mercoledì 22 aprile 2015

Onore ai soldati d'Israele morti per la Patria


Oggi in Israele si celebra lo Yom HaZikaron, il giorno in cui si ricordano i 23.085 soldati caduti dalla nascita dello Stato nel 1948. Da qualche anno vengono ricordati anche  i circa 2.000 morti per atti di terrorismo. Al suono delle sirene tutto Israele si ferma per un minuto.





LINK:   Onore ai soldati d'Israele morti per la Patria

lunedì 6 aprile 2015

Giacomo Leopardi visto da Marcello Veneziani

Marcello Veneziani è un filosofo, giornalista e scrittore italiano.

17 febbraio 1955 (età 60), Bisceglie







Il pensiero di Leopardi? Uno Zibaldone di verità.

Nessun autore ha saputo guardare in faccia la verità della vita e del mondo come Leopardi. Ci sono più grandi filosofi, grandi scienziati e forse poeti più grandi, ma nessuno ha svelato la condizione umana con la sua implacabile e acutissima lucidità, senza concedere ripari. La sua opera è la più alta rivelazione della condizione umana; oltre c'è solo la Rivelazione divina. Il pensiero che s'inoltrò sulla sua strada e affrontò i suoi temi - Schopenhauer, Nietzsche, l'esistenzialismo - non superò il suo punto d'arrivo, se non mediante il salto nella fede. La sua visione della vita e del mondo esclude che anche il dolore, come la gioia, possa essere un pregiudizio soggettivo che altera la sostanza pura della vita, il suo gioco cosmico al di là del bene e del male; a noi tocca solo scommettere che sia solo caso nel caos o destino che si collega a un ordine. Leopardi si ferma alla disperazione che precede la scommessa e degrada la scommessa a illusione. E tuttavia Leopardi è il poeta e il pensatore più religioso della modernità. Religioso non vuol dire credente né devoto. La sua è una visione radicale e universale sulla vita in rapporto alla morte e al dolore. Leopardi resta religioso anche nella disperazione: il desiderio ardente di morire che accompagnò sempre la sua breve vita non lo indusse al suicidio. Corteggiò la morte per anni, la invocò tante volte, ma non si lasciò mai conquistare dall'idea di togliersi la vita. Perché, spiegò nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, suicidandosi «tutto l'ordine delle cose saria sovvertito». La certezza che tutto sia connesso in un ordito, è l'essenza propria della religio e l'idea che infrangere quell'ordine sia il supremo sacrilegio è quanto di più religioso si possa pensare. Che poi dietro la Trama del cosmo, dietro l'ordine di tutte le cose, ci sia un Autore o un'Intelligenza e che dopo la morte vi sia la resurrezione, questo riguarda la fede, non il pensiero di Leopardi. In lui lo scacco della Fede non segna il trionfo della Ragione, perché il naufragio riguarda ambedue: da qui il suo pensiero tragico, divergente dai Lumi e da ogni storicismo, progressismo o razionalismo. E da qui la sua ultrafilosofia, che al sistema filosofico preferisce il canto, la poesia, lo zibaldone di pensieri sparsi. Perché è rivolta alla vita e al mondo, non alla pura teoria.

Oltre che religioso, il pensiero di Leopardi ha una relazione intensa con l'amor patrio. Sono tante le pagine leopardiane contro il paese natio, contro l'Italia e gli italiani cinici e ridenti, privi di costumi; tutto il pensiero leopardiano e la linea che poi ne discese condannò la retorica patriottarda e le sue pompose finzioni. Ma è come se volesse rendere l'amor patrio più vero ed essenziale, antiretorico, privo di fanfare, raccolto nella gloria dei «nostri padri antichi» e nel rimpianto di tanta altezza caduta «in così basso loco». Risuona l'amore per l'Italia nei suoi versi e affiora una concezione eroica della vita, che si esprime nel culto dei vinti. Anche il Leopardi in fuga dalla casa paterna, dalla famiglia e dai suoi precetti, dedica poesie, lettere e pagine di un amore intenso e raro al suo Carissimo Signor Padre che poi diventa Mio Caro Papà, a sua sorella Paolina, a suo fratello Carlo.

