lunedì 23 aprile 2012

Gli anni perduti (Racconto) di Ezio Scaramuzzino



Sono al paese, che non rivedo da un po’ di tempo. Non mi è facile trovare un posteggio, cosa una volta facilissima. Giro tutt’intorno, in lungo e in largo, e alla fine  trovo un angolino in piazza Oberdan, di fianco alla colonnina del carburante, dove una volta le auto si fermavano a fare il pieno con un paio di migliaia di Lire. Gaetano Citriniti, il gestore, interrompeva ogni altra attività del suo multiforme esercizio commerciale ed accorreva ogni volta che qualche autista impaziente lo chiamava a colpi di clacson. Ricordo le risate tra amici, quando qualcuno raccontava del contadino che, vista per la prima volta quella colonnina che misurava il carburante con delle lancette, si fermò a regolare il suo orologio. Ora Gaetano non c’è più, anche la pompa di benzina sembra abbandonata ed è chiusa anche la porta di quella sua cantina, dove una volta tanti paesani andavano a bere un bicchiere di vino, magari con un rametto di sedano che faceva capolino da una delle tasche della giacca.
Fa molto caldo e il sole picchia in maniera inclemente sulle persone e sulle cose. Ho bisogno di un po’ d’ombra e mi dirigo sul lato opposto della piazza, sulla veranda, dove una volta era l’ingresso del Bar Centrale. In quel bar, ancora ragazzo, ho giocato le mie prime partite di Terziglio e, insieme con gli amici di un tempo, ho dato alimento ai primi sogni della mia vita. Lì ho conosciuto alcune persone, che ricordo ancora con gratitudine e simpatia, come l’avvocato Giuseppe Barca  o il truffatore Cesarino Moncalvo. Lì ho trascorso una parte della mia giovinezza ad osservare il passeggio sulla piazza antistante o a scambiare quattro chiacchiere con Gigi Paparo, il proprietario del bar. Gigi gestiva contemporaneamente il bar ed un negozio di alimentari posto sul retro e correva da una parte all’altra, sempre con una biro appoggiata sull’orecchio destro, che afferrava velocemente  per fare conti e riponeva subito dopo in miracoloso equilibrio. Quando c’erano pochi avventori ed il lavoro era ridotto al minimo, Gigi ne approfittava per leggere la sua immancabile ed amata Domenica del Corriere, che teneva sempre al suo fianco e che metteva a disposizione dei clienti solo quando usciva il nuovo numero. Ricordo ancora con affetto Gigi, che sarebbe scomparso prematuramente, lasciando nel dolore la moglie e i tre figli.
Sulla veranda non ci sono più le sedie e i tavolini di un tempo e la porta di ingresso è malinconicamente chiusa. Mi siedo all’ombra sul marciapiede antistante e osservo da lontano, sul lato opposto della piazza, le finestre e la porta chiusa del Bar Sportivo. Solo l’insegna in alto, scolpita in cemento, ricorda che lì c’era un altro ritrovo di noi giovani, che vi andavamo a giocare al flipper o al calcio balilla. Il gestore era un giovane come noi, Gaetano, e passava più tempo con noi a giocare, che dietro il bancone a servire i rari clienti. Si giocava molto al flipper allora e il premio per il vincitore dei vari tornei era quasi sempre una piccola torta Fiesta, che vinsi più di una volta, suddividendola poi con gli amici e bevendoci sopra un bicchiere di birra. Gaetano un giorno, assunto come vigile urbano, avrebbe cessato di fare il barman, preferendo giustamente lo stipendio modesto, ma sicuro, alla fine del mese, piuttosto che gli incassi aleatori della sua attività commerciale.
Mi alzo  e mi incammino lungo viale Puccini, la strada della mia fanciullezza. Su quella strada abitavano i Garieri, i De Biase, i Tallarico. Vedo venirmi incontro Peppe Coriale, detto “’U Zaré”. Faccio un rapido calcolo e penso che dovrebbe essere ultracentenario , mentre la sua immagine sembra essersi fermata  al tempo di quando io ero bambino. Mi sorride e io ricordo di quando, ragazzo, sotto un grande albero posto di fronte casa mia, in Estate,  gli leggevo la novella di Mazzarò e lui ascoltava incantato ed affascinato. E non si stancava mai e mi chiedeva di leggergli e raccontargli ancora una volta la novella di Mazzarò, che da uomo povero e miserabile era finito col diventare il padrone di tutto il paese. Questa volta però Peppe non mi chiede di raccontargli ancora una volta quella storia. Mi tocca sulle braccia, come se volesse controllare la mia consistenza, poi si limita ad accennare un saluto con la mano e infine, silenziosamente, scivola via. Mi giro indietro a seguire con lo sguardo il suo cammino e non lo vedo più, come se  si fosse dissolto nella nebbia del tempo.
