Bozzetto di paese
Tra i giuochi della mia
fanciullezza c’era quello d’ “u vettu e ra squigghia”, oggi del tutto scomparso
e sostituito da ben altri giochi e passatempi. A quel che ne so, il giuoco ha
tanti nomi diversi nei vari dialetti, come “lippa” o “scianco”, ed era anche praticato
con un’infinità di regole diverse. Al mio paese si giocava con due legni, di
cui uno più lungo, il vettu, e l’altro più corto e appuntito sui due lati, la
squigghia. Si scavava per terra una piccola fossa lunga e stretta, dove si
poneva la squigghia, che veniva fatta rimbalzare e colpita in aria con il
vettu, allo scopo di farla andare il più lontano possibile. Vinceva chi mandava
la squigghia più lontano degli altri. Ma c’erano alcune varianti e soprattutto
esso era molto pericoloso. Quella squigghia spesso volteggiava in modo
inaspettato e non era infrequente che cadesse sulla testa di qualcuno, ma anche
il vettu faceva la sua parte, perché era spesso maneggiato in modo maldestro e
tante volte, invece di colpire la squigghia, colpiva la testa di qualche
malcapitato, quando non sfuggiva dalle mani di qualcuno, con esiti del tutto
imprevisti.
In genere, proprio per evitare
incidenti agli estranei, si andava a giocare su una collinetta fuori paese,il “timpone”, oggi deturpata
dalla speculazione edilizia, ma allora ricoperta interamente di ulivi. Tra i
rami di quelle piante spesso finiva col
posarsi la squigghia, che poi cercavamo di recuperare con un fitto
lancio di pietre e con qualche pericolo supplementare per le nostre teste.
Allora i bambini erano spesso
rasati a zero, forse per motivi di prevenzione, perché i pidocchi non erano
degli animaletti del tutto sconosciuti nelle aule scolastiche, ma anche per
motivi economici, perché così si poteva maggiormente diluire nel tempo il
successivo taglio di capelli. In quelle circostanze, i bambini esibivano le
cicatrici sulla testa come dei trofei di
guerra e non era da escludersi che qualcuno, che si fosse trovato con la testa
completamente liscia, se ne vergognasse un pochino.
Ogni tanto, dopo l’uscita da
scuola, specie in inverno quando le giornate erano corte e al pomeriggio
non si aveva molto tempo a disposizione,
non disdegnavamo di fare una partitella veloce, anche per strada o addirittura
nella piazzetta principale del paese. Le strade erano in terra battuta ed era facile scavare la
fossetta di partenza per la squigghia. Le auto erano rare e, quando se ne
vedeva qualcuna, ci si fermava per un po’. Più frequenti erano gli asini, ma in
quel caso ci si limitava solo a qualche precauzione, consapevoli del fatto che
gli asini, abituati alle legnate dei contadini, probabilmente non avrebbero
fatto caso all’eventuale colpo della squigghia. Qualche volta passavano greggi
di capre o di pecore, di ritorno dalla campagna, e allora l’interruzione era
lunga, perché in quel caso bisognava anche aspettare che si diradasse il
polverone suscitato da centinaia di animali, chiaramente non disposti a
sollevare le zampe per consentirci di riprendere subito il giuoco.
Se poi passava qualche persona, ci
si regolava di volta in volta, a seconda
della suscettibilità e della pericolosità degli interessati. Quando passava nonna Betta, c’era poco da scegliere:
ad evitare guai, bisognava solo smettere. Nonna Betta era una simpatica
vecchietta di circa ottanta anni, vispa e incline a scherzare un po’ con tutti,
ma che non sopportava in alcun modo gli schiamazzi e gli strilli dei bambini. Sembrava
farlo apposta: non appena si accorgeva che noi stavamo giocando nello spiazzo
antistante la cappelletta di San Leonardo, appariva sulla porta di casa e noi
ci facevamo subito un cenno d’intesa. Poi, lentamente e con apparente
noncuranza, andava a fermarsi proprio sulla fossetta della squigghia, che lei
ricopriva completamente con la sua gonna
larga a campana e lunga fino ai piedi. Non si moveva da lì e allora qualcuno,
impaziente di riprendere il giuoco, infilava una mano sotto la sua gonna per
riprendere la squigghia, che però risultava quasi sempre bagnata, mentre la
fossetta a terra era inumidita o ripiena di un liquido giallastro chiaramente
identificabile.
Con tanta pazienza provvedevamo a
creare un’altra squigghia e a scavare un’altra fossetta. Ma, dopo un po’, lei
abbandonava la sua postazione e, come nel gioco dei Quattro cantoni, si posizionava
sulla nuova fossetta e sulla nuova squigghia, che provvedeva subito ad irrorare
con il contenuto di quella che a noi
appariva come una vescica gigantesca ed inesauribile. Il giochino poteva
essere ripetuto all’infinito, perché evidentemente nonna Betta aveva
un’incredibile capacità di immagazzinamento, di controllo e di distribuzione diretta
e senza ostacoli dei suoi liquidi, talché il più delle volte decidevamo
di ritirarci, pur con qualche imprecazione, rinviando il tutto a momenti più
fortunati.
Si giocava così al tempo della
mia fanciullezza, in modo semplice e con giuochi costruiti interamente da noi
stessi. Non si pretendeva molto dalla
vita e si era felici quando si poteva giocare
e si poteva trascorrere qualche ora in modo spensierato. Ma qualche
volta i problemi nascevano e comportavano spiacevoli conseguenze.