Un amore tenerissimo verso la famiglia, non privo di asprezze e rigetti, ma autentico. La famiglia resta l'alveo affettivo leopardiano, la sua solitudine non può essere concepita se non in rapporto alla sua famiglia. Al di sopra dell'amore per la famiglia, per la patria e per la religio, non c'è che l'amore disperato per la verità. Se deve scegliere tra Dio e il Vero, tra la Famiglia e il Vero, tra l'Italia e il Vero, Leopardi sceglie senza indugi il Vero. Sul piano storico Leopardi colse l'importanza dei pregiudizi e delle illusioni, detestò la politica giacché gli individui «sono infelici sotto ogni forma di governo». Sul piano etico Leopardi lodò la nobiltà dell'inutile, la gloria delle imprese vane. Sul piano estetico riconobbe commosso il primato della bellezza ma sul piano umano contraddisse l'ideale classico del bello e buono, notando che la bellezza insuperbisce chi la possiede mentre la bruttezza incammina verso la virtù. Il pensiero negativo di Leopardi ha un approdo finale: è l'Oriente, inteso come il luogo simbolico in cui si dissipa ogni illusione legata all'individuo per rifluire e disciogliersi nel grembo assoluto della Natura. Oblio immoto del mondo «e già mi par che sciolte/ giaccian le membra mie, né spirto o senso/ più le commuova, e lor quiete antica/ co' silenzi del loco si confonda» (La vita solitaria).

La tragedia del vivere per Leopardi risiede nell'individualità che separa dal tutto; viceversa la salvezza, o almeno la pace, è rientrarvi sciogliendosi nel tutto, estinguere la vita individuale nell'oceano dell'essere. «E il naufragar m'è dolce in questo mare»... Prima di poetare sulla vita e sulla morte, Leopardi adolescente le affrontò sul piano della filosofia; prima d'illuminarsi di luna e d'infinito, studiò gli astri e il cosmo. Versi che sembrano sgorgati da stati d'animo provengono da lontano, da studi precoci e pensieri sofferti. Stringe il cuore leggere i tanti passi in cui Leopardi confessa il suo disagio di essere al mondo e di sentirsi rifiutato. Ma se non fosse stato gobbo, brutto, respinto da Silvia e irriso dalla gente, se avesse avuto una vita e un corpo come gli altri, avrebbe mai raggiunto quelle altezze e quelle profondità? Su quali sentieri lo avrebbe dirottato la vita? Non dobbiamo, con la morte nel cuore, benedire crudelmente l'amore negato, il corpo deforme, per i doni sublimi che provocarono? Del resto lui stesso era consapevole del nesso tra bruttezza e grandezza e si dispose a barattare la vita con la gloria: «Voglio essere infelice piuttosto che piccolo e soffrire piuttosto che annoiarmi». «Il ritratto è bruttissimo: nondimeno fatelo girare costì, acciocché i Recanatesi vedano cogli occhi del corpo (che sono i soli che hanno) che il gobbo de Leopardi è contato per qualche cosa nel mondo». Ma pure alla gioia Leopardi aspirò invano: «Ho bisogno d'amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita; il mondo non mi par fatto per me». Inadeguato al mondo, senza di consolanti vie di scampo, Leopardi mise a nudo la verità della vita. Benché solitario, resta il più fraterno tra i poeti e pensatori. Nei secoli fratello. E ora Brother James.
Marcello Veneziani

domenica 5 aprile 2015

Un racconto, un film, due capolavori

Guy de Maupassant: Una gita in campagna (1881) - racconto
Jean Renoir: Una gita in campagna (1936) - film
Per chi ha una mezz'oretta di tempo a disposizione e vuole ricrearsi lo spirito. Buona lettura e buona visione!


  1. Henri-René-Albert-Guy de Maupassant, scrittore, drammaturgo, reporter di viaggio, saggista e poeta francese, nonché uno dei padri del racconto moderno.
  2. 5 agosto 1850 - 6 luglio 1893





