Ho sotto gli occhi un quiz volto ad addestrare gli studenti all’analisi dei testi letterari a scuola. È un esempio tra i tantissimi, rappresentativo di una tendenza generale.
Si elencano cinque verbi che indicherebbero tutti un «modo di ridere», ovvero un unico stato psicologico che si differenzia soltanto per intensità: 1. Sbellicarsi dalle risate; 2. Sorridere; 3. Ridacchiare; 4. Ridere; 5. Sghignazzare. Si chiede di metterli in «ordine crescente di intensità». La risposta è: 2, 3, 4, 5, 1. In tal modo l’alunno acquisirebbe la «competenza» di distinguere le «sfumature di significato».
Il dramma è che esista la necessità di spiegare perché sia profondamente idiota ritenere che queste cinque manifestazioni siano differenziazioni di intensità di un unico stato psicologico. Chi ha proposto questo quiz evidentemente non ha mai sentito parlare di un «sorriso amaro», di un «sorriso di simpatia», di un «sorriso ironico», e anche di un «triste sorriso». Nessuna relazione necessaria col ridere che, a sua volta, può esprimere tante cose: allegria conviviale, una reazione al comico ma anche sarcasmo, derisione. E se forse quest’ultimo atteggiamento ha qualcosa a che fare con lo sghignazzare, anche lo sghignazzare ricopre una gran varietà di atteggiamenti specifici. Forse soltanto lo sbellicarsi dalle risate può essere considerato un’intensificazione del ridere; non certamente il ridere un’intensificazione del ridacchiare.
Fermiamoci qui per chiederci quali giovani s’intende formare con un simile avvilente appiattimento della ricchezza del linguaggio che trasforma l’interpretazione dei testi nella compilazione di ordinamenti numerici che in me, matematico, suscita un moto di antipatia per l’aritmetica. La risposta è: macchine rincretinite. E si noti che l’esempio proposto non è isolato, bensì tipico.
Nei test Invalsi proposti ai licei si usava un brano di un racconto di Mario Rigoni Stern, in cui una ragazza cadeva sugli sci davanti a un soldato, che la risollevava e poi le chiedeva scusa mentre lei riprendeva la discesa «indispettita e crucciata», come dirà dopo, «arrabbiata per quella stupida caduta». Perché - chiede il quiz - la ragazza se ne va senza dire grazie? Mettere la crocetta su una di queste risposte: A. È seccata dall’invadenza del militare; B. Si vergogna del proprio aspetto; C. È irritata con se stessa per essere caduta; D. Si è fatta male cadendo. Mettiamo la crocetta su C? E perché non anche su A, e non anche un poco su B? Perché il suo stato psicologico non può essere visto come una miscela dei tre e anche di qualcos altro? Quale competenza misura un test del genere a risposta chiusa? Nessuna. Chi ha risposto in maniera «esatta» può essere un perfetto imbecille mentre chi non trova una sola risposta può essere la persona più capace di cogliere la ricchezza e l’ambiguità dell’analisi psicologica proposta da un testo letterario di autentico valore.
Del resto, quando l’uso dei test travalica la verifica di semplici capacità minimali - ortografia, regole grammaticali di base, capacità di far di conto - è inevitabile che si cada in queste miserie.
Risalta in modo evidente come, nel discorso programmatico del presidente del Consiglio, mentre anche sulle scelte più rilevanti in materia economica si sia mantenuta una notevole dose di ambiguità e di approssimazione, su un punto soltanto è stato fornito un riferimento preciso: sull’uso dei test Invalsi per «identificare i fabbisogni» scolastici, identificare le «aree in ritardo» (rispetto a che?), al fine generale di accrescere «i livelli d’istruzione della forza lavoro» e per «valorizzare il capitale umano». Non si dica poi che il sospetto di tecnocrazia è malizioso. Per una scuola che sta perdendo l’anima - declinando sempre più verso lo stato di carrozzone tormentato dal dirigismo burocratico in cui le ultime preoccupazioni sono la cultura, i contenuti, la dignità dell’insegnante e la formazione di soggetti consapevoli e motivati - non si trova di meglio che parlare di «test», nella cornice di un linguaggio economicista, a base di «capitale umano», «forza lavoro», «fabbisogni» e «aree in ritardo»? Invece di capire che ciò di cui ha bisogno l’istruzione è soprattutto la motivazione profonda e la restituzione del «senso» della propria missione? Davvero malinconico.
21 novembre 2011
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