domenica 30 dicembre 2012

The dead-I morti (Racconto) di James Joyce


Un piccolo capolavoro di Joyce, tratto dai Dubliners (Racconti di Dublino). Se ne riporta il finale.
James Augustine Aloysius Joyce (Dublino2 febbraio 1882 – Zurigo13 gennaio 1941) è stato uno scrittorepoeta e drammaturgo irlandese.

Trama
A Dublino, nel 1904, in una serata del  periodo natalizio,  si svolge la tradizionale festa che tre  signorine della buona borghesia, due anziane sorelle, Kate e Julia Morkan, e la loro nipote Mary Jane, offrono ogni anno per amici e  parenti. Si fa musica, si balla e si partecipa ad un ottimo pranzo, preparato completamente dalle padrone di casa.  Gabriel Conroy, nipote prediletto delle  signorine Morkan, e sua moglie Gretta sono gli ospiti principali e aiutano a  ricevere gli invitati. Soprattutto è insostituibile Gabriel, incaricato dalle zie di svolgere compiti delicati, come sorvegliare Freddy Malins, un caro amico troppo spesso ubriaco, o tagliare al momento opportuno l’oca arrosto e, infine,  pronunciare il discorsetto ufficiale. La conversazione tra gli ospiti è vivace e si  parla molto di musica e di religione.  C’è anche un noto tenore fra gli invitati, Bartell D’Arcy, ma sembra non voglia esibirsi, mentre la vecchia zia Julia, con voce molto flebile, canta una celebre aria in modo patetico. Tutti lodano l’ospitalità squisita delle tre signorine e il successo della festa. Poi viene l’ora di andare via: Gabriel e Gretta sono rimasti fra gli ultimi e, poiché abitano lontano, per quella notte andranno in  albergo. Il marito è già pronto ad uscire e aspetta all’ingresso la moglie, ma la vede fermarsi sulla scala all’improvviso, a poca distanza da lui: in quel momento il tenore D’Arcy, in una stanza al piano di sopra,  ha iniziato a cantare una vecchia e triste canzone irlandese, The Lass of Aughrim, e Gabriel scorge chiaramente che, ascoltandola, Gretta è commossa fino alle lacrime. Successivamente  i due coniugi raggiungono in carrozza l’albergo, mentre nevica abbondantemente. 

I morti - Finale
Quando la carrozza si fermò davanti all'albergo, Gabriel saltò giù e, nonostante le proteste di Bartell D'Arcy, pagò il vetturino, lasciandogli uno scellino di mancia. Quello salutò e disse:
"Felice anno, signore!"
"Altrettanto a voi," ricambiò Gabriel cordialmente.
Lei gli si appoggiò un momento al braccio per scendere dalla vettura e anche mentre, ferma sul marciapiede, augurava la buona notte agli altri. Gli si appoggiava leggermente al braccio, come poche ore prima, quando aveva ballato con lui. In quel momento egli si era sentito orgoglioso e felice, felice che fosse sua, orgoglioso della sua grazia e della sua femminilità. Ma adesso, con tutti i ricordi che si erano riaccesi in lui, il primo contatto col suo corpo armonioso, strano e profumato, gli faceva provare un forte stimolo di lussuria. Protetto dal silenzio di lei, le prese una mano stringendosela forte contro il fianco e, quando si trovarono di fronte alla porta dell'albergo, sentì che erano fuggiti dalla vita e dai doveri quotidiani, fuggiti da casa e dagli amici per correre insieme, con i cuori spensierati e raggianti, verso una nuova avventura.
Un vecchio era appisolato su un'enorme poltrona nell'atrio. Accese una candela in dispensa e fece loro strada su per le scale. Lo seguivano in silenzio, il rumore dei passi attutito dai folti tappeti. Lei saliva dietro al portiere, con la testa china, le esili spalle curve come sotto un peso, e la gonna stretta intorno alle gambe. Avrebbe potuto cingerle i fianchi con le braccia e stringerla ancora, perché le sue braccia tremavano di desiderio e soltanto conficcandosi le unghie nel palmo delle mani riusciva a controllare l'impeto selvaggio del suo corpo. Il portiere si fermò sulle scale per sistemare meglio la candela che smoccolava e anche loro si fermarono sui gradini dietro a lui. Nel silenzio Gabriel poteva sentire le gocce di cera cadere sul piattello e i battiti del cuore nel petto.
