Per tanti anni il mio incubo
ricorrente sono stati gli esami di maturità. Sognavo di fare gli esami e poi,
quando andavo a vedere i risultati, mi accorgevo di essere stato bocciato.
Oppure mi trovavo allo sportello di qualche ufficio e l’impiegato mi chiedeva
il certificato. Lo cercavo e mi accorgevo che in realtà io non avevo mai
superato quegli esami. Qualche volta mi svegliavo, contento di constatare che
era stato solo un brutto sogno. In realtà gli esami di maturità sono stati
veramente una gran paura, forse una delle prime grandi paure della mia vita.
Fu il 1962 l’anno dei miei
esami: USA e URSS si minacciavano a vicenda durante la crisi di Cuba, l’Italia
giocava in Cile i mondiali di calcio e si faceva eliminare ingloriosamente, Gianni
Morandi cantava dicendo di andare a cento all’ora, nei cinema si proiettava Divorzio all’italiana di Pietro Germi.
Da tanti anni mi alzavo ogni
mattina alle sei , per prendere l’autobus che mi portava a Crotone al Liceo
Pitagora, e la cosa non mi era mai pesata più di tanto. Ma in terza Liceo i
miei stabilirono che non dovevo più
stancarmi, per poter arrivare fresco agli esami, e così mi misero a pensione
presso un’ anziana vedova, donna Veneranda, che ricordo ancora con affetto per
quanto era premurosa e gentile nei miei
confronti. Viveva sola in un piccolo e modesto
appartamento e mi accolse solo
perché conosceva mia madre e, a quel che capii, intendeva sdebitarsi per
qualche favore ricevuto ai tempi lontani della guerra. Lavorava sempre ai ferri e, quando mi vedeva
rientrare, mi invitava a fermarmi e poi incominciava a pormi delle
domande. Non mi chiedeva mai come
andassi a scuola. Voleva invece sapere
se il cibo che mi preparava era di mio gradimento, se dormivo bene la
notte, se sentivo freddo nella mia stanza e immancabilmente finiva col
chiedermi se ero “regolare di corpo”. La rassicuravo con un sorriso e lei si
sentiva tranquilla e soddisfatta.
Verso il mese di Febbraio pagai
anche io il mio tributo ad una prassi ormai consolidata ed indiscutibile: in
terza Liceo, per arrivare preparati agli esami, bisognava andare a scuola
privata. Mia madre mi chiese se avevo bisogno di qualche ripetizione e io le
dissi che non ne avvertivo alcuna necessità. Mi accorsi di averla delusa,
perché lei si sentiva in colpa se non poteva fare quel che tutte le famiglie
facevano. Per non deluderla ulteriormente, cercai di capire in quale materia
avrei comunque potuto giovarmi di qualche approfondimento e mi accorsi che in Fisica
qualcosa non mi era del tutto chiara. E così un paio di volte alla settimana mi
ritrovai insieme con altri venti ragazzi a seguire un corso pomeridiano di
Fisica presso un vecchio insegnante, brava persona, ma che non poté fare più di
tanto, perché, dato il numero elevato di partecipanti, le lezioni pomeridiane
si risolsero in una stanca ripetizione delle lezioni mattutine.
Poi, verso la fine di Maggio,
iniziò un altro rito tribale: quello delle raccomandazioni. Allora, come oggi,
come sempre in Italia, non si andava agli esami senza una qualche
raccomandazione. Anche i miei, come in tante famiglie, come in tutte le
famiglie, mi chiesero se avevo bisogno di qualche raccomandazione e io risposi
semplicemente e banalmente che non ne avevo bisogno. Mi accorsi che si
sentirono tutti rinfrancati, perché, nonostante tutto, nonostante la
disponibilità, la mia era una famiglia semplice, dove si avvertiva
profondamente il disagio di un’azione riprovevole, che avrebbe comportato
umiliazioni e sotterfugi.
E finalmente venne il giorno
degli esami. Si facevano allora quattro
prove scritte, Italiano, Latino-Italiano, Italiano-Latino, Greco-Italiano. A distanza di tanti anni ricordo ancora la
traccia del tema d’Italiano: Il sentimento dell’infinito nella poesia
leopardiana. Svolsi il tema con passione e con grande intensità emotiva,
perché Leopardi era, come sarebbe stato, il poeta della mia vita. Rilessi il
tema tante volte, prima della consegna, tanto che, arrivato a casa, riuscii a
trascriverlo senza alcuna difficoltà:semplicemente l’avevo imparato a memoria.
