In quei primi giorni di un tiepido ottobre del ’55 Enzino era contento di essere venuto nel collegio dei preti salesiani di Siberene. Si era già procurato tanti nuovi amici, si divertiva, studiava ed imparava con regolarità, insomma si accorgeva di non rimpiangere la vita libera e selvaggia che fino ad allora aveva condotto al suo paese.
Certo non erano tutte rose e fiori. Il cibo era abbondante, ma non di eccelsa qualità o almeno non sempre di suo gradimento, le camerate e le varie stanze del collegio erano molto fredde, ma niente sembrava procurargli particolari problemi. Tutto gli sembrava un gioco e a questa atmosfera giocosa egli si adeguò con l’entusiasmo dei suoi anni di ragazzo che si affacciava alla vita.
Gli sembrò un gioco divertente e curioso anche una strana consuetudine che i preti avevano imposto ai collegiali, per disabituarli a parlare in dialetto. Esprimersi in Italiano era allora considerato indice di perbenismo, quasi una promozione sociale, anche se pochi tra i ragazzi sapevano farlo decentemente e molti anzi sbandavano paurosamente nell’uso dei congiuntivi e delle proposizioni subordinate. In conseguenza di tutto ciò ogni mattina il prefetto incaricato della disciplina, in genere un prete molto giovane, consegnava una certa chiave a chi per primo fosse stato sorpreso a parlare in dialetto. Chi riceveva la chiave aveva la possibilità di passarla a sua volta ad un altro, in una sequenza di trasferimenti che si esaurivano la sera all’ora di cena. Chi si ritrovava con la chiave veniva inesorabilmente punito.
Il primo giorno il prefetto di disciplina si premurò di avvisare i convittori, ma, nonostante l’avviso, non ebbe alcuna difficoltà dopo qualche minuto a piazzare la chiave. La quale passò di mano in mano parecchie volte e verso mezzogiorno andò a finire nelle mani di Enzino. Un amico del suo stesso paese, Guglielmo, gli si era rivolto con molta naturalezza facendogli una domanda in dialetto e lui, senza nemmeno pensarci, aveva istintivamente risposto in dialetto. Avrebbe potuto protestare per l’evidente tranello che gli era stato teso, ma non protestò e non si preoccupò più di tanto. Era convinto che alla fin fine si trattava di un gioco, con una punizione simbolica, quindi accettò in consegna la chiave e la conservò diligentemente in tasca, ripromettendosi di trovare una vittima in seguito.
Non ci pensò più. Quel pomeriggio studiò, preparò i compiti per l’indomani, recitò le preghiere comuni con gli altri convittori e, verso sera, si ritrovò con tutti nell’ampio giardino interno, dove si faceva una breve sosta prima della cena.
Improvvisamente avvertì la sensazione indistinta di qualcosa da fare, di cui non riusciva ad avere piena consapevolezza. Certo, la giornata era trascorsa colma di impegni vari e a lui sembrava di non aver trascurato nulla, eppure continuava ad avere quella strana sensazione. Come un lampo gli tornò in mente la chiave che era rimasta nella sua tasca, il che significava che per lui poco più tardi ci sarebbe stata la punizione.
Più di ogni altra cosa, a bruciargli fu il pensiero dell’umiliazione che avrebbe patito di fronte ai suoi compagni per quella che era considerata quasi un’onta. Ma ormai era tardi e non avrebbe trovato il modo di lasciare il “fardello” che, forse troppo leggermente, aveva immaginato di potere scaricare presto su qualcun altro.
La mano, infilata in tasca, continuava a rigirare quel piccolo oggetto che sembrava scottare. Si chiese perché fosse stata scelta proprio una chiave per un gioco all’apparenza banale ma che, a quel che aveva appreso in giro, era da tempo immemorabile una tradizione di quel collegio. Che cosa poteva significare quella chiave? C’era una spiegazione logica a tutto ciò o si trattava di una fatto casuale e senza importanza?
