Negli anni Cinquanta e Sessanta c’erano al mio
paese solo due sarti, Candido Morigi e Giulio Correale, miei parenti e anche
parenti tra di loro, seppure alla lontana. I due si guardavano in cagnesco,
nonostante la parentela, certo per motivi di concorrenza, ma anche perché molto
diversi di carattere. Un po’ chiuso e introverso il primo, estroverso e gioviale
il secondo. Entrambi sposati e con figli, ed il secondo ne aveva una nidiata,
sopravvivevano alla meno peggio, cucendo qualche vestito nuovo per Natale e per
Pasqua e per il resto dell’anno limitandosi a qualche piccolo lavoro di
riparazione o rivoltando qualche cappotto e qualche giacca. Anche nel modo di
lavorare erano diversi. Metodico e tradizionale Candido, sempre rintracciabile
nella sua bottega artigiana e puntuale nelle consegne, piuttosto eccentrico
Giulio, che si concedeva un qualche tocco di originalità nelle sue
creazioni e che lavorava in modo
irregolare e soprattutto quando non era distolto da altri impegni più importanti. Entrambi avevano imparato il
mestiere da bambini, frequentando le
botteghe di altri sarti, ed anche loro tenevano a bottega un nugolo di
mocciosi, che avrebbero dovuto imparare il mestiere, mentre in realtà erano
tenuti lì dai genitori solo perché si
sentissero impegnati a fare qualcosa, nelle lunghe ore del pomeriggio, libero
da incombenze scolastiche.
Anche io, da bambino, frequentai la bottega di Candido
Morigi, ma solo per qualche mese e fino a quando non mi convinsi che a me, di
fare il sarto da grande, importava poco o niente. Abbandonai la bottega senza
alcun rimpianto, felice di poter dedicare i miei pomeriggi alla lettura dei
libri che tanto amavo, ma soprattutto inconsapevole del fatto che di lì a
qualche tempo le vicende della vita mi avrebbero un’altra volta coinvolto nel
mondo dei sarti e delle sartorie.
I due sarti
continuavano intanto a lavorare ed il loro duopolio sembrava destinato a
durare per decenni, anche se il lavoro diventava sempre più precario, perché
incominciavano a spuntare dovunque i negozi di moda pronta e anche a Scandale,
chi voleva un capo nuovo trovava molto più comodo andare a Crotone e rifornirsi
da Capuano o da Macirella.
Passarono gli anni e una mattina di Aprile di tanti anni
fa, tra una partita e l’altra di Terziglio, apparve al Bar Centrale Giovanni Parrilla, trentenne, che non vedevo
da qualche tempo, perché era emigrato a Milano. Eravamo stati amici una volta,
nonostante la differenza di età, e, quando mi vide seduto sulla veranda a
guardare annoiato la piazza circostante, venne a sedermi vicino, con
spontaneità e naturalezza, quasi a voler riprendere un discorso interrotto. Mi
raccontò che a Milano aveva lavorato nella sartoria del Teatro alla Scala, dove inizialmente era stato assunto con
umilissime mansioni, riuscendo però ad imparare benissimo il mestiere ed a
farsi apprezzare dalle maestranze. Da qualche anno però aveva dei problemi all’apparato
respiratorio ed i medici gli avevano sconsigliato l’aria di Milano, inducendolo
quindi a ritornare al paese natio, dove aveva intenzione di aprire una bottega
artigiana e continuarvi la sua attività di sarto per uomo e per donna.
Giovanni non impiegò molto ad affermarsi, tanto che
i due vecchi sarti, che prima si detestavano cordialmente, non tardarono a
capire che dovevano allearsi contro il “Milanese”, così i due lo chiamavano per
dileggio, se volevano avere qualche speranza di sopravvivere. Ma ogni alleanza
fu vana: il nuovo arrivato spopolò, grazie soprattutto alle signore, che pregustavano
il piacere proibito di farsi manipolare da un giovane sarto piuttosto che da
una delle vecchie sarte di paese. Inoltre egli non aveva esitato a praticare
prezzi stracciati, tanto da riuscire concorrenziale perfino rispetto ai nuovi
magazzini di moda pronta. Il “Milanese” aveva decisamente successo ed il coronamento di tale successo fu
il suo fidanzamento con Luisa, la figlia un po’ attempata di uno dei benestanti
del paese, che, una volta resasi conto che stava per rimanere zitella, aveva
deciso di ripiegare su Giovanni, accettandone le discrete, ma molto
interessate profferte amorose.
Anche io un giorno varcai la porta della sartoria
di Giovanni. Non ci tenevo a farmi confezionare un vestito da lui, anche perché
non volevo guastare i rapporti di parentela, che mi legavano a Candido e a
Giulio, ma finii col cedere alle sue insistenze.
Appena varcai la soglia, Giovanni interruppe ogni
altra incombenza e si dedicò a me. Mi fece scegliere un modello su un catalogo,
decise lui il tipo e la qualità della stoffa, mi prese le misure e poi,
riprendendo a lavorare, mi intrattenne sugli ultimi accadimenti della sua vita,
informandomi in particolare sul suo recente fidanzamento. Notai che la sartoria
era piuttosto modesta: un unico vano, piuttosto ampio, ma che era diviso in due
parti disuguali da un grande tramezzo dietro il quale, evidentemente, i
clienti, ma soprattutto le clienti, potevano spogliarsi per i necessari cambi
d’abito. Avvicinatomi al tramezzo, notai che in un angolo era stato praticato
un foro, non molto ampio, ma che dava la possibilità di sbirciare, senza essere
visti. Non potei fare a meno di pensare, conoscendo Giovanni, su quanti glutei
e quanti fianchi debordanti egli avesse posato lo sguardo attraverso quel foro.