La versione dal Latino era un brano di Tacito, che ormai non viene più dato
agli esami di maturità, perché considerato un autore troppo difficile.
Dall’Italiano in Latino traducemmo un pensiero di Guicciardini e dal Greco un
brano di Polibio, particolarmente ostico.
Agli
orali si portava tutto il programma dell’ultimo anno, oltre a parti di
programma dei due anni precedenti, con interrogazioni nelle singole materie. In
Italiano, ad esempio, fui interrogato solo sull’Inferno, che avevo
studiato in prima Liceo, invece che sul Paradiso, che avevo studiato in
terza.
La notte prima degli esami, sia
scritti sia orali, non andai al cinema, perché al mio paese c’era un solo
cinema, che ogni tanto rimaneva chiuso a
tempo indeterminato; non andai a spassarmela con una ragazza, perché il costume
del tempo, almeno nei paesi, non consentiva un simile spasso; non andai in giro
con l’auto, perché non possedevo
un’auto; non cercai di avere qualche dritta sulle tracce navigando in Internet,
perché allora, semplicemente, non esisteva Internet e non esistevano nemmeno i computer; mi limitai a studiare e a
ripassare per l’ennesima volta il programma d’esame. Allora era normale essere
bocciati alla maturità, anche a Settembre, agli esami di riparazione, ed era
considerato normale anche ripetere l’esame due o tre volte.
In seguito, anche
all’Università, mi è spesso capitato di perdere l’appetito per due o tre giorni
prima di un esame, ma quella volta, prima della Maturità, credo di aver avuto
difficoltà con il cibo per almeno una settimana. Ricordo in particolare che la
mattina degli orali, poco prima di essere chiamato, ebbi un conato di vomito,
che mi costrinse a rifugiarmi in un bagno, dove riuscii ad eliminare solo della
schiuma biancastra, l’unica cosa rimasta nel mio stomaco sconvolto.
L’esame andò bene. Avevo fatto delle buone prove
scritte e all’orale, che si svolgeva in due fasi, gli esaminatori, dopo le
prime domande, cui risposi con disinvoltura, incominciarono a chiedermi
argomenti fuori programma, perché avevano voglia di rompere la monotonia delle domande
ricorrenti. La novità destò l’attenzione
di alcuni ragazzi, che si avvicinarono
al tavolo degli esami, spinti dalla curiosità e dalla voglia di fare quasi il
tifo. Fui interrogato sui miei gusti musicali e cinematografici e finii col
divertirmi anche io. Ma, appena uscito, fui costretto a correre un’altra volta
in bagno, anche se per motivi diversi da quelli della prima volta.
La tensione dell’esame si era
sciolta e mi sentivo ormai tranquillo e rilassato, ma, assieme alla tensione
dell’esame, si era sciolta anche la tensione che fino a quel momento aveva
inesorabilmente bloccato la mia povera vescica, ormai libera di reclamare i suoi
diritti. Mi misi quasi a correre verso un bagno e alla svolta di un corridoio
travolsi rovinosamente il Preside Bellusci, che non ero riuscito ad evitare. Il mitico Preside Francesco Bellusci,
che con la sua “cara e buona imagine paterna” aveva accompagnato generazioni di
studenti del Liceo Pitagora di Crotone verso il traguardo degli esami di
maturità. In tanti anni non lo avevo mai sentito imprecare, ma quella volta,
nel mentre mi rialzavo da terra dove entrambi eravamo finiti, feci in tempo a
sentire la sua voce baritonale e arrochita dal fumo che gridava “Minerale!”,
come egli era solito chiamare gli studenti scavezzacollo.
Senza preoccuparmi di lui,
ripresi a correre a precipizio ed infilai per la fretta un
vicino bagno femminile, incrociando una ragazza, che mi guardò allarmata. Non richiusi nemmeno la porta. Mi
sentivo felice finalmente. Forse più per la liberazione della mia vescica, che
per la liberazione dalle mie paure e per
l’esame felicemente superato.
Ezio Scaramuzzino
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