Il portiere li guidò lungo un corridoio e aprì una porta. Poi appoggiò la candela traballante sulla toletta e chiese a che ora desiderassero essere svegliati.
"Alle otto," rispose Gabriel."
Il portiere indicò l'interruttore della luce elettrica e cominciò a scusarsi balbettando qualcosa, ma Gabriel tagliò corto:
"Non ci serve nessuna luce. Ne arriva abbastanza dalla strada. Anzi," aggiunse puntando il dito sulla candela, "portatevi via quel bell'arnese, su, da bravo."
Il portiere si riprese la candela, con gesto lento, perché era rimasto stupito da un'idea tanto strampalata. Poi augurò borbottando la buona notte e se ne andò. Gabriel fece scattare la serratura dall'interno.
La luce spettrale di un lampione dalla finestra si allungava in una striscia fino alla porta. Gabriel gettò soprabito e cappello su un divano e attraversò la stanza dirigendosi verso la finestra. Guardava in strada per riprendersi un po' dall'emozione. Poi si girò e si appoggiò al cassettone, volgendo le spalle alla luce. Anche lei si era tolta cappello e mantello e, in piedi davanti a una grande specchiera, stava slacciandosi il corpetto. Gabriel rimase zitto per alcuni istanti, osservandola, poi le disse:
"Gretta!"
Lentamente lei si allontanò dallo specchio e si diresse verso di lui lungo la fascia di luce. Aveva un'aria così seria e affaticata che Gabriel non riuscì a dire parola. No, non era ancora il momento.
"Hai l'aria stanca," le disse.
"Un po' lo sono," rispose lei.
"Ma non ti senti mica male, vero?"
"No, È solo stanchezza; nient'altro."
Si avvicinò alla finestra e rimase là a guardare fuori. Gabriel aspettò ancora e poi, temendo che la timidezza lo sopraffacesse, disse improvvisamente:
"A proposito, Gretta..."
"Che cosa?"
"Lo conosci quel poveraccio di Malins," disse in fretta.
"Be', che c'è?"
"Poveraccio, è un buon diavolo in fondo," continuò Gabriel con una nota falsa nella voce. "Mi ha restituito quella sterlina che gli avevo prestato e, a dire la verità, non me l'aspettavo. E' un vero peccato che non sappia stare alla larga da quel Browne, perché non è davvero cattivo."
Ora stava tremando per la tensione. Perchè lei aveva quell'aria così distratta? Non sapeva come cominciare. Forse anche lei era tormentata da qualcosa? Se solo si fosse rivolta a lui e gli fosse venuta vicino spontaneamente. Prenderla così sarebbe stato brutale. No, doveva prima vedere un po' di ardore nei suoi occhi. Voleva averla vinta su quel suo strano umore.
"Quando gli hai prestato quella sterlina?" gli chiese lei, dopo una pausa.
Gabriel fece uno sforzo su se stesso per trattenersi dall'esplodere in una serie di parolacce contro quell'ubriacone di Malins e la sua sterlina. Sentiva il bisogno di gridarle qualcosa dal profondo dell'anima, di stringere al suo il corpo di lei, di dominarla. Invece disse:
"Oh, a Natale, quando aprì quel negozietto di cartoleria in Henry Street."
Si sentiva la febbre addosso, una febbre di rabbia e di desiderio, tanto che non la sentì avvicinarsi alla finestra. Se ne stette dritta per un attimo davanti a lui, guardandolo stranamente. Poi, d'improvviso, alzandosi sulla punta dei piedi e, appoggiandogli delicatamente le mani sulle spalle, lo baciò.
"Sei molto generoso, Gabriel," gli disse.