Arrivo allo spiazzo antistante la cappelletta di San Leonardo. Nella luce accecante del primo pomeriggio ho l’impressione di vedere sull’uscio di casa Nonna Betta, vispa e incline a scherzare un po’ con tutti, ma che non sopportava in alcun modo gli schiamazzi e gli strilli dei bambini. Quante storie con lei e quante fughe, quando  ci inseguiva con la scopa e ci costringeva ad interrompere i nostri giochi! Altri tempi e altri trastulli, quelli della mia fanciullezza, quando ci bastava poco per essere felici e un semplice ramo appuntito bastava a farci sentire invincibili come Zorro. Costruivamo degli aquiloni ritagliando la carta dei giornali, che poi incollavamo con farina e acqua. Eppure quegli aquiloni, incredibilmente pesanti, volavano e si libravano in aria leggeri come farfalle: forse erano sospinti in alto  dai nostri desideri di fanciulli che si affacciavano alla vita. Mi volto  a guardare ancora nonna Betta, ma l’uscio è deserto e ho l’impressione di avvertire soltanto il cigolio lamentoso di  un’anta che sembra richiudersi su se stessa. 
Sulla sinistra, ad una biforcazione, c’è un viale che porta all’edificio scolastico, dove tanti anni fa ho mosso i primi passi di insegnante. Non opero alcuna scelta nel decidere la mia direzione e  muovo i miei passi verso quel viale. Non so perché succeda: forse sono alla ricerca della mia identità perduta, forse voglio solo recuperare le ombre e i fantasmi di una vita che non c’è più. Sollevo gli occhi e vedo una signora che mi sorride e mi saluta. Qualche piccola ruga che increspa il suo volto non mi impedisce di riconoscerla:è Marilù. Mi prende sottobraccio  e mi invita dolcemente a ritornare indietro. Vorrei farle tante domande, chiederle dove si trova, dirle che l’ho ricordata a lungo, ma mi accorgo che un pizzico di emozione, ancora dopo tanti anni, mi rende impreparato e incredulo. Camminando, ci guardiamo in silenzio: lei è ancora bella, come una volta, come in quella Primavera di tanti anni fa, quando entrambi eravamo meravigliati della nostra felicità e procedevamo insieme, senza sapere e senza preoccuparci di quello che la vita ci avrebbe riservato. Quando ci fermiamo, Marilù si stacca dolcemente dal mio braccio, mi accarezza il volto, continua a sorridere, si allontana e infine sembra dissolversi, ombra tra le ombre. Non la vedo più.
Affronto una leggera salita, quella che  porta verso la strada Nazionale. Ho voglia di fermarmi un pochino e mi appoggio ai tubi e al muretto basso dove una volta, in Estate, ascoltavamo tutti insieme le avventure dell’avvocato Barca. Vedo arrivare in lontananza Romano, Romano Cizza, e ho un tuffo al cuore. Quanti giorni della nostra vita abbiamo trascorso insieme! Quanti ricordi! Caro Romano! Come è possibile che tu sia qui? Viene con decisione verso di me e, quando mi è accanto, gli chiedo degli altri. Gli dico che ogni tanto vedo Totò al paese, ma gli altri, gli altri certo, Ciccio e Nino Simbari, Ciccio Rizzuto, e Totò Rizzuto, “il capitano” come lo chiamavamo, e Leonardo e Mimmo, e tutti gli altri, dove sono? Eravamo partiti  insieme, quasi tenendoci per mano, per affrontare meglio le tempeste e poi ci siamo persi, lungo le strade e i sentieri della vita. Romano mi sorride mestamente, ma non parla e si avvia da solo lungo la strada. Istintivamente mi viene voglia di seguirlo, per fargli altre domande, per chiedergli se ha qualche rimpianto, qualche desiderio. Vorrei anche chiedergli se ha  qualche segreto da svelarmi ora che, nella sua condizione, avrà certamente capito  il senso della vita e ancora  se si trova bene dove si trova. Romano si gira improvvisamente, mette un dito sulle labbra, come per suggerirmi il silenzio, e con la mano mi fa chiaramente capire che non debbo seguirlo.