In un giorno particolarmente
rigido di Dicembre, le fontanelle pubbliche erano ghiacciate e presentavano al posto
dell’acqua delle strane stalattiti
che consentivano ai bambini un insolito
passatempo. Anche lungo le strade, là dove una volta si formavano delle pozze
d’acqua, si vedevano delle incredibili lastre di ghiaccio, ma questo non ci
aveva impedito, all’uscita da scuola, di dedicarci un po’ al nostro giuoco preferito. Quando
arrivò il mio turno di battuta, dopo aver fatto rimbalzare la squigghia,
riuscii a colpirla con precisione. Il
legnetto volteggiò nell’aria, favorito anche dal leggero vento di tramontana,
poi, con una parabola morbida e sinuosa, roteò su se stesso e sembrò finalmente
volersi posare per terra. Ma finì su una lastra di ghiaccio, schizzò un’altra
volta in aria e ultimò la sua rincorsa su una finestra della bottega artigiana
di mastro Eugenio, calzolaio, che
proprio dietro quella finestra stava dando gli ultimi colpi di martello ad una
scarpa che aveva appena finito di aggiustare.
Un sordo rumore di vetri infranti
fu l’ultima cosa che sentimmo, perché, già un attimo dopo, tutti eravamo
scappati via e la strada si presentava incredibilmente e misteriosamente deserta. Ma mastro Eugenio
non impiegò molto a sapere quel che era successo e soprattutto chi era il
colpevole. Lo capii un paio d’ore dopo, quando mi decisi a rientrare a casa, cercando
di assumere un atteggiamento che avrebbe voluto essere disinvolto. Mia madre,
come talvolta faceva in circostanze del genere, me le diede di santa ragione. Incominciai
a covare un sordo rancore nei confronti di quell’omino basso e spelacchiato,
che oltre tutto aveva preteso anche la riparazione del danno, cosa che, in quei
tempi di ristrettezze, non era senza conseguenze per i bilanci familiari.
Qualche giorno dopo, quando il
mio rancore era ancora ben lontano dall’essere sopito, sul far della sera, vidi
mastro Eugenio che aveva chiuso la bottega e si apprestava al ritorno a casa.
Nascosto dietro un muretto, tirai fuori la fionda che portavo sempre con me, la
caricai con un bel ciottolo, presi la mira e lanciai. Forse mai in precedenza
mi era riuscito un tiro migliore. Il ciottolo si diresse inesorabile verso il
bersaglio, ma sfiorò soltanto la testa di mastro Eugenio, colpendo in pieno il
bel Borsalino nero che egli portava sulla capoccia, certo per difendersi dal
freddo, ma soprattutto per nascondere la calvizie, che molto lo angustiava. Il
calzolaio sentì solo il soffio del ciottolo che l’aveva sfiorato, ma vide il
suo cappello rotolare nel fango e fece una rincorsa per recuperarlo. Gridò
disperato, quando vide che il suo bel Borsalino nero e ancora nuovo, che aveva
comprato solo qualche giorno prima a Crotone da Macirella, pagandolo ben
tremila Lire, orbene quel Borsalino presentava sulla parte posteriore un ampio strappo,
che l’aveva irrimediabilmente rovinato. Poi si girò attorno, per cercare di
capire quel che era successo, da dove era arrivato quel ciottolo, ma non vide
nulla: la strada era deserta e poco si poteva distinguere nelle ombre della sera.
Mastro Eugenio andò a protestare
un’altra volta a casa mia, ma questa volta non aveva prove e soprattutto non
aveva testimoni. Mio padre lo cacciò fuori di casa in malo modo e questo fu
solo l’inizio di una lunga serie di incomprensioni, e talvolta di litigi, che
alla fine sfociarono in una vera e
propria inimicizia, che in seguito avrebbe caratterizzato i rapporti tra le due famiglie.
Non so se mastro Eugenio si
rassegnò mai alla perdita del suo Borsalino nuovo. Qualche tempo dopo, mentre
ero intento a gustare per strada dei “crustoli” natalizi, mi sentii afferrare
dalla collottola. Era lui. Mi venne l’istinto di scappare, ma lui non mollò la
presa con le sue mani che odoravano di sego e di cuoio, mi tranquillizzò sulle
sue intenzioni e mi disse: “Senti! Tu puoi giocare quanto vuoi con la squigghia
o con la fionda, ma di questo a me non
interessa proprio niente. A me non interessa niente neppure del cappello.
L’unica cosa che mi sta a cuore è quella di non passare per fesso e io non
voglio passare per fesso e non voglio
stare con questo rovello che mi frulla continuamente nella testa. Tu mi devi
solo dire se sei stato tu a bucare il mio Borsalino e poi
ti lascio andare, amici come prima. Perciò, guardami negli occhi e
dimmelo. Sei stato tu?”
Fui costretto a deglutire a vuoto
prima di rispondere. Poi inghiottii il “crustolo” che avevo ancora in bocca e,
quando finalmente mi sentii tranquillo e libero di rispondere, avevo già preso
una decisione sulla risposta. Riuscii a guardarlo negli occhi e gli dissi: “Mi
dispiace, mastro Eugenio, ma non sono stato io e non so chi è stato. Mi
dispiace”. Mastro Eugenio mi strattonò un poco, poi mollò la presa e si allontanò,
sbraitando: “Tutti uguali questi ragazzi di oggi, tutti, tutti uguali. Ma non è
ancora finita! Tutti uguali, tutti…”.
Ezio Scaramuzzino
Ezio Scaramuzzino
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