GUY DE MAUPASSANT
Una gita in campagna
1
Da cinque mesi c'era il progetto d'andare a mangiare nei dintorni di Parigi, il giorno
della festa della signora Dufour, che si chiamava Pétronille. Sicché quella mattina,
dopo aver aspettato la scampagnata per tanto tempo, tutti s'erano alzati prestissimo.
Dufour s'era fatto prestare la vettura dal lattaio, e s'era messo a guidare lui stesso. Era
una carretta a due ruote, assai decorosa, col tetto sostenuto da quattro montanti di
ferro ai quali erano appese le tendine, che avevano tirato su per lasciar libera la vista
del paesaggio. Quella dietro, sciolta, ondeggiava al vento come una bandiera. Seduta
accanto al suo sposo, la signora Dufour si spampanava in uno straordinario vestito di
seta color ciliegia. Dietro, su due sedie, c'erano la vecchia nonna e una ragazza.
Dietro ancora si scorgevano i capelli gialli d'un giovane, il quale, in mancanza di
seggiole, s'era sdraiato sul fondo, e lasciava vedere soltanto la testa.
Dopo aver attraversato il viale degli Champs Elysées, e superato le fortificazioni della
porta Maillot, cominciarono a contemplare il paesaggio.
Arrivati al ponte di Neuilly, Dufour aveva detto: - Ecco finalmente la campagna! - e
sentendo questa frase sua moglie s'era commossa sulla natura.
All'incrocio di Courbevoie furono presi d'ammirazione, nel vedere l'ampliarsi degli
orizzonti. A destra laggiù c'era Argenteuil, col campanile dritto; più su si vedevano le
collinette di Sannois e il mulino d'Orgemont. A sinistra, si disegnavano nel chiaro
cielo mattutino l'acquedotto di Marly, e, lontana, si poteva vedere anche la
pianeggiante altura di Saint-Germain; di fronte, al principiare d'una catena di colline,
il terreno smosso indicava il nuovo forte di Cormeilles. Spingendo lo sguardo nella
più profonda lontananza, al disopra di pianure e villaggi s'intravedeva un cupo
verdeggiar di foreste.
Il sole incominciava a farsi sentire; la polvere riempiva di continuo gli occhi e ai lati
della strada si estendeva una campagna interminabilmente spoglia, sporca e
maleodorante. Pareva che un'epidemia l'avesse devastata, e avesse rosicato anche le
case, perché si vedevano scheletri di costruzioni sfondate e abbandonate, o capanne
rimaste a metà per mancato pagamento ai costruttori, che protendevano le loro
quattro mura spoglie di tetto.
Di tanto in tanto spuntavano nello sterile terreno i lunghi camini delle fabbriche,
unica vegetazione di quei putridi campi sui quali il venticello della primavera faceva
ondeggiare un odore di petrolio e di schisto, misto ad un altro odore ancor meno
gradevole.
Poi avevano attraversato la Senna per la seconda volta: sul ponte era stato un incanto.
Il fiume sfolgorava di luce; succhiata dal sole, si alzava dall'acqua una nebbiolina; e
si provava una dolce quiete, un benefico refrigerio nel respirare un'aria più pura, non
corrotta dal fumo nero delle officine, e dai miasmi degli scarichi.
Un passante aveva detto il nome del paese: Bezons.
La carrozza si fermò e Dufour si mise a leggere l'allettante insegna d'una trattoria: -
Ristorante Poulin, zuppe alla marinara e fritture, sale da banchetti, pergolati e
altalene. Allora, signora Dufour, ti va bene? Vuoi finalmente deciderti?
2
A sua volta la donna lesse: - Ristorante Poulin, zuppe alla marinara e fritture, sale da
banchetti, pergolati e altalene.. - Poi guardò ben bene la casa.
Era una locanda di campagna, dipinta di bianco, piantata sul margine della strada.
Dalla porta aperta si vedeva lo zinco lucido del banco davanti al quale c'erano due
operai vestiti a festa.
Finalmente la signora Dufour si decise:
- Sì, va bene, - disse. - E poi c'è anche una bella vista.
La carrozza penetrò in un vasto spiazzo alberato che si stendeva dietro la casa,
separato dalla Senna soltanto dalla strada d'alzaia.
Scesero a terra. Il marito saltò giù per primo e distese le braccia per ricevere sua
moglie. La pedana, retta da due sbarre di ferro, era assai distante, cosicché, per
arrivarci, la signora Dufour dovette mostrare l'inizio del polpaccio, la cui primiera
sottigliezza spariva sotto un'invasione di grasso che scendeva dalle cosce.
Dufour, già ringalluzzito dalla campagna, le pizzicò il polpaccio, poi la prese per le
ascelle, e la posò pesantemente a terra, come un enorme fagotto.
Ella si spolverò con la mano il vestito di seta, poi si guardò intorno.
Era una donna di trentasei anni all'incirca, molto in carne, rigogliosa e piacente.
Respirava a fatica, strozzata violentemente nell'abbraccio del busto troppo stretto; la
pressione di quell'arnese sospingeva fino al doppio mento la massa fluttuante del suo
petto troppo abbondante.
Poi la ragazza, poggiando la mano sulla spalla del padre, saltò giù con leggerezza,
senz'aiuto. Il ragazzo coi capelli gialli era sceso posando un piede sulla ruota, e aiutò
Dufour a scaricare la nonna.
Il cavallo fu staccato e legato a un albero; la carretta cadde in avanti, con le stanghe