Avverto un senso di smarrimento e di vertigine e, mentre mi appoggio ai tubi del muretto basso, chiudo strettamente gli occhi. Li riapro con fatica, perché la luce del sole intorno è ancora abbagliante, e vedo che accanto a me c’è un bambino. Avrà sei o sette anni quel bambino e mi guarda con l’atteggiamento di un monello di strada, quasi con un senso di sfida. Poi mi fa marameo con la mano sinistra, puntando il pollice sul suo nasino affusolato e con la destra accenna un saluto. Lo osservo con attenzione: ha i capelli castani, qualche ricciolo in testa, le guance paffute, dei pantaloncini  sporchi di sabbia, un ginocchio sbucciato, una fionda che fa capolino dalla tasca posteriore.”Mi riconosci?”, mi chiede. Gli rispondo gentilmente che, purtroppo, non so chi sia. E lui ancora: “Possibile che non mi riconosci?”. Lo guardo ancora e noto che sulla palpebra sinistra ha una piccola cicatrice, quasi impercettibile. E allora lo riconosco: è lui, giunto fino a me attraverso i  sentieri del tempo e dello spazio. Allungo una mano e gli scompiglio affettuosamente i capelli, lo accarezzo, prendo la sua piccola mano.
Vorrei tanto trattenerlo con me, perché l’ho tanto cercato. Ma in lontananza appare una giovane donna  e mi accorgo che ci sta osservando. Una strana ed improvvisa folata le scompiglia i capelli che ondeggiano al vento. Lei si aggiusta i capelli e con una voce dolcissima chiama a lungo: ”Ezioooooo…”. Rivedo in un attimo, come in un flashback, la mia vita, gli anni perduti. Il bambino lascia dolcemente la mia mano. “Debbo andare”, mi dice. Poi se ne va e si dirige verso quella giovane donna, porgendole la sua piccola mano. Entrambi si avviano, si girano indietro per l’ultima volta, come per un ultimo saluto, poi si allontanano e spariscono nel nulla.
Ezio Scaramuzzino

martedì 3 aprile 2012

La guerra dei fuochi (Racconto) di Ezio Scaramuzzino


La guerra dei fuochi
Il 19 marzo, festa di San Giuseppe, al paese ogni rione accendeva il fuoco, ma i preparativi  incominciavano qualche giorno prima. Nel rione Colla, che era il mio, soprattutto i bambini eravamo in fermento da almeno una settimana. Bisognava raccogliere legna e frasche, in abbondanza, perché era considerato vergognoso approntarne uno  modesto e ancora più vergognoso risultare l’ultimo rione nella classifica dei falò. All’uscita da scuola, tutti i bambini ci ritrovavamo insieme a scorazzare in lungo e in largo sulle colline dei dintorni. Raccoglievamo sterpaglie e cespugli  e non disdegnavamo di spezzare rami e talvolta di abbattere modesti alberelli che con la loro presenza avevano contribuito a spezzare l’aridità di quelle lande desolate. Anche gli adulti e le donne spesso davano una mano, per il prestigio del rione e con la segreta speranza che il proprio fuoco alla fine sarebbe durato più degli altri, oltre a risultare il più bello e il più grande.  Verso l’ora del tramonto si potevano vedere lunghe file  di persone che ritornavano in paese portando  a spalla fascine  di legna. Tutto veniva poi depositato in luoghi preposti, dove si formavano cataste che crescevano a vista d’occhio, giorno dopo giorno.
