L’asino è stato per molti aspetti l’animale più
comune e più in vista durante la mia infanzia e la sua apoteosi coincideva con
la festa della Madonna del Condoleo, che a Scandale si celebrava annualmente,
ad agosto.
L’ultimo giorno della festa c’era la gara
degli asini, nella quale i primi arrivati vincevano di solito qualche provolone
e qualche chilo di salsicce.
La modestia dei premi non escludeva però un
certo accanimento, perché già allora nessuno si faceva scrupolo di avvalersi di
accordi più o meno segreti e di sotterfugi. A lungo si parlò di un concorrente
che, pur di danneggiare il favorito, si presentò con una giovane asina in
calore, che sconvolse tutti i piani e finì col favorire la vittoria di un
vecchio ronzino, molto avanti negli anni ed evidentemente insensibile al
fascino della signorina asina.
Tra gli eterni favoriti, uno in particolare
era considerato una sorta di idolo. In realtà gli idoli erano due: lui perché
era bravo a cavalcare, l’asino perché era bravo a correre. Lui si chiamava Peppino
Biafora ed abitava non molto lontano da casa mia. Chiamava il suo asino
Ponente, forse per attribuirgli la velocità del vento, e lo custodiva in una
stalla a fianco della sua abitazione.
Nei primi anni Cinquanta, Peppino e Ponente
erano diventati dei miti nel mio quartiere, dove i due erano assurti quasi a
simboli della nostra gloria sportiva.
I due avevano vinto una serie ininterrotta
di primi premi, quando, nel 1956, il mito improvvisamente crollò, rovinando nel
baratro dell’ignominia.
Si era a Luglio e dal balcone di casa mia
era sempre possibile vedere Ponente
tenuto a pascolare liberamente nei campi. Di lì a poco ci sarebbe stata
la festa e per Ponente quel pascolo tranquillo costituiva una sorta di
preparazione psico-fisica alla gara. Verso sera il figlio di Peppino, Carletto,
immancabilmente, andava a recuperarlo.
Una sera lo vidi rientrare con l’asino,
mentre lui con una mano lo teneva dalla coda, in una posizione molto vicina
alla giunzione col deretano, e con l’altra dava l’impressione di accarezzarlo
amabilmente.
-Carletto,
che dici? Ce la facciamo pure quest’anno a vincere?
-Certo
che ce la facciamo. Come negli ultimi anni del resto.
-Ma
Ponente incomincia ad invecchiare. A proposito quanti anni ha?
-Ha
vent’anni, ma è come se ne avesse dieci di meno.
-Mah!
So che quest’anno ci sono concorrenti nuovi e temibili. Speriamo bene.
-Tranquillo!
Anzi, sai che ti dico? Considerati già invitato alla mangiata dopo la vittoria.
-Ah,
grazie. Ciao.
-Ciao.
E venne il giorno della gara. Di fronte alla
chiesa madre erano allineati quindici asini, senza bardatura e con in groppa i
rispettivi padroni, che una volta all’anno si improvvisavano fantini. Gli asini
sembravano aspettare placidamente, mentre tutt’intorno c’era fermento e
confusione. Mi avvicinai a Ponente e mi capitò di ascoltare casualmente un
fitto scambio di battute tra Peppino ed il figlio Carletto, del quale lì per lì
non capii niente.
-
Hai tutto pronto?
-
Sì, tutto pronto.
-
E dove ce l’hai?
-
In tasca. In una bustina.
-
Hai preso il migliore che c’era?
-
Certo. Non sono scemo.
-
A quella curva che t’ho detto. Dietro il cespuglio.
-
Ho capito.
-
Vai, corri, corri…
Le
contestazioni sulla posizione di partenza si protrassero a lungo e quando, dopo
più di mezz’ora, il segnale fu finalmente
dato, gli asini partirono. Lungo le strade polverose si stentò a vedere o a
capire qualcosa di preciso. Ma una cosa fu chiara fin da subito: Ponente era in
difficoltà e sembrava arrancare vistosamente, in ultima posizione.
Mancava ancora più di un chilometro alla
conclusione della corsa, quando, in una curva defilata e seminascosta, da uno
spettatore solitario Carletto fu visto avvicinarsi velocemente all’asino,
accarezzarlo misteriosamente all’altezza della giuntura della coda e poi
allontanarsi furtivamente, guardandosi attorno.
All’uscita da quella curva, Ponente
incominciò a correre come un forsennato. Riguadagnò il terreno perduto,
bevendosi gli altri concorrenti man mano che li raggiungeva, e batté l’ultimo
rivale quasi sul filo di lana, riuscendo a vincere.
Anche in quel 1956 Ponente sbaragliava gli
avversari e Peppino si portava a casa il premio che quell’anno era
particolarmente generoso, prevedendo, oltre al solito provolone, anche
un’intera porchetta, già pronta e da consumare con gli amici.
-Evviva
Peppino, evviva Ponente!, si sentiva gridare da più parti, mentre il comitato
organizzatore della gara proclamava ufficialmente i vincitori.
Si formò un corteo: una corona di fiori fu
posta al collo di Peppino, mentre al collo di Ponente fu posta una più opportuna
corona di biada. Peppino procedeva lentamente in groppa al suo asino,
immediatamente seguito da quattro portantini che su una rudimentale barella di
legno esibivano in bella mostra il provolone e la porchetta. Chiudeva un codazzo
di gente che, già pregustando l’abbuffata imminente, si lasciava andare a lazzi
e sfottò nei confronti degli avversari sconfitti.