appoggiate a terra.
Gli uomini, dopo essersi tolta la finanziera, si lavarono le mani in un secchio d'acqua,
e raggiunsero le loro donne, che si erano già messe a far l'altalena.
La signorina Dufour, in piedi sull'altalena, cercava di dondolarsi da sola, ma non
riusciva a prendere abbastanza slancio. Era una bella ragazza di diciotto o vent'anni;
una donna che a incontrarla per la strada si rimane come frustati da un improvviso
desiderio, che lascia per tutta la giornata una vaga inquietudine e un'eccitazione dei
sensi. Era alta, con la vita sottile e i fianchi larghi, aveva la pelle scurissima, gli occhi
grandissimi, i capelli nerissimi. Il suo vestito disegnava nitidamente la ferma
pienezza delle sue carni, accentuata ancor più dal movimento delle reni, ch'ella
faceva per dondolarsi. Le sue braccia tese stringevano le corde, sopra il capo, di
modo che, a ogni slancio, il seno le si sollevava senza tremolio.
Un soffio di vento le aveva portato via il cappello, facendolo cadere dietro; l'altalena
a poco a poco prendeva movimento, e ad ogni ritorno si potevano vedere fino al
ginocchio le sue gambe sottili, mentre arrivava sul viso degli uomini, che guardavano
ridendo, il vento delle sue sottane, più inebriante dei fumi del vino.
Sull'altra altalena la signora Dufour si lamentava di continuo con voce monotona: -
Cipriano, vieni a spingermi; Cipriano, su, vieni a spingermi! - Alla fine questi si
decise, e dopo essersi rimboccate le maniche della camicia, come si fa prima
d'iniziare un lavoro, riuscì con infinita fatica a far muovere sua moglie.
3
Aggrappata alle corde, ella teneva le gambe stese per non strusciare in terra, e godeva
dello stordimento che le dava il va e vieni dell'altalena. Le sue carni, scosse,
tremolavano di continuo, come la gelatina su un piatto. Poi, siccome l'impulso
aumentava, fu presa dalla vertigine e dalla paura. Ogni volta che veniva giù gridava
con voce tanto acuta che faceva accorrere tutti i monelli del paese; in basso, davanti a
sé, ella scorgeva confusamente una fioritura di teste sguaiate e ghignanti ognuna con
una smorfia diversa.
Si presentò una serva, e fu ordinato il pranzo.
- Un fritto di pesciolini della Senna, spezzatino di coniglio, insalata e dolce, - scandì
la signora Dufour, con aria d'importanza. - Portate anche due litri e una bottiglia di
bordò, - disse suo marito. - Mangeremo sull'erba, - aggiunse la ragazza.
La nonna s'era intenerita vedendo il gatto della casa, e da dieci minuti gli andava
dietro, chiamandolo coi nomi più dolci. L'animale, che senza dubbio era internamente
lusingato da tanta considerazione, stava a portata di mano della buona vecchia, però
senza lasciarsi acchiappare, e girava tranquillamente attorno agli alberi, vi si
strusciava tenendo la coda ritta, con un ronron di piacere.
- Guarda! - gridò all'improvviso il giovanotto coi capelli gialli che esplorava
tutt'intorno: - queste sì che sono barche.
Andarono a vedere. Sotto una piccola tettoia di legno erano sospese due magnifiche
iole da regata lavorate e rifinite come mobili di lusso. Riposavano a fianco a fianco,
simili, nella loro lucida e snella lunghezza, a due belle ragazze slanciate; e facevano
venir voglia di correre sull'acqua, nelle dolci e belle serate, o nelle limpide mattine
d'estate, di sfiorare le sponde fiorite dove file di alberi bagnano i rami nell'acqua,
dove tremola l'eterno brivido delle canne e donde, come lampi azzurri, s'involano i
rapidi martin pescatori.
Tutta la famiglia le contemplava con rispetto.
- Oh! queste sì, son proprio belle, - ripeté Dufour. E dava spiegazioni da competente.
Anche lui, diceva, ai suoi bei tempi aveva praticato il canottaggio; anzi, con quelli in
mano (e faceva la mossa di premere sui remi), se ne infischiava di tutti; un tempo,
alle corse, a Joinville, aveva battuto più d'un inglese. E scherzò sulla parola «signore»
con la quale vengono denominati i due montanti che sostengono i remi, dicendo che i
canottieri, con ragione, non uscivano mai senza le loro «signore». Così concionando
s'era riscaldato, e si ostinava a dire che con una imbarcazione come quella avrebbe
scommesso di fare ventiquattro chilometri l'ora, senza correr troppo.
- È pronto, - disse la serva, affacciandosi sull'ingresso. Si precipitarono; ma ecco che
il posto migliore (quello che la signora Dufour aveva scelto fra sé per il desinare) era
già occupato da due giovanotti. Indubbiamente erano i proprietari delle iole, perché
erano vestiti da canottieri.
Erano distesi, quasi sdraiati, sulle sedie. Avevano il viso brunito dal sole, il petto
coperto soltanto da una magliettina di cotone bianco che lasciava nude le braccia,
robuste come quelle dei fabbri. Due bei ragazzoni, forse un po' troppo fieri della loro
prestanza, ma che in ogni movimento mostravano quell'elastica grazia delle membra
che s'acquista solo con l'esercizio, tanto diverso dalle deformazioni che gli sforzi