Ma non  finiva qui. Dopo aver depositato la legna, erano necessari dei turni di guardia, anche durante la notte, perché era considerato lecito rubare quella degli altri, se rimaneva incustodita, e non era ritenuto vergognoso rimediare botte in eventuali tentativi di furto andati a male.  Ovviamente per questi compiti di sorveglianza si facevano avanti sempre i ragazzi più robusti, i quali, oltre a dar prova di coraggio, consideravano un onore il poter difendere in tal modo la “proprietà” ed il buon nome del rione. Si formava ogni anno una vera e propria classifica. Franco, mio cugino, era il capo riconosciuto dei sorveglianti: era lui a distribuire responsabilità e turni di guardia. In tale classifica io mi ero rassegnato ad occupare sempre uno degli ultimi posti. Ero più piccolo d’età e poi ero gracile e scarsamente incline alla violenza, tanto che, le poche volte che facevo a botte, riuscivo sempre ad avere la peggio ed a ritornarmene a casa piangendo.    Ma non potevo rifiutare i turni di guardia e quando Franco, che pure spesso mi risparmiava qualche compito particolarmente gravoso, mi assegnò il turno  della vigilia, non battei ciglio ed accettai. Avevo un po’ di timore, perché in quella notte  le cataste di legna erano al massimo e richiedevano grande attenzione, ma  con me c’erano anche Franco ed Albertino, un altro ragazzo che non gli era da meno.
Quella sera, dopo la cena, dissi chiaramente che durante la notte avrei  sorvegliato la legna di San Giuseppe. Mia madre non si oppose, ma mi obbligò a infilare un altro maglione sopra quello che normalmente portavo, mi procurò un berretto di lana e si limitò a darmi qualche consiglio, raccomandandomi soprattutto di trovare un buon riparo e di non prendere troppo freddo. Verso le 11 mi ritrovai con Franco e Albertino a dare il cambio al turno precedente. Su un fianco della catasta era stata ricavata una sorta di grotta, nella quale ci mettemmo al riparo, mentre le frasche tutte attorno ci proteggevano un pochino dal freddo della notte. Albertino aveva portato una grossa pila, rimediata chissà dove, che tenevamo accesa per far sapere ad eventuali “visitatori” che “noi c’eravamo”. Parlammo a lungo quella notte, per evitare di addormentarci e Franco ci intrattenne con storie di fantasmi e di morti, che contribuirono non poco a tenerci svegli. Verso le tre del mattino, la pila, ormai esaurita, si spense, mentre  Franco ed Albertino, che avevano  cessato di lottare contro il sonno, si erano addormentati. Io cercavo ostinatamente di tenere gli occhi aperti e ci riuscivo solo perché ero rimasto abbastanza scosso dai racconti di Franco.
In questo dormiveglia credetti di sentire, anzi sentii distintamente un rumore attutito di passi. Poi sentii delle voci sommesse e non mi ci volle molto a capire che c’erano dei “visitatori”. Senza gridare, diedi uno strattone ai miei due compagni e li svegliai subito. In silenzio sgattaiolammo fuori della grotta e vedemmo  un gruppo di ragazzi,  riconosciuti distintamente come provenienti dal rione Chiano, che stavano portando via legna e frasche. Erano cinque o sei quei ragazzi ed erano capeggiati da Salvatore Drappi, autentica ira di Dio e famoso  per quanto era considerato pericoloso:bastava la sua presenza per tenere alla larga dal suo rione tutti gli altri ragazzi del paese, che, quando lo vedevano da lontano, a volte preferivano perfino cambiare  strada. Ma quella sera Salvatore non ci fece paura.  Sarà stata l’incoscienza, ma ci mettemmo a gridare e ci lanciammo a corpo morto contro quei ragazzi, che in un primo momento presero a lottare per difendere quel che avevano rubato, ma poi, ad un fischio lanciato da Salvatore, abbandonarono tutto e se la diedero a gambe. Eravamo esausti, ma felici per essere riusciti a sventare il colpo,  e stavamo riportando indietro la legna trafugata, quando mi accorsi di avvertire una strana sensazione di calore sul volto. Mi toccai con una mano e mi accorsi che il mio volto era pieno di sangue, anzi capii quasi con terrore che da un occhio non ci vedevo più.
