Di
ritorno da un viaggio al Nord, mi fermo lungo l’autostrada. Mentre mangio un
panino appena comprato all’ autogrill, mi accorgo che un passero si avvicina
allo sportello. E’ proprio lui, il famoso “Passer Italiae”, che già nel suo
nome scientifico ricorda il luogo in cui preferibilmente nasce e vive la sua
breve esistenza. Lo incoraggio lanciandogli qualche briciola e lui si avvicina
sempre di più, senza alcuna paura. Scatto qualche foto e nemmeno i clic
insistenti del cellulare possono indurlo ad allontanarsi.
Lo
osservo con un misto di compiacimento e di sorpresa ed io, perennemente avvolto
in una sorta di "correlativo oggettivo" di elliotiana o montaliana memoria, non
posso fare a meno di andare alla ricerca del tempo perduto, del mio tempo
perduto.
Nella
mia infanzia il mio primo approccio con gli uccellini, e con i passeri in
particolare, fu quello che mi derivava dal mio continuo scorrazzare nella
campagna circostante, insieme con altri coetanei, a preparare contro di loro trappole
e insidie di ogni genere. Di questa nostra caccia il tratto costante era
un’inconsapevole crudeltà, che ci induceva ad infierire su quelle povere
bestioline, fino a provocarne la morte tra indicibili sofferenze.
Quando,
tanti anni dopo, mi ritrovai in Svizzera e notai, in un parco pubblico, che
alcuni passerotti si avvicinavano tranquillamente agli altri, mentre sembravano
sordi ai miei richiami e si mantenevano a rispettosa distanza da me, non potei
fare a meno di pensare, con un amaro sorriso, che forse quegli uccellini si
vendicavano delle mie crudeltà di fanciullo, o forse avvertivano istintivamente
nel mio DNA qualcosa di sospetto, che li induceva ad essere diffidenti ed a
restare alla larga.
Avrei
forse potuto dire a quegli uccellini che ero cambiato, che non ero più uno
spietato cacciatore e soprattutto avrei potuto dire che le vicende della vita
mi avevano ormai definitivamente allontanato dal loro mondo di cinguettanti ed
indifese creature.
E
difatti, man mano che andavo avanti nella vita, i passeri continuai a conoscerli
più che altro nelle mie letture.
Già
nei Carmi di Catullo il passero è
l’innocente trastullo con cui Lesbia, l’amante del poeta, sopisce le sue pene
d’amore e che con la sua morte ne provoca il dolore e le lacrime.
Poi,
nella tradizione letteraria italiana, da Petrarca a Poliziano, il passero
avrebbe costituito spesso fonte d’ispirazione. Fino a Leopardi, che, con il suo
genio immenso, avrebbe fatto del passero solitario il simbolo della condizione
umana, della solitudine dell’esistenza e del male di vivere.
Forse
anche oggi, di fronte allo spettacolo inatteso del passerotto che saltella di
fronte allo sportello della mia auto, sarebbe necessario il genio di un
Leopardi, che riuscisse a dire parole non caduche e non destinate ad essere
disperse dal vento.
Ma
io non sono Leopardi e soprattutto non ho la pretesa di esserlo. Nel nostro
mondo disturbato dal fruscio e dal rumore di fondo che impediscono di percepire
chiaramente il senso delle parole, mi limito ad osservare, a riflettere, a
ritrovare qualche concetto forse non banale. In attesa di ciò che è ultimo e definitivo,
in attesa del nulla.
Ezio Scaramuzzino
Ezio Scaramuzzino
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