Pensò che una chiave serve per aprire qualcosa. Forse doveva aprire la sua mente ai tesori della conoscenza ? O era il caso di ricordare che una chiave serve semplicemente ad aprire una serratura? Era possibile, certo…una serratura…ma quale?
Si accorse che era solo nella sala da studio, né riusciva a ricordare come ci fosse finito, mentre i suoi compagni si erano diretti al refettorio per la cena. Si guardò attorno, come per cercare qualcosa, ma dovette ammettere che nemmeno lui sapeva che cosa cercare.
Il collegio faceva parte di un antico monastero e quella sala era ricca di stucchi e decorazioni. Le pareti erano divise in riquadri di pannelli di legno, ognuno dei quali riproduceva una scena di vita dei santi. La sua attenzione fu attratta dall’immagine di San Giuseppe da Copertino, in basso a destra, sulla quale campeggiava la scritta Scientiae Ianuam Apĕri .
Guardò con attenzione quella figura sulla quale il suo occhio era già passato tante volte in modo distratto e notò un foro nel rilievo della cornice. Un’idea gli attraversò la mente e quasi istintivamente inserì nel foro la chiave che aveva in mano. In modo naturale questa si adattò e scivolò verso l’interno , andando a cercare l’incastro giusto con un movimento rotatorio che fece scattare un meccanismo. Il pannello si allontanò di qualche centimetro dalla sua sede e bastò una leggera spinta perché, con un cigolio lamentoso, esso si aprisse come una porta su un ambiente polveroso e buio.
I suoi occhi si adattarono presto all’oscurità rischiarata appena dalla luce che entrava dalla sala da studio e scoprirono quello che forse per secoli era rimasto nascosto: una biblioteca. Entrò con qualche precauzione e si guardò attorno. In ogni scaffale, identificato da una targhetta posta al centro in alto, erano diligentemente riposti antichi codici, incunaboli, papiri, pergamene. Si avvicinò alla targhetta fin quasi a toccarla e lesse Homeri opera omnia . Su un’ altra lesse Vergilii opera omnia. Fu preso dall’entusiasmo per queste scoperte e sentì la smania di guardare gli altri scaffali, affrettandosi, mettendosi quasi a correre. Attraversò stanze, corridoi, non sapeva più dove si trovasse di preciso e pensò che forse avrebbe avuto qualche difficoltà a ritornare indietro. Si sentiva come Teseo nel labirinto di Minosse a Creta, ma avvertiva altresì con angoscia che nessuna Arianna lo avrebbe aiutato.
Ad un certo punto si accorse che stava ansimando e fu preso dal panico. Cercò di trovare una via d’uscita, ma , dopo aver girato a lungo, si ritrovò al punto di partenza. Nella penombra intravide che da uno scaffale pendeva il capo di un gomitolo e pensò che gli sarebbe stato utile per orientarsi. Allungò una mano per afferrarlo, ma non ci riuscì. Quel capo oscillava mollemente e, ogni volta che egli si accostava con la mano, sembrava sfuggirgli come per un influsso malefico. Decise di appoggiarsi ad uno stipite, per sollevarsi ancora un po’, e ne afferrò il pomello. Ma con terrore si accorse che lo stipite gli stava crollando addosso e allora emise un grido lungo, disperato, straziante.
Dopo un po’ aprì gli occhi e vide altri occhi, che lo guardavano preoccupati dall’alto in basso. Riconobbe il volto di Guglielmo, del prefetto di disciplina e di tanti altri. Quest’ultimo gli chiedeva se per caso non si sentisse bene e allora Enzino capì che era stato solo un brutto sogno, un incubo.
Si sentì risollevato, tranquillizzò tutti, spiegò che non era successo niente e tutti ritornarono ai loro lettini. Solo il prefetto si soffermò ancora un po’, scrollò la testa e gli disse:"Enzino, domani ne riparleremo!".
Ezio Scaramuzzino
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