Gabriel, tremante di gioia, per il suo improvviso bacio e per la stranezza della frase, le posò le mani sui capelli e comincio ad accarezzarli all'indietro, toccandoli appena con le dita. L'averli lavati da poco li aveva resi morbidi e lucenti. Il cuore gli traboccava di felicità. Proprio nel momento in cui più lo desiderava, lei era venuta da lui spontaneamente. Forse i loro pensieri avevano seguito lo stesso corso, forse lei aveva sentito il suo impetuoso desiderio, e poi si era fatta arrendevole. Adesso che era venuta da lui con tanta facilità, si chiedeva perché si fosse sentito cosi sfiduciato. Rimase immobile tenendole la testa tra le mani. Poi, passandole rapido un braccio intorno alla vita, l'attirò a sé e le disse con tenerezza:
"Gretta, cara, a che cosa pensi?"
Non gli rispose, né si abbandonò completamente all'abbraccio. Le ripeté ancora dolcemente:
"Dimmi che c'è, Gretta. Credo di indovinare di che cosa si tratta, no?"
Non gli rispose subito. Poi, scoppiando in lacrime, disse: "Sto pensando a quella canzone: La ragazza di Aughrim."
Si sciolse dalla stretta, corse verso il letto e, gettando le braccia sulla spalliera, nascose il viso. Gabriel, per lo stupore, rimase come impietrito per un istante e poi la seguì. Passando davanti alla specchiera, vi sorprese la propria immagine riflessa per intero, il davanti della sua ampia camicia ben steso sopra il petto, il viso, la cui espressione lo metteva sempre in imbarazzo quando si guardava allo specchio, e il luccichio degli occhiali dalla montatura dorata. Si fermò a pochi passi da lei e le disse:
"E che cosa c'è in quella canzone? Perché ti fa piangere?"
Sollevò la testa dalle braccia e si asciugò gli occhi col dorso della mano come una bambina. La voce di Gabriel prese un tono più gentile di quanto effettivamente fosse nelle sue intenzioni, mentre le chiedeva: "Perché, Gretta?"
"Mi ricorda una persona che la cantava tanto tempo fa."
"E chi era quella persona?" chiese Gabriel sorridendo.
"Una persona che avevo conosciuto dalla nonna quando stavo a Galway," rispose.
Il sorriso sparì dal viso di Gabriel. Una sorda collera cominciò ad accumularsi di nuovo in fondo alla sua mente e un sordo ardore di lussuria riprese a bruciargli rabbioso nelle vene.
"Qualcuno di cui eri innamorata, naturalmente?" chiese ironico.
"Era un giovinetto quando lo conobbi," rispose lei, "si chiamava Michael Furey. Cantava spesso quella canzone: La ragazza di Aughrim. Era molto delicato."
Gabriel taceva. Non voleva che lei pensasse che il ragazzo delicato lo interessasse.
"Mi sembra ancora di vederlo," riprese Gretta dopo un momento. "Con quegli occhi grandi, scuri! E che espressione avevano, che espressione!"
"Ne sei proprio innamorata, eh?" disse Gabriel.
"Facevamo spesso delle passeggiate insieme," precisò lei, "quando ero a Galway."
Un pensiero attraversò la mente di Gabriel.
"Forse è per questo che volevi andare a Galway con quella Ivors?" chiese freddamente.
Lo guardò con stupore. "E perchè?"
I suoi occhi gli diedero un senso di disagio. Si strinse nelle spalle.
"Che ne so io? Forse per vederlo."
Distolse gli occhi da lui e in silenzio li rivolse verso la finestra, lungo la striscia luminosa.
"E' morto," disse dopo un bel po'. "E' morto a soli diciassette anni. Non è terribile morire così giovani?"
"Che cosa faceva?" chiese Gabriel, ancora ironicamente.
"Era impiegato presso l'azienda del gas," rispose lei.
