sabato 26 novembre 2011

La fine del mondo(Racconto) di Ezio Scaramuzzino




Nella società agricolo-patriarcale di una volta era sufficiente che un buontempone incominciasse a diffondere la voce su una prossima fine del mondo e, nell’arco di pochi giorni, almeno a livello locale, il più era fatto. Molti si preparavano, o facevano finta di prepararsi, ad ogni evenienza, perché tutti gli uomini, chi più chi meno, avevano ed hanno una paura atavica per i novissimi.

Ricordo che al mio paese una delle ricorrenti voci su una prossima fine del mondo aveva fissato tale data alla mezzanotte tra il 14 ed il 15 Novembre del 1952. Non ricordo e non so per quale motivo fosse stata scelta proprio quella data: ero un bambino allora, andavo alle scuole elementari e la mia cognizione dell’evento è legata soprattutto ai ricordi e alle impressioni che me ne derivarono dal mondo degli adulti.

Quella mattina, a scuola, il maestro D’Alfonso notò con rammarico che mancavano parecchi alunni: era un Venerdì e la classe era più che dimezzata. Facemmo poco a scuola e il maestro ci fece notare che era una bella giornata autunnale, con un sole tiepido che indorava e riscaldava le fredde aule. In effetti non si avvertiva nemmeno la necessità di utilizzare la stufa a carbonella, che già da qualche giorno accendevamo per riscaldare le nostre mani e cercare di prevenire la sofferenza dei geloni che allora colpivano e tormentavano indistintamente tutti i bambini.

Verso le dieci il sole si nascose dietro una nuvola solitaria, ma non ci si fece caso più di tanto. Qualcuno notò che improvvisamente si era alzato il vento, ma anche questo fu considerato un fatto normale. Dopo un po’ altre nuvole nere coprirono il cielo, che ne fu completamente oscurato. Sembrava che dovesse piovere da un momento all’altro, ma caddero soltanto alcune gocce. I bambini eravamo un po’ preoccupati, ma anche contenti all’idea che in quelle circostanze difficilmente il maestro potesse assegnarci dei compiti, o, peggio, farci svolgere uno dei temutissimi esercizi di Analisi logica o di Aritmetica. Verso le undici però, all’improvviso, una strana luce giallognola riempì la nostra aula a pianterreno, una delle tante aule disseminate per il paese, al posto dell’edificio scolastico unico ancora considerato un lusso in quei tempi di ristrettezze. Un oh di meraviglia uscì dalla bocca di tutti noi, che istintivamente ci precipitammo alla finestra per cercare di capire l’origine di quella strana luce, mentre il maestro cercava inutilmente di farci ritornare ai nostri posti.

Il maestro D’Alfonso, il mitico maestro D’Alfonso, terrore degli alunni e al quale va la mia riconoscenza, per le tante cose che ho imparato sotto la sua guida. Quel giorno si arrese anche lui: cercò di tenerci calmi, di farci capire che quella strana luce gialla non era né tanto strana, né tanto gialla, ma fu tutto inutile. Avevamo paura. Dai discorsi degli adulti avevamo anche noi percepito qualcosa sulla imminente fine del mondo ed avevamo paura. Dopo un po’ alcune mamme si presentarono in classe per prelevare i figli ed il maestro non si oppose, anzi verso mezzogiorno decise di mandare tutti a casa e raccomandò ai pochi che eravamo rimasti di affrettarci sulla via del ritorno. Presi la mia pesante cartella e di buona lena mi diressi verso casa. Abitavo all’altro capo del paese e fui costretto ad attraversarlo quasi per intero.

Ad un crocicchio, all’uscita di una cantina, vidi Ciccio Larino, il più famoso ubriacone del paese. Zigzagava paurosamente, mentre la moglie cercava di tenerlo in piedi e di riportarlo a casa. Quel giorno Ciccio, per ubriacarsi, non aveva aspettato la sera, come era solito fare: aveva anticipato i tempi, nella paura che l’imminente fine del mondo potesse impedirgli l’ultima grande bevuta della sua vita. Mentre la moglie lo risospingeva verso casa, egli protestava ad alta voce, blaterando frasi sconnesse nelle quali si potevano distinguere solo alcune parole, “fine del mondo…ultima…ultima volta…mai più”.

Più in là incontrai Sandrino, un giovane buono e sempliciotto, con il quale ogni tanto mi intrattenevo, divertendomi anche a prenderlo in giro. Mi chiese dove fossi diretto così di fretta, perché tanto stava per arrivare la fine del mondo e saremmo morti tutti. Gli dissi che doveva cercare un riparo, che doveva mettersi in salvo. E lui, con il suo dire lento e strascicato, mi replicò:” Sì… sì, te la sai tu…vai, vai tu, che sei valente…Io non mi muovo. Se non c’è rimedio, perché preoccuparsi?... E se poi il rimedio c’è, perché preoccuparsi?”.