faticosi e sempre uguali imprimono sugli operai.
4
Costoro nel veder la madre si scambiarono un rapido sorriso, e nel vedere la figlia
uno sguardo. - Cediamogli il nostro posto, - disse uno; - così faremo conoscenza. -
L'altro s'alzò subito e tenendo in mano il berretto nero e rosso offrì cavallerescamente
alle signore il solo luogo del giardino dove non battesse il sole. Gli altri accettarono
profondendosi in scuse, e affinché l'atmosfera campestre fosse accentuata, la famiglia
si sistemò sull'erba, senza né tavolini né seggiole.
I due giovani portarono la loro roba un poco più in là e si rimisero a mangiare. Le
loro braccia nude, ch'essi non tralasciavano di mettere in mostra, imbarazzavano un
po' la ragazza. Fingeva di voltare la testa e di non vederle, mentre la signora Dufour,
più audace, e stimolata da una femminile curiosità che forse era desiderio, le
guardava di continuo e senza dubbio le paragonava con rimpianto alle segrete
bruttezze di suo marito.
Era crollata sull'erba, con le gambe piegate come i sarti, e si dimenava continuamente
col pretesto delle formiche che le erano entrate in qualche posto. Dufour, reso
sgarbato dalla presenza e dalla gentilezza dei due estranei, cercava invano una
posizione comoda, e il giovane coi capelli gialli mangiava come un orco, in silenzio.
- Che bella giornata, eh, signore? - disse la donnona a uno dei canottieri. Voleva esser
gentile a motivo del posto che avevano ceduto.
- Sì, signora - rispose quegli. - Venite spesso in campagna voi?
- Oh! solo una volta o due l'anno, per prendere un po' d'aria; e voi?
- Io ci vengo a dormire tutte le sere.
- Ah! dev'esser bello...
- Sì, certo, signora.
E raccontò con poesia la sua vita d'ogni giorno, in modo tale da far vibrare nel cuore
di quei borghesi lontani dall'erba e affamati di passeggiate fra i campi, quello stupido
amore della natura che li ossessiona per tutto l'anno dietro il banco delle loro
botteghe.
La ragazza, commossa, alzò gli occhi e guardò il canottiere. Dufour aprì bocca per la
prima volta. - Eh, questo sì che è vivere! - disse, e aggiunse: - Un altro po' di
coniglio, cara?
- No, grazie, amico mio.
Ella si voltò di nuovo verso i due giovanotti e indicando le loro braccia, disse: - Non
avete mai freddo, a star così?
Si misero tutti e due a ridere, e spaventarono la famiglia raccontando le loro
prodigiose fatiche, i bagni fatti sudando, le corse fra le nebbie notturne; e si
percossero violentemente il petto, per far sentire che rumore faceva.
- Si vede che siete robusti, - disse il marito, il quale ora non parlava più di quando
vinceva gli inglesi.
Ora la ragazza li guardava di sbieco; il giovane coi capelli gialli, che aveva bevuto di
traverso, tossì violentemente, annaffiando il vestito di seta color ciliegia della
padrona la quale, stizzita, fece portare un po' d'acqua per lavar le macchie.
Intanto il caldo diventava tremendo. Il fiume scintillante sembrava un braciere
ardente, e i fumi del vino sconvolgevano i cervelli.
5
Dufour, squassato dal singhiozzo, s'era sbottonato il panciotto e i calzoni; sua moglie,
mezza soffocata, si slacciava a poco a poco il vestito. L'apprendista, tutto allegro,
dondolava il suo testone di capelli filacciosi e si versava un bicchiere dopo l'altro. La
nonna, sentendosi brilla, se ne stava rigida e silenziosa. Quanto alla ragazza non
lasciava scorgere nulla; soltanto gli occhi le brillavano vagamente e la sua pelle scura
si colorava di rosa alle gote.
Il caffè diede il colpo di grazia. Fu lanciata l'idea di cantare, e ognuno recitò il suo
stornello, mentre gli altri applaudivano freneticamente. Poi, s'alzarono, con gran
difficoltà, e mentre le due donne, stordite, respiravano con forza, i due uomini,
completamente cotti, facevano la ginnastica. Pesanti, flaccidi, col viso paonazzo,
s'attaccavano goffamente agli anelli, senza riuscire a tirarsi su; e le loro camicie
minacciavano di continuo di abbandonare i calzoni per sventolare liberamente come
bandiere.
Intanto i canottieri avevano messo le iole in acqua e vennero gentilmente a proporre
alle signore una passeggiata sul fiume.
- Signor Dufour, vuoi? te ne prego! - gridò la donna. Egli la guardò senza capire, con
uno sguardo da ubriaco. Allora uno dei canottieri s'avvicinò tenendo in mano due
canne da pesca. La speranza di prendere qualche ghiozzo, che è l'ideale dei bottegai,
fece brillare gli occhi istupiditi del brav'uomo, il quale promise tutto quel che si
voleva, e si mise sotto il ponte, all'ombra, coi piedi penzoloni sull'acqua, accanto al
giovanotto coi capelli gialli che s'addormentò accanto a lui.
Uno dei canottieri si sacrificò: prese la madre. - Al boschetto dell'isola degli inglesi! -
gridò allontanandosi.
L'altra iole si muoveva più lentamente. Il rematore guardava la sua compagna, con
tale intensità che non pensava ad altro; era stato preso da un turbamento che lo
paralizzava.
