Il 31
ottobre 1966 era un Lunedì e nelle prime ore del pomeriggio sostenni
all’università, a Firenze, un esame di Letteratura greca, che andò bene. Avevo ancora qualche giorno a disposizione, prima
del ritorno a casa, e pensai bene di approfittarne per sbrigare personalmente
qualche incombenza burocratica. Diedi uno sguardo all’orario dei corsi e vidi
che quello di Storia delle religioni, una disciplina complementare prevista nel
mio piano di studi, iniziava sempre alle otto del mattino. Dopo la festività di
Ognissanti, al mattino di Mercoledì mi svegliai presto per essere puntuale e
poter prendere la cosiddetta “firma” del
professore, un obbligo puramente formale. Nell’aula c’erano altri quattro
studenti, tutti semiaddormentati come me.
Il
professore arrivò con qualche minuto di ritardo e, prima di iniziare la
lezione, disse: ” Immagino che qualcuno di
voi sia venuto solo per prendere la “firma”. Se è così, avverto questo qualcuno
che deve venire anche domani, perché oggi ho fretta e non firmo nessun libretto”. Allora i professori universitari erano
considerati solo un gradino al di sotto di Dio Padre Onnipotente e la
contestazione era di là da venire. Difatti nessuno dei presenti fiatò. Feci
finta di seguire la lezione, che in realtà non mi interessava, e mi rassegnai all’idea
di ritornare il giorno successivo. La cosa mi seccava, un po’ perché dovevo
alzarmi presto, ma soprattutto perché da qualche giorno pioveva insistentemente
su Firenze e non trovavo allettante l’idea di girare per la città in quelle
condizioni.
Il giorno
dopo, 3 Novembre, mi svegliai in tempo utile e mi diressi ancora una volta verso Piazza San Marco, dove era la facoltà
di Lettere. C’era stata qualche schiarita il pomeriggio del giorno prima, ma da
molte ore era ripreso a piovere con
insistenza e si circolava con grande
difficoltà. Avevo un ombrello che mi riparava dalla pioggia e dal vento e stavo attraversando a piedi via Guelfa. Ma, alla confluenza su via
Cavour, mi scontrai con un signore esile, minuto, bassino. Nello scontro quel
signore aveva fatto cadere delle spesse lenti da miope, che mi affrettai a
raccogliere per terra e che riconsegnai scusandomi per l’accaduto. Mentre
riconsegnavo le lenti, ebbi la possibilità di osservare per un attimo quel
volto ed ebbi l’impressione di averlo già visto da qualche parte. Ma avevo
fretta e non persi tempo a riflettere, riprendendo la mia veloce andatura e
lasciando indietro quell’omino miope, che con tutta evidenza andava nella mia
stessa direzione.
Nell’aula
dell’Università ritrovai gli stessi quattro studenti che già conoscevo. Dopo un
po’ arrivò il professore, che però non era lo stesso del giorno prima: era
proprio quell’omino con il quale mi ero scontrato alla confluenza tra via
Guelfa e via Cavour. Una ragazza
bisbigliò il suo nome e allora ricordai tutto perfettamente. Quell’omino era
Giorgio La Pira, l’ex sindaco di Firenze, “il sindaco santo”, come molti lo chiamavano. Il professore sistemò in un
angolo il suo ombrello, appese l’impermeabile inzuppato d’acqua e dopo essersi
sistemato, con una voce flebile e un po’ stridula, si rivolse ai suoi cinque
ascoltatori: “Cari ragazzi, non vi spaventate. Starò con voi solo qualche
giorno, il tempo di sostituire il professore titolare, assente per impegni
improrogabili. Ho già preso accordi con lui e in questi pochi giorni tratterò
un argomento di comune interesse,
l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII, della quale intendo dare
un’interpretazione nuova e per nulla scontata”.
Il professor
La Pira tirò fuori da una borsa un bel
pacco di documenti e parlò a lungo quel giorno, con intensità e passione, come
se avesse avuto davanti mille persone,
non quei cinque che in realtà eravamo. Riassunse la genesi di quella prima
enciclica sociale della Chiesa, ne
sottolineò la novità rivoluzionaria e concluse stilando su un foglio una
scaletta di argomenti che si riservava di sviluppare nei giorni successivi. Alla
fine della lezione si rivolse a me personalmente: ”A te, che mi hai fatto
cadere gli occhiali, chiedo un favore personale. Siccome sta piovendo ed il tuo
ombrello è molto più grande del mio, tanto che può comodamente riparare due
persone, potresti accompagnarmi fino al vicino convento di San Marco?” Non gli
dissi di no naturalmente e così quel giorno accompagnai e riparai con il mio
ombrello il famoso “sindaco santo” di
Firenze. Il quale peraltro si dimostrò curiosissimo ed interessatissimo alla
mia persona. Durante il tragitto, mentre la pioggia continuava
a scrosciare intensamente, volle sapere come mi chiamavo, da dove
venivo, se avevo bisogno di qualcosa. Gli accennai timidamente al problema
della firma e lui mi suggerì di consegnare
il libretto al bidello di facoltà, che avrebbe provveduto alla bisogna.