Gabriel si sentì umiliato della cattiva riuscita della sua ironia e per aver evocato lo spirito di quel ragazzo morto, un ragazzo impiegato presso l'azienda del gas. Mentre lui era tutto preso dal ricordo della loro vita intima, pieno di tenerezza, di gioia e di desiderio, lei, nella sua mente, lo aveva paragonato a un altro. La coscienza di ciò che lui era in realtà lo assalì e ne sentì vergogna. Si vide come un individuo ridicolo che faceva da galoppino alle zie, un nervoso, ben intenzionato, sentimentale, che faceva discorsi alla plebaglia e che idealizzava i propri bassi istinti, quell'essere fatuo e miserevole, che aveva intravisto nello specchio. Istintivamente girò ancora di più le spalle alla luce per paura che lei potesse accorgersi della vergogna che gli bruciava la fronte. Si sforzò di sostenere il suo tono di fredda interrogazione, ma la sua voce, quando parlò, era umile e indifferente.
"Penso che ne fossi innamorata di questo Michael Furey, Gretta," disse.
"Stavamo molto insieme, allora," osservò lei.
La sua voce era velata e triste. Gabriel, sentendo quanto inutile sarebbe stato ormai cercare di portarla dove si era riproposto, le accarezzò la mano e disse, anche lui con tristezza:
"E di che cosa è morto così giovane, Gretta? Tubercolosi?"
"Credo sia morto per me," rispose Gretta.
Un vago terrore prese Gabriel a questa risposta, come se, in quell'ora nella quale aveva sperato di trionfare, un impalpabile e vendicativo essere gli si scagliasse contro, raccogliendo forze sconosciute contro di lui nel suo mondo non ben definito. Ma con uno sforzo se ne liberò e continuò ad accarezzarle la mano. Non le chiese altro, perché sentiva che lei stessa gli avrebbe detto tutto. La sua mano era calda e umida; non rispondeva al suo tocco, pure continuò ad accarezzarla, proprio come aveva accarezzato la prima lettera di lei quella mattina di primavera.
"Era inverno," disse, "anzi il principio dell'inverno, e stavo per lasciare la casa della nonna per venire qui in collegio. Lui si era ammalato in quei giorni, lì a Galway, e non poteva uscire, tanto che a Oughterard i suoi genitori erano stati avvertiti. Era alla fine, dicevano, o qualcosa del genere. Non l'ho mai saputo con precisione."
S'interruppe per un attimo e sospirò.
"Poverino," riprese. "Mi voleva tanto bene ed era un così caro ragazzo! Facevamo spesso delle passeggiate insieme, tu sai, Gabriel, come si fa in campagna. Avrebbe studiato canto, se la scarsa salute non glielo avesse impedito. Aveva veramente una bella voce, povero Michael Furey."
"Be', e poi?" fece Gabriel.
"Poi, quando arrivò per me il momento di lasciare Galway per andare in collegio, era molto peggiorato, tanto che non mi consentirono di vederlo; allora gli scrissi una lettera dicendogli che andavo a Dublino e che sarei tornata in estate; speravo allora di trovarlo migliorato."
Si fermò ancora un momento per dominare la voce, poi continuò:
"La notte prima che partissi ero in casa della nonna a Nuns Island e stavo facendo le valige, quando sentii un rumore di sassolini contro la finestra. Ma i vetri erano tanto bagnati che non mi fu possibile vedere niente. Allora, così com'ero, corsi giù per le scale e dalla porta posteriore sgattaiolai in giardino; proprio là, in fondo, trovai quel povero ragazzo, scosso dai brividi."
"E non gli dicesti di andarsene via?" chiese Gabriel.
"Lo scongiurai di tornarsene a casa subito e gli dissi che sarebbe morto se fosse rimasto lì sotto quella pioggia. Ma mi rispose che non ci teneva a vivere. Me li rivedo ancora davanti i suoi occhi come fosse adesso! Era in piedi in fondo al muro, vicino a un albero."
"E tornò a casa?" chiese Gabriel.
"Sì, se ne andò. Ma era passata appena una settimana da quando ero entrata in collegio che morì e fu sepolto a Oughterard, il paese dei suoi. Ah, il giorno che lo seppi, che seppi che era morto!"
S'interruppe, scossa dai singhiozzi, e, sopraffatta dall'emozione, si buttò a faccia in giù sul letto, mettendosi a singhiozzare sulla coperta. Gabriel le tenne la mano un po' più a lungo, indeciso, e poi, non volendo intromettersi nel suo dolore, la lasciò ricadere pian piano e si diresse lentamente alla finestra. Si era profondamente addormentata.