Il suo discorso forse non faceva una grinza, ma io avevo fretta di arrivare a casa e lo piantai in asso. Feci in tempo a vedere Mario Panza, tutto indaffarato a bussare alle porte dei vicini ed a chiedere notizie della figlia Luigina, che già allora aveva preso l’abitudine di sparire ogni tanto. Da lontano vidi mia madre che mi veniva incontro, mentre continue folate di vento le scompigliavano i capelli e lo scialle che teneva addosso. A casa trovai uno strano fermento. Franca, la donna di servizio che viveva con noi, mi abbracciò con trasporto e mi disse: “Zinnì,(così mi chiamava), non aver paura, ché ci sono io”. Ero il più piccolo di casa e forse proprio per questo ero trattato dagli altri con particolare affetto. I miei fratelli intanto guardavano all’insù attraverso i vetri della finestra e cercavano anche loro di capire il perché di quello strano chiarore giallastro.

Si pranzò di malavoglia quel giorno anche perché i nostri pensieri, se anche nessuno era disposto ad ammetterlo, erano tutti rivolti a quella benedetta o maledetta fine del mondo che sembrava preannunziarsi in modo cosi sinistro. Passarono le ore e solo dopo il tramonto quel chiarore giallastro si dissolse per lasciare il posto alle prime ombre della sera. Per le strade non si vedeva nessuno, perché tutti erano tappati in casa ad aspettare la mezzanotte. Anche gli animali erano partecipi della comune paura e sembravano spariti. Fritz, il nostro indimenticato e meraviglioso cane Fritz, se ne stava tutto mogio in un angolo, accanto al caminetto, e mugolava pietosamente. A sera mio padre, nel frattempo ritiratosi dalla campagna, cercò di risollevare inutilmente l’atmosfera triste che aleggiava intorno e durante la cena si consentì qualche battuta spiritosa, ma tutti i suoi tentativi caddero nel vuoto.

Si erano fatte le otto, poi le nove: mancavano solo tre ore alla fine del mondo. Tutt’intorno c’era un silenzio assoluto, interrotto soltanto dal sibilo del vento, che continuava a soffiare. Ad un certo punto si avvertì sulla strada un tramestio di passi, come di gente che si dirigesse in fretta da qualche parte. Mia madre si affacciò sulla porta per avere notizie, per capirci qualcosa, e delle donne in gruppo, con la corona del Rosario in mano, la invitarono ad andare con loro verso la piazza principale del paese, di fronte alla Chiesa madre. Quando mia madre ci comunicò la notizia, fu solo un attimo. Tutti, come se non aspettassimo altro, in fretta uscimmo di casa e, senza neppure richiudere l’uscio, ci accodammo. Man mano che avanzavamo, le file si ingrossavano e, quando arrivammo in piazza, ci si presentò davanti agli occhi uno spettacolo incredibile.

Centinaia di donne pregavano ad alta voce, imploravano la Madonna, piangevano. Uomini, che forse non avevano mai pregato in vita loro, in quelle ore si battevano il petto e recitavano il Rosario. Persone, che si erano sempre odiate nel corso della loro esistenza, stavano le une accanto alle altre, accomunate da un’unica paura e da un’unica speranza. Inimicizie secolari si erano improvvisamente dissolte. Ma non mancavano persone, per lo più uomini, che in un angolo della piazza pensavano a ben altre cose. Costoro avevano apparecchiato dei tavoli, ammonticchiandovi cibarie di ogni genere: vino, salsicce, soppressate, capicolli, formaggio pecorino, frutta. Molti, tra una preghiera e l’altra, andavano a rifocillarsi e tanti altri davano fondo alle loro capacità masticatorie per quella che, con tutta evidenza, consideravano l’ultima mangiata e l’ultima bevuta della loro vita.Verso le undici molti erano già avvinazzati e non mancavano di quelli che, ormai satolli ed incapaci di ingurgitare altro, si erano pure appisolati. La confusione, il tramestio, le voci biascicate, imploranti e preganti, le urla qualche volta, sembravano aver creato un’atmosfera da bolgia dantesca, ma, quando si appressò la mezzanotte, improvvisamente un silenzio spettrale ricoprì la piazza.

L’orologio della chiesa incominciò a battere i rintocchi. Uno, due, tre. Al sesto rintocco una voce solitaria implorò, gridando, il perdono di Dio. Sette, otto, nove, dieci, undici…dodici. Non era accaduto niente. Eravamo tutti lì a constatare che il mondo continuava come prima. Tutti piansero, gridarono, gioirono, si abbracciarono. Donne, che in vita loro non avevano mai baciato altro uomo, che non fosse il loro marito, si trovarono intrecciate e scambiarono baci con sconosciuti, con gente del popolo, con giovani invasati. Qualcun altro tirò fuori una fisarmonica e quelle stesse persone, che fino a poco prima si erano battute il petto ed avevano implorato la pietà divina, ora ballavano e si facevano trascinare dai ritmi giocosi di una tarantella.

Si ballò e si cantò a lungo quella notte, fino all’alba, mi pare di ricordare. Ricordo bene comunque, ed in maniera nitida, che il giorno successivo non si andò a scuola. Il mondo aveva rischiato di scomparire e, di fronte ad un fatto del genere, il maestro D’Alfonso poteva pure aspettare. La vita sarebbe continuata lo stesso ed avrebbe conservato il suo fascino, anche con qualche esercizio in meno di Analisi logica o di Aritmetica.

Ezio Scaramuzzino

2 commenti:

  1. Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.

    RispondiElimina
  2. Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.

    RispondiElimina