dopo dai fatti appena rievocati,
mi sono ritrovato a Praga in una gita scolastica insieme con i miei studenti.
In un angolo di piazza Venceslao notai la presenza di un banchetto con un
giocatore che in un Italiano approssimativo si esibiva nel gioco delle Tre
Carte. Mi avvicinai con cautela e curiosità. Non ero più un bambino, anzi….ma
ero sempre affascinato dalle giravolte e dalle traversie di quel gioco per me
quasi inafferrabile e ripieno di un fascino misterioso che mi attraeva.
Puntai diecimila lire, una cifra tutto
sommato modesta allora. Mentre aspettavo che le carte fossero scoperte, un
signore, uno zaraffa evidentemente, mi fece a qualche metro di distanza un
segno con la mano, come volesse chiamarmi. A distanza di cinquanta anni, ancora
una volta come quando ero bambino, alzai gli occhi senza neppure voltarmi. Li
alzai forse per uno-due secondi che furono sufficienti per farmi perdere. E
difatti persi, ancora una volta, come una volta, come cinquanta anni prima. Mi
rassegnai e me ne andai, un po’ scornato.
A
distanza di due anni mi ritrovai, in un’altra gita scolastica, ancora una volta
a Praga, in Piazza Venceslao. Guardai nello stesso angolo di due anni prima e
vidi che, ancora una volta, c’era un tipo, forse sempre lo stesso, che faceva
il gioco delle Tre Carte. Fui preso dal demone della rivincita e decisi di
ritentare la fortuna. Puntai altre diecimila lire e tenni gli occhi fissi sul
tavolo, insensibile ad ogni eventuale richiamo esterno. Penso che, se qualcuno
mi avesse detto che in quel momento a cento metri di distanza era scoppiata una
bomba atomica, io sarei morto lì a Praga, in Piazza Venceslao, con gli occhi
fissi e sbarrati sul tavolo delle Tre Carte. Ma non scoppiò nessuna bomba
atomica e non ci fu bisogno che io mi distraessi neppure per un secondo. Rimasi
con gli occhi fissi sulla mia puntata e, come in un film al rallentatore, vidi
il baro che scopriva lentamente le carte e ripeteva con una voce cavernosa “hai
perso…hai perso…mi dispiace…”. Me ne andai, al rallentatore, come nel prosieguo
del film appena iniziato, con la morte nel cuore ed ormai rassegnato. Per il
resto della mia vita non avrei più tentato, non dico di vincere, ma almeno di
capire il mistero di quelle mani che si movevano con la leggerezza delle ali di
una farfalla e di quelle carte che si spostavano e si dileguavano con la stessa
inconsistenza dei sogni.
Ezio Scaramuzzino
* Caravaggio: I bari (1594) - Kimbell Art Museum di Fort Worth (USA)
Nessun commento:
Posta un commento