Arrivati a
destinazione e mentre attendevamo dietro il portone del
convento, pretese che mi fermassi anche io, almeno finché la pioggia non fosse
diminuita, e così varcai insieme con lui il portone di quel famosissimo
convento. Alcuni frati domenicani ci fecero
accomodare in un refettorio semplice, sobrio e pulitissimo, dove poco dopo
portarono latte, caffè e un vassoio con alcune fette di torta. Mi limitai a
bere del caffè e intanto notai che il
professore beveva una tazza di latte, ma nel contempo non disdegnava di
addentare una piccola fetta di torta.
Volle spiegarmi, sorridendo, che quella era la sua prima colazione del mattino,
dal momento che egli digiunava non solo
prima della sua Comunione quotidiana, ma anche per qualche ora dopo.
Il professore era chiaramente di casa in quel convento e mi
invitò con insistenza a mangiare
qualcosa, ma io mi sentivo un po’ a disagio, come intimidito dalla sua presenza
e dalla solennità di quei luoghi, mentre intanto la pioggia era aumentata di
intensità e sconsigliava una mia immediata uscita dal convento.
Ad un certo
punto egli mi chiese se avevo paura di quella pioggia torrenziale, che sembrava
non voler finire mai, e, quando gli dissi che sì, certo, io avevo paura, mi replicò che non bisognava aver paura,
perché ognuno di noi era protetto dal suo Angelo custode. Gli obiettai che, a
dire il vero, io non ero poi tanto convinto
dell’esistenza di questi Angeli e lui mi
assicurò che mi sbagliavo, che gli Angeli esistevano e che anzi lui, con il suo
Angelo custode, faceva delle lunghe conversazioni. “Vedi, mi diceva, gli Angeli
esistono, stanno dietro di noi, ci proteggono e ci guidano nei sentieri della vita. Noi non li vediamo, certo, ma un
giorno li vedremo, in Paradiso. Io, continuava, sono legato al mio Angelo, ne
seguo i consigli, lo ascolto. Se un giorno anche tu imparerai a riconoscere la
voce del tuo Angelo, farai cosa buona e ne otterrai il meglio.” Mi vide
scuotere la testa e sorridendo mi mise una mano tra i capelli, scompigliandoli
tutti. Poi chiamò un giovane frate domenicano e lo pregò di farmi visitare il
convento.
Vidi le
logge, le celle dei frati, i luoghi della preghiera comune, della meditazione
e dello studio e non potei fare a meno
di pensare a ciò che tra quelle mura era avvenuto circa cinque secoli prima. Proprio in quel convento, negli ultimi anni
del Quattrocento, un giovane frate ferrarese, di nome Gerolamo Savonarola,
aveva meditato e preparato quelle prediche violente e visionarie, che avevano
sconvolto la vita della città e che alla fine gli sarebbero valse la morte sul
rogo il 23 Maggio del 1498. Il giovane frate era vissuto in quelle celle, aveva
pregato in quei luoghi, forse aveva preparato una predica proprio su quello scrittoio che adesso
era sotto i miei occhi. Mi destò dalle mie riflessioni la voce del professor La
Pira, il quale mi venne incontro e mi disse che, se volevo, potevo restare per
un giorno ospite del convento e che, se non gradivo, potevo approfittare di una schiarita per fare ritorno a casa.
Ringraziai
dell’ospitalità e dissi che preferivo ritornare. Col professore rimasi
d’accordo che ci saremmo rivisti il giorno dopo in Facoltà, aperta solo per mezza giornata a causa della
ricorrenza della Vittoria, considerata
allora semifestiva. Durante il tragitto in autobus, notai che i Fiorentini
parlavano tutti del brutto tempo, ma nessuno dimostrava una vera
preoccupazione, giacché anche un’eventuale piena dell’Arno era considerata solo
un “classico d’autunno”. I negozi erano tutti aperti e per il giorno
successivo, 4 Novembre, molti manifesti preannunziavano una parata militare in
Piazza della Signoria. Per parte mia la sera andai pure al cinema e vidi La Bibbia di John Huston, che aveva il
suo pezzo forte nelle scene del diluvio universale, girate, a quel che si
diceva, con macchine speciali.