La ragazza, seduta al posto del timoniere, s'abbandonava alla dolcezza dell'acqua. Era
vuota di pensieri, con una grande calma in tutte le membra, in un totale abbandono di
se stessa. Era diventata rossa rossa e aveva l'affanno. Lo stordimento del vino,
moltiplicato dal calore torrenziale che scorreva tutt'intorno faceva inclinare al suo
passaggio tutti gli alberi della riva. Un indefinito bisogno di godimento, un ribollire
del sangue, percorrevano la sua carne già eccitata dagli ardori di quella giornata;
inoltre la turbava quell'intimità sull'acqua, in mezzo al paese spopolato dall'incendio
del cielo, con quel giovane che la trovava bella, che le baciava la pelle con gli occhi,
che penetrava in lei come il sole, col suo desiderio.
L'incapacità di parlare non faceva che aumentare il turbamento ed essi allora si
guardavano attorno. Finalmente egli facendo uno sforzo le chiese come si chiamasse:
- Henriette, - rispose la giovane.
- Guarda! guarda! - disse lui. - Io mi chiamo Henri.
S'erano calmati, al suono delle loro voci; e rivolsero il loro interesse alla riva. L'altra
iole s'era fermata, e sembrava che li aspettasse. Il giovane che la portava gridò: - Vi
raggiungeremo nel bosco; andiamo a Robinson, perché la signora ha sete. - Si piegò
sui remi allontanandosi con tale rapidità che presto lo persero di vista.
6
Un brontolio continuo che prima si sentiva a malapena s'avvicinava rapidamente. Il
fiume stesso sembrava premere, come se il sordo rumore salisse dalle sue profondità.
- Cos'è questo rumore? - chiese la ragazza. Era la cascata dello sbarramento che
tagliava il fiume in due all'estremità dell'isola. Egli si sprofondò in una spiegazione
allorché, tra il rumoreggiare della cascata, sentirono il canto d'un uccello che
sembrava venire assai di lontano.
- Guarda, guarda, - disse egli; - gli usignoli cantano di giorno; vuol dire che le
femmine stanno facendo la cova.
Un usignolo! La ragazza non li aveva mai sentiti, e il pensiero di poterne udire uno
sollevò nel suo cuore una visione di poetici affetti. Un usignolo! Ossia, l'invisibile
testimonio degli appuntamenti che Giulietta invocava dal suo balcone; la musica del
cielo concessa ai baci degli uomini; l'eterno ispiratore delle languide romanze che
aprono azzurri ideali ai poveri cuoricini delle ragazze commosse!
Stava per udire l'usignolo...
- Facciamo piano, - disse il suo compagno; - potremo scendere nel bosco, e sederci
vicino a dov'è lui.
Il canotto sembrava che scivolasse. Spuntarono alcuni alberi dell'isola, la quale aveva
la riva così bassa che gli occhi si perdevano nel fitto del bosco. Si fermarono;
legarono il canotto e s'inoltrarono fra i rami, Henriette appoggiata al braccio di Henri.
- Chinatevi, - disse egli. La ragazza si chinò, e penetrarono in un inestricabile
groviglio di liane, di foglie e di canne, un rifugio introvabile che bisognava per forza
conoscere, e che il giovane, ridendo, chiamava «il suo salotto riservato».
Proprio sulle loro teste, appollaiato su uno degli alberi che li coprivano, l'uccello
continuava a sfiatarsi. Lanciava trilli e gorgheggi, poi emetteva dei suoni prolungati e
vibranti che riempivano l'aria e parevano perdersi all'orizzonte, dispiegandosi lungo il
corso del fiume, e volando sopra le pianure attraverso l'infuocato silenzio che
appesantiva la campagna.
Non parlavano più, temendo di farlo fuggire. Eran seduti accanto, e pian piano il
braccio di Henri girò intorno alla vita di Henriette, serrandola in una dolce stretta.
Tranquillamente la ragazza tolse la mano audace, e seguitò ad allontanarla a misura
che egli la riavvicinava, senza provare imbarazzo alcuno per quella carezza, come se
fosse stata una cosa naturalissima, che ella respingeva con altrettanta naturalezza.
Stava ascoltando l'uccello, smarrita in una sorta di estasi. Si sentiva attraversare da
infiniti desideri di felicità, da subitanei slanci d'affetto, da rivelazioni di sovrumana
poesia, da una tale snervatezza e da un intenerimento del cuore, che piangeva senza
sapere perché. Ora il giovane la stringeva contro di sé; e lei non lo respingeva più,
non ci pensava nemmeno.
All'improvviso l'usignolo tacque. Una voce gridò di lontano: - Henriette!
- Non rispondete, - diss'egli; - farete volar via l'uccello.
Non ci pensava proprio. Rimasero così per un poco. La signora Dufour doveva esser
seduta in qualche posto perché ogni tanto si sentivano vagamente i gridolini della
donnona senza dubbio stuzzicata dall'altro canottiere.
7
La ragazza seguitava a piangere, in preda a dolcissime sensazioni, con la pelle calda e
picchiettata dovunque da piccoli strani brividi. Henri teneva la testa appoggiata sulla
sua spalla; all'improvviso la baciò sulla bocca. Ella si voltò furiosamente e per
evitarlo si gettò indietro, sulla schiena. Ma egli s'abbatté su di lei coprendola col suo
corpo. Inseguì lungamente la bocca che gli sfuggiva, e, raggiuntala, vi incollò la sua.