Mi misi a correre verso casa, mentre Franco e Albertino mi correvano dietro. Caddi perché non ci vedevo bene, poi mi rialzai e ripresi a correre, ma caddi un’altra volta  e allora quei due, piangendo, mi sollevarono, mi presero in braccio e mi  portarono fino a casa. Quando mia madre, svegliata dalle grida e dai pianti, vide il mio volto lordo di terra e di sangue, lanciò un grido lungo e straziante, che mi sarebbe rimasto nel cuore per il resto della vita. Fui portato a braccia, di notte, dal medico Mauro, che per noi del paese allora era tutto. Egli era il  medico, il chirurgo, il farmacista, ma era anche un padre, una madre, uno zio affettuoso, al quale ricorrere per ogni esigenza. Il medico non si spazientì quella notte, per essere stato svegliato a quell’ora:con calma e premura mi ripulì il volto e vide che sulla palpebra sinistra avevo una ferita, da cui sgorgavano numerose gocce di sangue. Mi suturò la ferita ed io non emisi neppure il più piccolo lamento, tanto ero atterrito.
La sera successiva, gli altri ragazzi accesero il fuoco di San Giuseppe. Dopo circa mezz’ora arrivai anche io, con una benda che mi ricopriva la sutura, ma mi fasciava anche la testa, come  un turbante. Tutti avevano saputo degli incidenti della notte e mi osservavano con curiosità. E io avanzavo e giravo intorno al fuoco con lentezza, quasi volessi assaporare intensamente  il mio   momento di gloria. Guardavo  a mia volta gli altri e mi veniva  voglia di dire che, se essi avevano potuto accendere il fuoco e godere delle sue fiamme e del suo calore, lo dovevano a me, che avevo lottato per quel fuoco e per quelle fiamme. Poi vidi il gruppo dei miei compagni tutti assieme, in piedi  e stranamente silenziosi: mi sentivo come un generale che passa in rassegna le sue truppe. Ma fu un attimo. Tutti insieme, gridando, corsero verso di me e mi abbracciarono. Poi ci unimmo ai  cori delle donne che invocavano  San Giuseppe:

San Giuseppi, mastro d’ascia, chi facia tavuti e casci, li facia senza dibruni , San Giuseppi ni pirduna.
E nu m’indi vaiu di ccà, si la grazza nun mi fa,e fammilla, Madonna mia, chi ‘ndaiu ‘na grandi necessità.

Qualcuno ballava, accompagnato dalla  fisarmonica di Silvio Scalise, considerato allora al paese insuperato ed insuperabile fisarmonicista, mentre altri pensavano ad alimentare il fuoco.  Ad un certo punto arrivò il convito, cioè un pentolone di pasta e ceci, accompagnato da altre cibarie: era  il culmine della festa. A distanza di tanti anni, ricordo ancora quella pasta e quei ceci, così squisiti, così gustosi, che non avrei mai più mangiato per il resto della vita. Poi a gruppi ci si spostava nei vari rioni, per vedere i fuochi degli altri, per mangiucchiare qualcosa e alla fine compilare quella classifica ideale, che non vedeva vincenti e perdenti, ma tutti ci accomunava nel gioco della vita, dove ogni cosa  era semplice e dove tutti in fondo erano felici, magari senza saperlo. Verso mezzanotte i fuochi si spegnevano. Qualche vecchietta raccoglieva in un secchio un po’ di braci da portare a casa, qualche ragazzo provava a camminare sulla cenere, che incominciava ad essere sollevata e dispersa dal vento. Alla fine anche i ritardatari  decidevano di ritirarsi e  anche io, tra gli ultimi, rientravo a casa. Quella sera, mentre cercavo di addormentarmi, sentii  il canto di un viandante solitario  e quel canto, allontanandosi  lungo le strade e i sentieri, moriva a poco a poco. Sentii una stretta al cuore.
Ezio Scaramuzzino


L'uomo che parlava con gli Angeli (Racconto) di Ezio Scaramuzzino

Il 31 ottobre 1966 era un Lunedì e nelle prime ore del pomeriggio sostenni all’università, a Firenze, un esame di Letteratura greca, che andò bene.  Avevo ancora qualche giorno a disposizione, prima del ritorno a casa, e pensai bene di approfittarne per sbrigare personalmente qualche incombenza burocratica. Diedi uno sguardo all’orario dei corsi e vidi che quello di Storia delle religioni, una disciplina complementare prevista nel mio piano di studi, iniziava sempre alle otto del mattino. Dopo la festività di Ognissanti, al mattino di Mercoledì mi svegliai presto per essere puntuale e poter  prendere la cosiddetta “firma” del professore, un obbligo puramente formale. Nell’aula c’erano altri quattro studenti, tutti semiaddormentati come me.
