Ogni domenica a
mezzogiorno, al paese, la famiglia Bersi andava a Messa in fila indiana. I
paesani, raccolti davanti al bar, potevano così assistere ad una strana
processione: c’era lei, Violetta, una ragazza bellissima; poi Radamès, il fratello, di professione
venditore ambulante di frutta e verdura; chiudeva la fila l’anziana madre, Dorotea,
una donna minuta e quasi insignificante, sempre vestita di nero. Mancava il
padre, morto qualche anno prima, appassionato melomane, che si era compiaciuto
di dare ai due figli quei nomi così
insoliti dalle nostre parti.
La ragazza era nel
pieno del suo splendore giovanile. Alta, slanciata, con dei neri capelli
corvini, sembrava un fiore venuto da
chissà dove ed approdato misteriosamente, attraverso strani incroci di razze e
di generazioni, in una landa desolata,
dove splendeva nella sua solitaria bellezza. Era in età da marito ormai e non si rassegnava a restare zitella. Ogni
domenica, durante la sfilata in piazza, lanciava ai giovanotti delle occhiate furtive e audaci nello stesso
tempo, che erano degli espliciti inviti a farsi avanti, a osare, a cogliere
quel fiore. Ma quel fiore sembrava destinato a rimanere incolto. Nonostante la
sua bellezza, Violetta non riusciva a trovare un cane che si interessasse a
lei. I paesani la guardavano sfilare, pensavano a quel che si diceva in giro su
quella maledetta tabe familiare, a volte la commiseravano, a volte sorridevano
alle sue occhiate provocatorie.
I mesi e gli anni passavano, Violetta era ormai quasi una donna, Radamès continuava a
vendere la sua frutta tra gli sberleffi delle comari, la madre sembrava
rimpicciolirsi sempre di più, i paesani continuavano ad assistere, come ad un rito preparatorio della Messa, alla sfilata
domenicale. Ma non succedeva niente. Eppure, un giorno di maggio, una notizia
incredibile si sparse per il paese: Violetta aveva trovato il suo uomo. C’era
chi diceva che era un vecchio, chi diceva che proveniva da Cerenzia, chi diceva
che si trattava solo di un poveruomo in cerca di una sistemazione. Una cosa era certa: la
domenica successiva, alla sfilata domenicale, tutti avrebbero potuto vedere e
toccare con mano.
E, la domenica successiva, l’attesa non fu delusa. A
mezzogiorno in punto, la famiglia Bersi affrontò la curiosità popolare e sfilò
in processione, aperta questa volta da Violetta che aveva al suo fianco il
nuovo arrivato. C’ero anch’io quel giorno, giovane di quindici anni, ad
assistere alla parata. Ricordo che la curiosità era altissima: chi era in
strada faceva ala al passaggio del corteo, chi era in casa accorreva all’uscio
e dietro molte persiane socchiuse tante altre persone osservavano senza essere viste. Del fidanzato
di Violetta si scoprì e si seppe tutto:
si chiamava Alfredo, quasi che il destino avesse voluto rinverdire le vicende della Traviata verdiana, era di Caccuri, un
paese vicino Cerenzia, era un contadino a giornata, d’età chiaramente molto più grande di Violetta, ma in compenso molto più basso di lei, tanto che riusciva
appena a sfiorarle la spalla.
Le nozze furono celebrate in sordina di lì a qualche mese. Poi
le sfilate domenicali si diradarono fino
a sparire del tutto e anche di Violetta e di suo marito a un certo punto non si
parlò più. Figli non ne venivano e la famiglia viveva nella modestia, come in
fondo era sempre vissuta. Alfredo ogni tanto faceva qualche lavoro a giornata,
Radamès continuava a vendere la sua frutta in giro, la vecchia madre godeva
forse di una modestissima pensione. Violetta, da parte sua, era andata incontro
ad una incredibile trasformazione: il matrimonio le aveva dato una certa
tranquillità, che si rifletteva nelle rotondità del suo viso soddisfatto e del
suo corpo appagato.
Ma i tempi erano difficili e tanti incominciavano a partire
per la Germania. Dopo le prime partenze isolate, fu la volta di intere famiglie
che si spostavano un po’ dovunque al Nord. Un bel giorno partì anche Alfredo,
per Milano. I primi tempi ritornò abbastanza di frequente, poi incominciò a
diradare i suoi ritorni, alla fine non tornò quasi più, mettendo in ambasce
Violetta.
Una notte di giugno dei primi anni sessanta, alle primissime
luci dell’alba, stavo ritornando a casa, reduce da qualcuna delle mie
scorribande notturne con gli amici, e mi trovavo a passare proprio davanti alla
porta di casa della famiglia Bersi. Ne
uscì una persona che conoscevo fin troppo bene, il macellaio del paese, un
energumeno, che prima si allontanò di fretta, credendo di non essere stato
visto, poi tornò sui suoi passi e mi venne decisamente incontro. Non disse una
parola, solo mi appoggiò una mano sulla spalla, poi la spostò verso il collo e
strinse dolcemente, mentre sollevava l’altra mano verso la sua bocca e metteva
il dito indice di traverso sulle labbra, invitandomi con quel gesto eloquente
a tenere la bocca chiusa.