Allora, trascinata da un grandissimo desiderio, lei gli rese il bacio, stringendo il
giovane, e la sua resistenza crollò, come schiacciata da un peso troppo forte.
Tutto, intorno, era calmo. L'uccello ricominciò a cantare. Dapprincipio emise tre note
penetranti che sembravano un richiamo d'amore, poi, dopo una brevissima pausa,
cominciò con più debole canto lentissime modulazioni.
Si levò un molle venticello, suscitando un mormorio di foglie e tra la profondità dei
rami passarono due ardenti sospiri, che si mischiarono al canto dell'usignolo e al
leggero respiro del bosco.
L'uccello era invaso dall'ebbrezza e il suo canto, aumentando a poco a poco come un
incendio che prenda vigore, o una passione che ingrandisca, sembrava che
accompagnasse un crepitio di baci sotto l'albero. Poi, il delirio della sua gola si
scatenò perdutamente. A momenti pareva che fosse lì lì per svenire, e spasimava a
lungo, melodiosamente.
Talora si riposava un poco emettendo soltanto due o tre suoni leggeri e prolungati,
che finivano all'improvviso con una nota acutissima. Oppure si lanciava in una corsa
furiosa fra uno zampillare di diversi toni, di fremiti, di sussulti, come un impetuoso
canto d'amore seguito da grida trionfali.
Ma tacque, sentendo sotto di sé un gemito così profondo, che si poteva scambiare per
l'addio d'un'anima. Il rumore si prolungò un poco, e finì in un singhiozzo.
Erano molto pallidi, tutti e due, quando lasciarono il loro letto di verdura. Il cielo
turchino apparve loro oscurato; il sole ardente era spento per i loro occhi; s'accorsero
della solitudine e del silenzio. Camminarono rapidamente, a fianco a fianco, senza
parlarsi, senza toccarsi, perché sembravano divenuti irreconciliabili nemici, come se
tra i loro corpi si fosse levato il disgusto, e tra le loro anime l'odio.
Ogni tanto Henriette gridava: - Mamma!
Vi fu un trambusto dietro un cespuglio. Henri ebbe l'impressione d'aver visto una
gonna bianca abbassarsi rapida su un grosso polpaccio; l'enorme donna apparve, un
po' confusa e ancor più rossa, con gli occhi lucidissimi, il petto in tumulto, forse
troppo vicina al suo compagno. Il quale doveva aver visto qualcosa di veramente
buffo, perché il suo viso era attraversato, suo malgrado, da rapide risate.
La signora Dufour lo prese sottobraccio con aria tenera, e s'incamminarono verso i
canotti. Henri, il quale camminava avanti, sempre silenzioso a fianco della ragazza,
credette ad un tratto di udire il rumore soffocato d'un grosso bacio.
Finalmente arrivarono a Bezons.
Dufour, ritornato in sé, era impaziente. Il giovanotto coi capelli gialli stava
mangiando un boccone prima di lasciar l'albergo. La carretta era attaccata, nel cortile,
e la nonna, già sopra, si disperava temendo che l'oscurità li prendesse per la strada,
siccome i dintorni di Parigi non eran sicuri.
Furono scambiate delle strette di mano, e la famiglia Dufour se ne andò. -
Arrivederci! - gridavano i canottieri. Un sospiro e una lacrima risposero.
8
Due mesi dopo Henri, passando per via dei Martiri, lesse su una porta:«Dufour,
chincaglierie».
Entrò.
La donnona traboccava dalla cassa. Si riconobbero subito e dopo uno scambio di
cortesie, egli chiese: - E la signorina Henriette come sta?
- Benissimo, grazie; si è sposata.
- Ah, sì?
Si sentì turbato; aggiunse:
- E... con chi?
- Ma, col giovanotto che ci accompagnava, è lui che dovrà continuare la ditta.
- Ho capito.
Se ne andò con molta tristezza addosso, senza saper neanche bene il perché. La
signora Dufour lo richiamò:
- E il vostro amico? - chiese timidamente.
- Sta bene.
- Fategli i nostri saluti, inteso? E ditegli di venirci a trovare quando passa da queste
parti...
Diventò tutta rossa, e aggiunse: - Ditegli che mi farà molto piacere...
- Non mancherò. Addio!
- No... a presto.
L'anno dopo, in una giornata di domenica molto calda, Henri si vide tornare in mente
tutti i particolari della sua avventura, che non aveva mai scordato, talmente chiari e
desiderabili che se ne andò solo solo nella loro camera, nel bosco.
Rimase di stucco, entrando. C'era lei, seduta sull'erba, triste, e al suo fianco c'era suo
marito, il giovane coi capelli gialli, anche stavolta in maniche di camicia, che
dormiva coscienziosamente, come un bruto.
Nel vedere Henri divenne così pallida che parve sul punto di svenire. Poi si misero a
parlare con naturalezza, come se fra loro non ci fosse stato mai nulla.
E, mentre egli diceva di essere molto affezionato a quel posto, e di andarci spesso, di
domenica, a riposarsi, rievocando tanti ricordi, la donna lo guardò a lungo negli
occhi.
- Io ci penso tutte le sere.
- Andiamo, su, cara, - disse sbadigliando suo marito, - credo che sia ora d'andarcene.
(1881)
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  1. Jean Renoir, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico francese, secondo figlio del pittore impressionista Pierre-Auguste Renoir.
  2. 15 settembre 1894 - 12 febbraio 1979

