La guerra dei fuochi
Il 19 marzo, festa di San Giuseppe, al paese ogni rione
accendeva il fuoco, ma i preparativi
incominciavano qualche giorno prima. Nel rione Colla, che era il mio,
soprattutto i bambini eravamo in fermento da almeno una settimana. Bisognava
raccogliere legna e frasche, in abbondanza, perché era considerato vergognoso
approntarne uno modesto e ancora più
vergognoso risultare l’ultimo rione nella classifica dei falò. All’uscita da
scuola, tutti i bambini ci ritrovavamo insieme a scorazzare in lungo e in largo
sulle colline dei dintorni. Raccoglievamo sterpaglie e cespugli e non disdegnavamo di spezzare rami e talvolta
di abbattere modesti alberelli che con la loro presenza avevano contribuito a
spezzare l’aridità di quelle lande desolate. Anche gli adulti e le donne spesso
davano una mano, per il prestigio del rione e con la segreta speranza che il
proprio fuoco alla fine sarebbe durato più degli altri, oltre a risultare il
più bello e il più grande. Verso l’ora
del tramonto si potevano vedere lunghe file
di persone che ritornavano in paese portando a spalla fascine di legna. Tutto veniva poi depositato in
luoghi preposti, dove si formavano cataste che crescevano a vista d’occhio,
giorno dopo giorno.
Ma non finiva qui.
Dopo aver depositato la legna, erano necessari dei turni di guardia, anche
durante la notte, perché era considerato lecito rubare quella degli altri, se
rimaneva incustodita, e non era ritenuto vergognoso rimediare botte in
eventuali tentativi di furto andati a male. Ovviamente per questi compiti di sorveglianza
si facevano avanti sempre i ragazzi più robusti, i quali, oltre a dar prova di
coraggio, consideravano un onore il poter difendere in tal modo la “proprietà”
ed il buon nome del rione. Si formava ogni anno una vera e propria classifica.
Franco, mio cugino, era il capo riconosciuto dei sorveglianti: era lui a
distribuire responsabilità e turni di guardia. In tale classifica io mi ero
rassegnato ad occupare sempre uno degli ultimi posti. Ero più piccolo d’età e poi
ero gracile e scarsamente incline alla violenza, tanto che, le poche volte che
facevo a botte, riuscivo sempre ad avere la peggio ed a ritornarmene a casa
piangendo. Ma non potevo rifiutare i turni di guardia e
quando Franco, che pure spesso mi risparmiava qualche compito particolarmente
gravoso, mi assegnò il turno della
vigilia, non battei ciglio ed accettai. Avevo un po’ di timore, perché in
quella notte le cataste di legna erano
al massimo e richiedevano grande attenzione, ma
con me c’erano anche Franco ed Albertino, un altro ragazzo che non gli
era da meno.
Quella sera, dopo la cena, dissi chiaramente che durante la
notte avrei sorvegliato la legna di San
Giuseppe. Mia madre non si oppose, ma mi obbligò a infilare un altro maglione
sopra quello che normalmente portavo, mi procurò un berretto di lana e si
limitò a darmi qualche consiglio, raccomandandomi soprattutto di trovare un
buon riparo e di non prendere troppo freddo. Verso le 11 mi ritrovai con Franco
e Albertino a dare il cambio al turno precedente. Su un fianco della catasta
era stata ricavata una sorta di grotta, nella quale ci mettemmo al riparo,
mentre le frasche tutte attorno ci proteggevano un pochino dal freddo della
notte. Albertino aveva portato una grossa pila, rimediata chissà dove, che
tenevamo accesa per far sapere ad eventuali “visitatori” che “noi c’eravamo”. Parlammo
a lungo quella notte, per evitare di addormentarci e Franco ci intrattenne con
storie di fantasmi e di morti, che contribuirono non poco a tenerci svegli. Verso
le tre del mattino, la pila, ormai esaurita, si spense, mentre Franco ed Albertino, che avevano cessato di lottare contro il sonno, si erano
addormentati. Io cercavo ostinatamente di tenere gli occhi aperti e ci riuscivo
solo perché ero rimasto abbastanza scosso dai racconti di Franco.