Il professore arrivò con qualche minuto di ritardo e, prima di iniziare la lezione, disse: ” Immagino che qualcuno  di voi sia venuto solo per prendere la “firma”. Se è così, avverto questo qualcuno che deve venire  anche domani, perché oggi  ho fretta e non firmo nessun libretto”.  Allora i professori universitari erano considerati solo un gradino al di sotto di Dio Padre Onnipotente e la contestazione era di là da venire. Difatti nessuno dei presenti fiatò. Feci finta di seguire la lezione, che in realtà non mi interessava, e mi rassegnai all’idea di ritornare il giorno successivo. La cosa mi seccava, un po’ perché dovevo alzarmi presto, ma soprattutto perché da qualche giorno pioveva insistentemente su Firenze e non trovavo allettante l’idea di girare per la città in quelle condizioni.
Il giorno dopo, 3 Novembre, mi svegliai in tempo utile e mi diressi ancora una volta  verso Piazza San Marco, dove era la facoltà di Lettere. C’era stata qualche schiarita il pomeriggio del giorno prima, ma da molte ore era ripreso a  piovere con insistenza  e si circolava con grande difficoltà. Avevo un ombrello che mi riparava dalla pioggia e dal vento e  stavo attraversando a piedi  via Guelfa. Ma, alla confluenza su via Cavour, mi scontrai con un signore esile, minuto, bassino. Nello scontro quel signore aveva fatto cadere delle spesse lenti da miope, che mi affrettai a raccogliere per terra e che riconsegnai scusandomi per l’accaduto. Mentre riconsegnavo le lenti, ebbi la possibilità di osservare per un attimo quel volto ed ebbi l’impressione di averlo già visto da qualche parte. Ma avevo fretta e non persi tempo a riflettere, riprendendo la mia veloce andatura e lasciando indietro quell’omino miope, che con tutta evidenza andava nella mia stessa direzione.
Nell’aula dell’Università ritrovai gli stessi quattro studenti che già conoscevo. Dopo un po’ arrivò il professore, che però non era lo stesso del giorno prima: era proprio quell’omino con il quale mi ero scontrato alla confluenza tra via Guelfa e via Cavour.  Una ragazza bisbigliò il suo nome e allora ricordai tutto perfettamente. Quell’omino era Giorgio La Pira, l’ex sindaco di Firenze, “il sindaco santo”, come molti lo chiamavano. Il professore sistemò in un angolo il suo ombrello, appese l’impermeabile inzuppato d’acqua e dopo essersi sistemato, con una voce flebile e un po’ stridula, si rivolse ai suoi cinque ascoltatori: “Cari ragazzi, non vi spaventate. Starò con voi solo qualche giorno, il tempo di sostituire il professore titolare, assente per impegni improrogabili. Ho già preso accordi con lui e in questi pochi giorni tratterò un argomento  di comune interesse, l’enciclica  Rerum novarum di Leone XIII, della quale intendo dare un’interpretazione nuova e per nulla scontata”.
Il professor La Pira  tirò fuori da una borsa un bel pacco di documenti e parlò a lungo quel giorno, con intensità e passione, come se avesse avuto davanti  mille persone, non quei cinque che in realtà eravamo. Riassunse la genesi di quella prima enciclica sociale  della Chiesa, ne sottolineò la novità rivoluzionaria e concluse stilando su un foglio una scaletta di argomenti che si riservava di sviluppare nei giorni successivi. Alla fine della lezione si rivolse a me personalmente: ”A te, che mi hai fatto cadere gli occhiali, chiedo un favore personale. Siccome sta piovendo ed il tuo ombrello è molto più grande del mio, tanto che può comodamente riparare due persone, potresti accompagnarmi fino al vicino convento di San Marco?” Non gli dissi di no naturalmente e così quel giorno accompagnai e riparai con il mio ombrello  il famoso “sindaco santo” di Firenze. Il quale peraltro si dimostrò curiosissimo ed interessatissimo alla mia persona. Durante il tragitto, mentre la pioggia  continuava  a scrosciare intensamente, volle sapere come mi chiamavo, da dove venivo, se avevo bisogno di qualcosa. Gli accennai timidamente al problema della firma e lui mi suggerì di consegnare  il libretto al bidello di facoltà, che avrebbe provveduto alla bisogna.