Continuò a
piovere per tutta la notte, le strade erano fangose e scivolose, la
circolazione ridotta al minimo, ma riuscii a prendere uno dei pochi
autobus ancora in circolazione e al
mattino arrivai puntuale in Facoltà. Nell’aula ritrovai solo due studenti e ritrovai
anche il professor La Pira, che ci aveva
preceduti tutti, arrivando dal vicino convento dei frati domenicani di San
Marco. Il professore non perse tempo: tirò fuori i suoi appunti e, seguendo la
scaletta approntata il giorno prima, ci intrattenne sull’economia sociale di
mercato e sulla funzione della Chiesa nella tutela del lavoro. Più o meno negli
stessi minuti le acque dell’Arno, che avevano già inondato gli scantinati della
Biblioteca Nazionale, si apprestavano ad
allagare Piazza della Signoria e Piazza
di Santa Croce. Sentivamo provenire da
lontano un rumore sordo e cupo e, quando questo rumore divenne tanto vicino da
risultare quasi insopportabile, ci alzammo velocemente dai banchi e aprimmo la
porta dell’aula. Ci si presentò uno spettacolo impressionante: il corridoio era
già in parte allagato e da un finestrone in alto veniva giù un fiume di acqua.
Non perdemmo
tempo: abbandonammo tutto il resto e
sollevammo letteralmente in aria il professor La Pira, che per altro pesava
pochissimo, salendo poi le scale e
mettendoci in salvo al primo piano dell’edificio. Qui ci ritrovammo in circa
venti persone e, quando il livello dell’acqua incominciò paurosamente a salire,
ci spostammo tutti su una loggia parzialmente coperta. Un bidello riuscì a
procurarsi un bastone, vi legò un drappo bianco e incominciò a sventolarlo ,
nella speranza che qualcuno notasse la nostra presenza e pensasse a
soccorrerci.
Nel
frattempo il professor La Pira, con il suo eterno sorriso, cercava di infondere
coraggio a tutti. Ci abbracciava e ci
accarezzava, quasi volesse trasmetterci la sua incrollabile fiducia. Notai che
teneva stretta in mano una coroncina del Rosario. Dopo circa un’ora vedemmo
volteggiare sulle nostre teste un elicottero, su cui si leggeva chiaramente la
sigla E.I. e che con larghe e lente ruote venne a fermarsi sopra di noi. Fu
calata una corda e ne discese un militare che ci chiese se tra di noi c’erano
dei feriti, giacché quell’elicottero era
adibito solo a tale scopo . Gli rispondemmo di no, ma gli facemmo notare la
presenza del professor La Pira, avanti
con gli anni, malconcio e tutto
inzuppato d’acqua, che incominciava a manifestare suo malgrado qualche segno di
cedimento e che quindi bisognava assolutamente porre in salvo .
Il
professore si schermì e manifestò la sua ferma intenzione di non lasciarci soli.
Ma il militare si rese subito conto della drammatica situazione in cui egli
versava e, comunicando per radio, fece
scendere dall’elicottero una sorta di
sediolino attaccato ad una corda. In una situazione che stava diventando sempre
più convulsa e caotica, il professore fu legato saldamente e imbracato a quel
sediolino, mentre il militare ci comunicava che sarebbe rimasto con noi in
attesa di un successivo mezzo di salvataggio. Infine l’elicottero partì ,
diretto verso un centro di raccolta sulle colline di Fiesole, ancor prima che
il sediolino fosse issato a bordo con il suo carico.
Per un
centinaio di metri vidi il professor La Pira volare e volteggiare nell’aria
grigia di Firenze, mentre tutt’intorno
sembravano riversarsi sulla terra le cateratte aperte del diluvio. Ebbi
l’impressione che egli fosse diretto in cielo, a trovare quegli Angeli con i
quali aveva tanta dimestichezza e tanta voglia di completare un dialogo appena interrotto. O
forse era diventato anche lui un Angelo e per un attimo quasi mi aspettai di
vedergli spuntare le ali, con le quali
avrebbe continuato il suo volo verso l’eternità. La cosa del resto non era né
difficile, né impossibile. Giorgio La Pira era vissuto da persona astratta e
quasi eterea, sempre in volo nei regni dello spirito e sempre lontana dalle
miserie della vita terrena.
Ezio Scaramuzzino
Ezio Scaramuzzino
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