In questo dormiveglia credetti di sentire, anzi sentii
distintamente un rumore attutito di passi. Poi sentii delle voci sommesse e non
mi ci volle molto a capire che c’erano dei “visitatori”. Senza gridare, diedi
uno strattone ai miei due compagni e li svegliai subito. In silenzio
sgattaiolammo fuori della grotta e vedemmo
un gruppo di ragazzi, riconosciuti
distintamente come provenienti dal rione Chiano, che stavano portando via legna
e frasche. Erano cinque o sei quei ragazzi ed erano capeggiati da Salvatore Drappi,
autentica ira di Dio e famoso per quanto
era considerato pericoloso:bastava la sua presenza per tenere alla larga dal
suo rione tutti gli altri ragazzi del paese, che, quando lo vedevano da
lontano, a volte preferivano perfino cambiare
strada. Ma quella sera Salvatore non ci fece paura. Sarà stata l’incoscienza, ma ci mettemmo a
gridare e ci lanciammo a corpo morto contro quei ragazzi, che in un primo
momento presero a lottare per difendere quel che avevano rubato, ma poi, ad un
fischio lanciato da Salvatore, abbandonarono tutto e se la diedero a gambe. Eravamo
esausti, ma felici per essere riusciti a sventare il colpo, e stavamo riportando indietro la legna
trafugata, quando mi accorsi di avvertire una strana sensazione di calore sul
volto. Mi toccai con una mano e mi accorsi che il mio volto era pieno di
sangue, anzi capii quasi con terrore che da un occhio non ci vedevo più.
Mi misi a correre verso casa, mentre Franco e Albertino mi
correvano dietro. Caddi perché non ci vedevo bene, poi mi rialzai e ripresi a
correre, ma caddi un’altra volta e
allora quei due, piangendo, mi sollevarono, mi presero in braccio e mi portarono fino a casa. Quando mia madre,
svegliata dalle grida e dai pianti, vide il mio volto lordo di terra e di
sangue, lanciò un grido lungo e straziante, che mi sarebbe rimasto nel cuore
per il resto della vita. Fui portato a braccia, di notte, dal medico Mauro, che
per noi del paese allora era tutto. Egli era il
medico, il chirurgo, il farmacista, ma era anche un padre, una madre,
uno zio affettuoso, al quale ricorrere per ogni esigenza. Il medico non si
spazientì quella notte, per essere stato svegliato a quell’ora:con calma e
premura mi ripulì il volto e vide che sulla palpebra sinistra avevo una ferita,
da cui sgorgavano numerose gocce di sangue. Mi suturò la ferita ed io non emisi
neppure il più piccolo lamento, tanto ero atterrito.
La sera successiva, gli altri ragazzi accesero il fuoco di
San Giuseppe. Dopo circa mezz’ora arrivai anche io, con una benda che mi
ricopriva la sutura, ma mi fasciava anche la testa, come un turbante. Tutti avevano saputo degli
incidenti della notte e mi osservavano con curiosità. E io avanzavo e giravo
intorno al fuoco con lentezza, quasi volessi assaporare intensamente il mio
momento di gloria. Guardavo a mia
volta gli altri e mi veniva voglia di
dire che, se essi avevano potuto accendere il fuoco e godere delle sue fiamme e
del suo calore, lo dovevano a me, che avevo lottato per quel fuoco e per quelle
fiamme. Poi vidi il gruppo dei miei compagni tutti assieme, in piedi e stranamente silenziosi: mi sentivo come un
generale che passa in rassegna le sue truppe. Ma fu un attimo. Tutti insieme,
gridando, corsero verso di me e mi abbracciarono. Poi ci unimmo ai cori delle donne che invocavano San Giuseppe:
San Giuseppi, mastro d’ascia, chi facia
tavuti e casci, li facia senza dibruni , San Giuseppi ni pirduna.
E nu m’indi vaiu di ccà, si la grazza nun mi
fa,e fammilla, Madonna mia, chi ‘ndaiu ‘na grandi necessità.
Qualcuno ballava, accompagnato dalla fisarmonica di Silvio Scalise, considerato
allora al paese insuperato ed insuperabile fisarmonicista, mentre altri
pensavano ad alimentare il fuoco. Ad un
certo punto arrivò il convito, cioè un pentolone di pasta e ceci, accompagnato
da altre cibarie: era il culmine della
festa. A distanza di tanti anni, ricordo ancora quella pasta e quei ceci, così
squisiti, così gustosi, che non avrei mai più mangiato per il resto della vita.
Poi a gruppi ci si spostava nei vari rioni, per vedere i fuochi degli altri,
per mangiucchiare qualcosa e alla fine compilare quella classifica ideale, che
non vedeva vincenti e perdenti, ma tutti ci accomunava nel gioco della vita,
dove ogni cosa era semplice e dove tutti
in fondo erano felici, magari senza saperlo. Verso mezzanotte i fuochi si
spegnevano. Qualche vecchietta raccoglieva in un secchio un po’ di braci da
portare a casa, qualche ragazzo provava a camminare sulla cenere, che
incominciava ad essere sollevata e dispersa dal vento. Alla fine anche i
ritardatari decidevano di ritirarsi e anche io, tra gli ultimi, rientravo a casa. Quella
sera, mentre cercavo di addormentarmi, sentii
il canto di un viandante solitario e quel canto, allontanandosi lungo le strade e i sentieri, moriva a poco a
poco. Sentii una stretta al cuore.
Ezio Scaramuzzino
Ezio Scaramuzzino
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