-Viva
la Colla! [il nostro quartiere], gridava qualcuno
-Abbasso
il Chiano e Genuzzo! [altri quartieri rivali]
-Viva
Peppino! Viva Ponente!
-Per
il Chiano e Genuzzo finita la pacchia!...Una bella pernacchia…, gridavano
alcuni rimatori estemporanei, che poi concludevano con pernacchie terrificanti.
Ma tra gli avversari sconfitti c’era chi non
si dava pace e, su imbeccata di quell’uno che aveva visto, presentò un ricorso
al comitato organizzatore.
Il presidente del comitato si vide
consegnare un reclamo scritto a mano e firmato da tutti gli altri concorrenti,
nel quale si leggeva:
Al Presidente onorabile del
Comitato della gara della Madonna.
Noi partecipanti facciamo
ricorso contro il vincitore, perché c’è qualche cosa che non va. Perché
qualcuno ha visto il figlio del vincitore avvicinarsi alla coda dell’asino e
manovrare. E perciò chiediamo un controllo sull’asino, possibilmente di un
veterinario o di un fabbro ferraio che fa lo stesso, e se non si fa il controllo subito scoppia una
rivoluzione.
Fu dato incarico di procedere ad una visita
corporale dell’asino al fabbro ferraio del paese, mastro Armando Gentile.
Costui, seguito da un codazzo di persone tumultuanti della fazione che aveva
presentato il ricorso, si recò a casa del vincitore, dove fervevano i
preparativi per la gozzoviglia, e, sventolando in aria l’incarico scritto, si
fece consegnare l’asino; subito dopo, in uno strano silenzio immediatamente
prodottosi, diede inizio alla visita.
Infilò prima di tutto un paio di guanti, un
po’ sdruciti, ma che gli conferivano un aspetto professorale, poi si fece largo
tra i presenti ed incominciò. Gli guardò prima di tutto la bocca, ma non notò
nulla di particolare, a parte i denti ancora impastati di biada. Poi passò agli
zoccoli ed anche qui vide che tutto era a posto. Quindi pose un orecchio su
vari punti della pancia dell’animale e non auscultò nulla che potesse apparire
anormale. Infine, su insistenza di alcuni astanti che protestavano, passò
all’esame della coda e delle parti posteriori.
Si convinse che anche la coda era a posto,
ma non poté fare a meno di notare che il sottocoda, in particolare nella parte
che coincideva con la giuntura al deretano, era chiaramente arrossato. Poi notò
che era ancora più arrossata la zona perianale e, per convincersi meglio, fece
girare l’asino in modo che il suo didietro fosse esposto più direttamente ai
raggi del sole. Alla vivida luce del giorno vide che qualcosa di non meglio
precisato fuoriusciva leggermente dall’orifizio anale e si chiese che cosa
potesse essere. Infilò leggermente due dita ed estrasse con precauzione.
Non c’erano più dubbi: quel qualcosa che
egli aveva estratto e che ancora teneva stretto tra due dita era semplicemente
il residuo, la buccia o la parte terminale di un grosso peperoncino, tra
l’altro della specie più piccante in assoluto.
Lo consegnò al Presidente, che lo aveva
seguito con attenzione nel corso dell’ispezione corporale e quest’ultimo,
seduta stante e senza perdere tempo, prese le sue decisioni. Si rischiarò la
gola con due colpetti di tosse e ad alta voce gridò:
-Considerato
che è assolutamente proibito fornire agli animali droghe che possano in
qualunque modo alterare il loro rendimento durante la gara, squalifico il
vincitore, confisco i premi attribuiti e li assegno al secondo arrivato.
Lascio immaginare quel che successe.
Parolacce, grida, spintoni ed anche qualche
scazzottata tra le opposte fazioni. Nella confusione generale molta gente cercò
comunque di conquistare un po’ di cibarie e quel provolone e quella porchetta
finirono smembrati, spezzettati ed in parte anche calpestati e dispersi.
Io stesso, sgattaiolando tra le gambe dei
litiganti, ero riuscito a procurarmi un’intera coscia della porchetta. Avevo
ancora un livido sulla fronte, soffrivo per qualche botta rimediata e, mentre
ritornavo a casa, stavo rimuginando su quel dialogo concitato tra Peppino e
Carletto prima della partenza, che improvvisamente mi si schiarì e mi indusse
ad un amaro sorriso. Il livido, la sofferenza e l’amarezza non mi impedirono
comunque di rivolgere la mia attenzione alla porchetta trafugata, che
incominciai a piluccare prima con calma e poi a mangiare quasi con voluttà,
continuando a sorridere tra un boccone e l’altro. Di quel pasto fuori ordinanza
e di quella giornata memorabile ancora oggi, a distanza di tanti anni, conservo
il gusto ed un piacevole ricordo.
Ezio Scaramuzzino
Gennaio 2022
È un racconto che mette in luce,
RispondiEliminacon uno stile piacevole, antiche usanze che si sono perse col tempo e con la modernità. Per coloro che hanno vissuto quei tempi, è un dolce ricordo, per i più giovani invece, un arricchimento culturale sulle condizioni del nostro meridione.