Arrivati a destinazione  e  mentre attendevamo dietro il portone del convento, pretese che mi fermassi anche io, almeno finché la pioggia non fosse diminuita, e così varcai insieme con lui il portone di quel famosissimo convento.  Alcuni frati domenicani ci fecero accomodare in un refettorio semplice, sobrio e pulitissimo, dove poco dopo portarono latte, caffè e un vassoio con alcune fette di torta. Mi limitai a bere del caffè e intanto notai che  il professore beveva una tazza di latte, ma nel contempo non disdegnava di addentare una piccola  fetta di torta. Volle spiegarmi, sorridendo, che quella era la sua prima colazione del mattino, dal momento che egli  digiunava non solo prima della sua Comunione quotidiana, ma anche per qualche ora  dopo.  Il professore era chiaramente di casa in quel convento e mi invitò  con insistenza a mangiare qualcosa, ma io mi sentivo un po’ a disagio, come intimidito dalla sua presenza e dalla solennità di quei luoghi, mentre intanto la pioggia era aumentata di intensità e sconsigliava una mia immediata uscita dal convento.
Ad un certo punto egli mi chiese se avevo paura di quella pioggia torrenziale, che sembrava non voler finire mai, e, quando gli dissi che sì, certo, io avevo paura,  mi replicò che non bisognava aver paura, perché ognuno di noi era protetto dal suo Angelo custode. Gli obiettai che, a dire il vero, io non ero poi  tanto convinto dell’esistenza  di questi Angeli e lui mi assicurò che mi sbagliavo, che gli Angeli esistevano e che anzi lui, con il suo Angelo custode, faceva delle lunghe conversazioni. “Vedi, mi diceva, gli Angeli esistono, stanno dietro di noi, ci proteggono e ci guidano nei sentieri  della vita. Noi non li vediamo, certo, ma un giorno li vedremo, in Paradiso. Io, continuava, sono legato al mio Angelo, ne seguo i consigli, lo ascolto. Se un giorno anche tu imparerai a riconoscere la voce del tuo Angelo, farai cosa buona e ne otterrai il meglio.” Mi vide scuotere la testa e sorridendo mi mise una mano tra i capelli, scompigliandoli tutti. Poi chiamò un giovane frate domenicano e lo pregò di farmi visitare il convento.
Vidi le logge, le celle dei frati, i luoghi della preghiera comune, della meditazione e  dello studio e non potei fare a meno di pensare a ciò che tra quelle mura era avvenuto circa cinque secoli prima.  Proprio in quel convento, negli ultimi anni del Quattrocento, un giovane frate ferrarese, di nome Gerolamo Savonarola, aveva meditato e preparato quelle prediche violente e visionarie, che avevano sconvolto la vita della città e che alla fine gli sarebbero valse la morte sul rogo il 23 Maggio del 1498. Il giovane frate era vissuto in quelle celle, aveva pregato in quei luoghi, forse aveva preparato una  predica proprio su quello scrittoio che adesso era sotto i miei occhi. Mi destò dalle mie riflessioni la voce del professor La Pira, il quale mi venne incontro e mi disse che, se volevo, potevo restare per un giorno ospite del convento e che, se non gradivo, potevo approfittare  di una schiarita per fare ritorno a casa.
Ringraziai dell’ospitalità e dissi che preferivo ritornare. Col professore rimasi d’accordo che ci saremmo rivisti il giorno dopo in Facoltà, aperta solo  per mezza giornata a causa della ricorrenza  della Vittoria, considerata allora semifestiva. Durante il tragitto in autobus, notai che i Fiorentini parlavano tutti del brutto tempo, ma nessuno dimostrava una vera preoccupazione, giacché anche un’eventuale piena dell’Arno era considerata solo un “classico d’autunno”. I negozi erano tutti aperti e per il giorno successivo, 4 Novembre, molti manifesti preannunziavano una parata militare in Piazza della Signoria. Per parte mia la sera andai pure al cinema e vidi La Bibbia di John Huston, che aveva il suo pezzo forte nelle scene del diluvio universale, girate, a quel che si diceva, con  macchine speciali.