Notai anche una porta laterale, attraverso la quale sentivo provenire una voce
di donna e quella cinguettante di alcuni bambini. Mi spiegò che quella donna
era la padrona di casa, una delle tre fornaie del paese, che arrotondava le sue
entrate con il modesto ricavato di quella stanza in affitto.
Conoscevo quella donna, come conoscevo le altre due
fornaie del paese, un po’ perché nei paesi ci si conosce un po’ tutti, ma soprattutto perché le
fornaie allora, dalle nostre parti, erano conosciute ed apprezzate per delle
qualità particolari. Non ho mai saputo o capito per quale motivo o in virtù di
quali antiche consuetudini ciò avvenisse, ma le fornaie non si limitavano a produrre
e a sfornare un pane fragrante e
saporitissimo, ma si consideravano ed erano da tutti considerate le uniche
donne veramente “libere” del paese. Era normale che chi praticava quel mestiere
avesse figli ottenuti con uomini diversi:
la cosa non costituiva scandalo ed era considerata nell’ordine delle cose
naturali, come il sole che sorge al mattino o la pioggia che bagna i prati.
Chiesi a Giovanni se anche lui avesse deciso di
contribuire alla riproduzione della specie con quella donna ed egli mi confidò
che non solo era caduto nella tresca, ma che non sapeva come uscirne fuori. Mi
scongiurò di non dire niente in giro e mi salutò con un abbraccio. Ma non ci fu
bisogno che io parlassi. In vece mia parlava, in maniera fin troppo eloquente,
la pancia della fornaia, che di lì a
qualche mese prese ad aumentare di volume, un po’ come la pasta levitata
che lei utilizzava per preparare il pane. Nel paese non si parlava molto di
quella gravidanza, considerata quasi
ovvia e naturale, ma ne incominciarono a parlare con insistenza i due vecchi
sarti, i quali, senza dimostrare alcuna incertezza, ne indicavano l’origine nel
loro giovane rivale e non tralasciavano di informarne con ricchezza di particolari la sua
promessa sposa .
Un giorno di Luglio mi trovavo nella bottega di
Giovanni. Ero andato a provare dei pantaloni di lino, che egli aveva voluto
cucirmi senza essere pagato e solo, diceva, in nome della nostra vecchia
amicizia. Avevo già provato i pantaloni, li avevo riposti su una corda che
fungeva da appendiabiti e mi apprestavo
a rivestirmi. Improvvisamente si sentì un colpo secco all’uscio: le due ante si
aprirono con violenza ed apparve nella stanza Luisa, che afferrò al volo un
forbicione e si diresse risoluta verso il fidanzato. Giovanni non seppe far di
meglio che saltare da una finestra fortunatamente aperta per il caldo e sparì
nel vuoto. Restavo io che ero come
inebetito di fronte alla furia della donna e mi ritrovavo ancora bloccato,
con una gamba già infilata nei pantaloni ed una gamba fuori. La donna,
lanciandosi come un toro inferocito, riversò la sua furia verso di me, gridando
che io ero complice delle malefatte del fidanzato e puntandomi col forbicione.
Feci appena in tempo a svegliarmi dal mio torpore ed a spostarmi con uno scarto improvviso,
nonostante fossi ostacolato dai pantaloni che ancora reggevo con una mano.
Arretrando, feci un capitombolo su me stesso e finii riverso sul pavimento. Ero
riuscito ad evitare il colpo di Luisa,
ma non riuscii ad impedire che lei, trascinata dalla sua rincorsa, centrasse
con le forbici proprio i miei nuovi pantaloni di lino appesi alla corda e li
bucasse da parte a parte.
Dopo un po’ apparvero sull’uscio anche Candido Morigi e Giulio Correale,
che certamente non si trovavano lì per caso. Sorreggevano Giovanni, che
avevano raccolto ammaccato e sanguinante
sotto la finestra, e lo adagiarono su una poltrona. Mi accorsi che, nel far
questo, non mancavano di dare qualche strattonata supplementare e qualche
calcetto non richiesto negli stinchi del malcapitato, provocandone altre
sofferenze ed altri lamenti. I due poi si dedicarono a Luisa, che riuscirono a
calmare e a riportare via.
Infine restammo soli io e Giovanni: lui che continuava a lamentarsi
delle ammaccature e dei dolori che avvertiva in tutto il corpo, io, ancora
mezzo nudo e steso per terra, che non riuscivo ad infilare quei benedetti
pantaloni. Poi mi avvicinai a lui e
cercai di consolarlo. In fondo non ci potevamo lamentare: alla fin fine
io ci avevo rimesso solo un paio di pantaloni nuovi e lui ci aveva rimesso solo
una fidanzata. Poteva anche andare peggio.
Ezio Scaramuzzino
Ezio Scaramuzzino
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