Una gita in campagna
Un film di Jean Renoir.          


In una domenica del 1860 il bottegaio parigino Dufour porta la famiglia a un picnic sulle rive della Marna. Mentre Dufour pesca con Anatole, suo commesso e futuro genero, i giovani Henri e Rodolphe fanno la corte a sua figlia Henriette e a sua moglie Juliette. Su un'isoletta Henriette fa l'amore con Henri. Un temporale interrompe la gita. Anni dopo, tornata sul fiume col marito Anatole, Henriette incontra per caso Henri. Nessuno dei due ha dimenticato la fugace avventura. Rimangono soltanto tristezza e rimpianti. Tratto da una novella di Maupassant e girato nell'autunno 1935, il film rimase incompiuto per varie ragioni che impedirono le riprese in interni. Nel 1946, a guerra finita, mentre ancora Jean Renoir era negli USA, sua moglie Marguerite ne recuperò il negativo grazie a Henri Langlois della Cinémathèque di Parigi e ne curò il montaggio, interpolando due cartelli per le scene non girate. Incompiuto? Questo piccolo gioiello è “un compendio limpido e perfettamente riuscito della tematica e dello stile di Renoir” (J. Lourcelles). All'amore per i personaggi, tipico del regista, è sottesa una impietosa critica dei costumi sociali. L'ironia della commedia si stempera nella melanconia finale. Come sempre in Renoir, il fascino per l'acqua fa da contrappunto alla precarietà e all'imperfezione degli esseri umani. Attenti alla lezione pittorica del padre Auguste e degli altri impressionisti, i fratelli Renoir (Claude alla cinepresa) trasfigurano in stupore panico la bellezza della natura. Non a torto il dizionario britannico dei film Time Out lo mette tra i 100 migliori film di tutti i tempi. Distribuito in Italia nel 1962 come episodio di Il fiore e la violenza (v.), intitolato “La scampagnata”.(Laura, Luisa e Morando Morandini)

Il film dura complessivamente 38 minuti ed è facilmente reperibile in Internet. I due link seguenti consentono di vederne circa 10 minuti. Il secondo link rappresenta il finale.
J.Renoir: Una gita in campagna(1)
J.Renoir: Una gita in campagna(2)