Continuò a piovere per tutta la notte, le strade erano fangose e scivolose, la circolazione ridotta al minimo, ma riuscii a prendere uno dei pochi autobus  ancora in circolazione e al mattino arrivai puntuale in Facoltà. Nell’aula ritrovai solo due studenti e ritrovai anche  il professor La Pira, che ci aveva preceduti tutti, arrivando dal vicino convento dei frati domenicani di San Marco. Il professore non perse tempo: tirò fuori i suoi appunti e, seguendo la scaletta approntata il giorno prima, ci intrattenne sull’economia sociale di mercato e sulla funzione della Chiesa nella tutela del lavoro. Più o meno negli stessi minuti le acque dell’Arno, che avevano già inondato gli scantinati della Biblioteca Nazionale,  si apprestavano ad allagare Piazza della Signoria  e Piazza di  Santa Croce. Sentivamo provenire da lontano un rumore sordo e cupo e, quando questo rumore divenne tanto vicino da risultare quasi insopportabile, ci alzammo velocemente dai banchi e aprimmo la porta dell’aula. Ci si presentò uno spettacolo impressionante: il corridoio era già  in parte allagato  e da un finestrone  in alto veniva giù un fiume di acqua.
Non perdemmo tempo: abbandonammo tutto il resto  e sollevammo letteralmente in aria il professor La Pira, che per altro pesava pochissimo, salendo poi  le scale e mettendoci in salvo al primo piano dell’edificio. Qui ci ritrovammo in circa venti persone e, quando il livello dell’acqua incominciò paurosamente a salire, ci spostammo tutti su una loggia parzialmente coperta. Un bidello riuscì a procurarsi un bastone, vi legò un drappo bianco e incominciò a sventolarlo , nella speranza che qualcuno notasse la nostra presenza e pensasse a soccorrerci.
Nel frattempo il professor La Pira, con il suo eterno sorriso, cercava di infondere coraggio a tutti. Ci abbracciava  e ci accarezzava, quasi volesse trasmetterci la sua incrollabile fiducia. Notai che teneva stretta in mano una coroncina del Rosario. Dopo circa un’ora vedemmo volteggiare sulle nostre teste un elicottero, su cui si leggeva chiaramente la sigla E.I. e che con larghe e lente ruote venne a fermarsi sopra di noi. Fu calata una corda e ne discese un militare che ci chiese se tra di noi c’erano dei feriti, giacché  quell’elicottero era adibito solo a tale scopo . Gli rispondemmo di no, ma gli facemmo notare la presenza  del professor La Pira, avanti con gli anni,  malconcio e tutto inzuppato d’acqua, che incominciava a manifestare suo malgrado qualche segno di cedimento e che quindi bisognava assolutamente porre in salvo .
Il professore si schermì e manifestò la sua ferma intenzione di non lasciarci soli. Ma il militare si rese subito conto della drammatica situazione in cui egli versava  e, comunicando per radio, fece scendere dall’elicottero  una sorta di sediolino attaccato ad una corda. In una situazione che stava diventando sempre più convulsa e caotica, il professore fu legato saldamente e imbracato a quel sediolino, mentre il militare ci comunicava che sarebbe rimasto con noi in attesa di un successivo mezzo di salvataggio. Infine l’elicottero partì , diretto verso un centro di raccolta sulle colline di Fiesole, ancor prima che il sediolino fosse issato a bordo con il suo carico.
Per un centinaio di metri vidi il professor La Pira volare e volteggiare nell’aria grigia  di Firenze, mentre tutt’intorno sembravano riversarsi sulla terra le cateratte aperte del diluvio. Ebbi l’impressione che egli fosse diretto in cielo, a trovare quegli Angeli con i quali aveva tanta dimestichezza e tanta voglia di  completare un dialogo appena interrotto. O forse era diventato anche lui un Angelo e per un attimo quasi mi aspettai di vedergli spuntare le  ali, con le quali avrebbe continuato il suo volo verso l’eternità. La cosa del resto non era né difficile, né impossibile. Giorgio La Pira era vissuto da persona astratta e quasi eterea, sempre in volo nei regni dello spirito e sempre lontana dalle miserie  della vita terrena.
Ezio Scaramuzzino

Un giorno nella vita