Non c’era bisogno che me lo imponesse lui: non dissi una
parola. Ma parlò qualcun altro, evidentemente, perché di lì a qualche giorno
tutto il paese riprese a parlare di Violetta. La quale, una volta assaporate le gioie del matrimonio,
non era più disposta a rinunziarvi. E non vi rinunziò, allietando le notti non
del solo macellaio, ma anche di altri dopo di lui. Il tutto con grande
scandalo del paese, dove ormai non si parlava d’altro e dove ci si chiedeva
quale ruolo giocassero in queste tresche la madre ed il fratello di Violetta,
considerati poco meno che una maîtresse
e un paraninfo.
Dopo il macellaio, fu la volta del vecchio daziere, che
probabilmente, in un rigurgito di giovinezza, assaporò con Violetta gli ultimi
piaceri proibiti della sua vita. Il vecchio, vedovo da tanti anni e con i figli
emigrati, avrebbe continuato a lungo la
sua tresca, se solo fosse stato più giovane. Ma una notte, proprio mentre si
intratteneva con Violetta, fu colpito da un ictus e ci rimase secco. Qualcuno,
per evitare lo scandalo, lo portò fino a casa sua e lo adagiò sul letto,
chiamando il medico che si limitò a
constatarne il decesso.
Poi arrivò il turno del sagrestano, un uomo tutto casa e
chiesa, sposato e con otto figli. Aveva costui un andamento molle e rilassato,
un volto vagamente malaticcio e in tanti si chiedevano dove
trovasse l’energia per tenere a bada la moglie ormai disfatta dagli anni
e dalle numerose gravidanze, oltre a Violetta, la quale evidentemente non
andava troppo per il sottile nelle sue scelte. Ogni mattina il sagrestano andava in chiesa a pulire e a preparare
la prima Messa del parroco. Chi, anche da lontano, l’avesse osservato in queste
sue incombenze, avrebbe potuto notare che, prima del rito, quasi sempre egli
confabulava con il parroco, il quale alla fine gli faceva il segno della Croce
e gli dava evidentemente l’assoluzione dal peccato commesso qualche ora prima.
E poi arrivò il turno di Demetrio Barbuto, giovane
carabiniere, originario di San Mauro Marchesato. Demetrio, mandato in forze
presso la locale stazione dei carabinieri, appena arrivato, per prima cosa si diede uno sguardo attorno per trovare
qualche preda da destinare alle sue insaziabili velleità amatorie. Non si sa
come, finì col cadere nelle reti di Violetta, ma con una differenza
fondamentale rispetto ai precedenti spasimanti: egli pretendeva l’esclusiva.
Era ossessionato dall’idea che la donna potesse tradirlo e questa ossessione lo
indusse a sorvegliarla.
Comunicò falsamente a
Violetta che per tre giorni sarebbe stato in missione e invece, una notte di Settembre,
si appostò dietro la casa. Attese a lungo nel buio, mentre poco lontano dei
cani ululavano alla luna piena, ma verso le due vide muovere un’ombra. Si impose di aspettare un po’, poi
si avvicinò all’uscio, aprì dolcemente con le chiavi di cui era già fornito e
si diresse decisamente verso la stanza da letto. Con una mano estrasse la
pistola e con l’altra accese improvvisamente la luce. Quello che si presentò
davanti ai suoi occhi sembrò la scena di un film d’altri tempi, in un
fotogramma bloccato: Violetta era in piedi sul letto, con il lenzuolo tirato
alla meglio per coprirsi, con la bocca aperta ma incapace di emettere un
grido, mentre nell’altra metà del letto
c’era il sagrestano, rannicchiato su se stesso e nudo come un verme. Il
carabiniere, calmo e quasi in una sorta di trance, impose al sagrestano di
rivestirsi e di andarsene, poi rivolse lentamente l’arma contro Violetta, mirò
alla fronte ed esplose un unico colpo, mortale. Infine si diresse quasi di
corsa alla caserma, come per liberarsi
del peso che l’opprimeva, confessò tutto e fu arrestato dai colleghi.
Il pretore di Santa Severina, giunto di lì a qualche ora, effettuò un minuzioso sopralluogo
sulla scena del delitto, poi interrogò la madre ed il fratello di Violetta, accorsi
subito dopo lo sparo, e fece sequestrare quanto ritenuto utile per il processo.
Alfredo, come marito della vittima, fu convocato dal giudice
ed arrivò velocemente un pomeriggio,
giusto in tempo per il funerale, che si svolse sotto una pioggerellina
fastidiosa e incessante. Alla fine passò dalla stazione dei carabinieri, ove
era stato invitato per la restituzione di alcuni beni personali della moglie. Tra tali beni erano compresi un libretto bancario al portatore, con circa
ventimila lire ed un sacchettino con
circa dieci monete di cinquecento lire
d’argento. Ma l’attenzione di Alfredo fu attratta soprattutto da uno strano oggetto, che egli non aveva mai
visto, di cui non riusciva ad indovinare l’uso e che era descritto, nel
linguaggio burocratico del tempo, come “oggetto in avorio, ad uso delle cortigiane”. Chiese
timidamente qualche delucidazione al maresciallo, ma non ottenne risposta. Poi
firmò velocemente la ricevuta di consegna e si risolse a pensare subito alla
partenza. A Milano aveva messo su una piccola impresa di pulizie e da qualche
giorno aveva preso in appalto un lavoro,
che non poteva assolutamente rinviare.
Ezio Scaramuzzino
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