Gabriel, appoggiato sul gomito, la guardò per alcuni istanti, senza rancore, i capelli scomposti e la bocca semiaperta, ascoltandone il profondo respiro. Dunque c'era un romanzo nella sua vita: un uomo era morto per lei. Sentiva un'acuta sensazione di pena ora, pensando alla misera parte che lui, il marito, aveva avuto nella sua vita. La osservava, mentre dormiva, come se non avessero mai vissuto insieme da uomo e donna. I suoi occhi curiosi indugiarono a lungo sul suo viso e sui suoi capelli e, mentre pensava a quella che doveva essere stata allora, al tempo della sua bellezza di fanciulla, una strana, benevola pietà per lei gli penetrò nell'anima. Non voleva ammettere neppure con se stesso che il suo viso non era più bello, ma sapeva che non era il viso per il quale Michael Furey aveva sfidato la morte. Forse non gli aveva raccontato tutto. Posò gli occhi sulla sedia su cui lei aveva gettato alcuni indumenti. Un laccio della sottana pendeva sul pavimento, uno stivaletto, la cui parte alta era afflosciata, stava diritto e il compagno gli giaceva di fianco. Si meravigliò della sua eccitazione di prima. Da dove era nata? Dalla cena delle zie, dal suo sciocco discorso, dal vino e dal ballare, dal festoso scambiarsi la buona notte nell'atrio e dal piacere della passeggiata lungo il fiume sulla neve. Povera zia Julia! Anche lei, presto, sarebbe stata un'ombra come Patrick Morkan e il suo cavallo. Glielo aveva letto in faccia per un momento, quando cantava: Ornata per le nozze. Presto, forse, si sarebbe trovato seduto nello stesso salotto, vestito di nero, col cilindro sulle ginocchia. Le imposte sarebbero state socchiuse, e zia Kate, seduta vicino a lui, piangendo e soffiandosi il naso, gli avrebbe raccontato come Julia era morta. Si sarebbe spremuto le meningi per trovare qualche parola che potesse
consolarla e ne avrebbe trovato solo di banali e inutili. Sì, sarebbe successo molto presto.
L'aria della stanza gli faceva sentire freddo alle spalle. Si lasciò scivolare pian piano sotto il lenzuolo e si coricò vicino alla moglie. A uno a uno sarebbero diventati tutti delle ombre. Meglio passare a miglior vita baldanzosamente, nel pieno splendore di qualche passione, piuttosto che appassire e spegnersi lentamente di vecchiaia. Pensava a come colei che gli giaceva accanto avesse per tanti anni custodito gelosamente nel cuore l'immagine degli occhi del suo innamorato, quando le aveva detto che non desiderava vivere. Lacrime generose riempirono gli occhi di Gabriel. Lui non lo aveva mai provato per nessuna donna, ma sapeva che un sentimento simile doveva essere amore. Le lacrime gli salirono più abbondanti agli occhi, e, nella semioscurità, immaginò di vedere la sagoma di un giovinetto in piedi sotto un albero gocciolante. Altre figure gli erano vicino. La sua anima si era avvicinata a quella regione dove abita l'immensa schiera dei morti. Era consapevole della loro esistenza aerea e incorporea, ma non poteva afferrarla. La sua stessa identità svaniva in un grigio mondo impalpabile: lo stesso solido mondo, in cui questi morti avevano operato e vissuto, si dissolveva e svaniva.
Un leggero picchiare sui vetri lo fece girare verso la finestra. Aveva ricominciato a nevicare. Osservò assonnato i fiocchi, argentei e scuri, cadere obliquamente contro il lampione. Era tempo per lui di mettersi in viaggio verso occidente. Sì, i giornali avevano ragione: nevicava in tutta l'Irlanda. La neve cadeva su ogni punto dell'oscura pianura centrale, sulle colline senza alberi, cadeva lenta sulla palude di Allen e, più a ovest, sulle onde scure e tumultuose dello Shannon. Cadeva anche sopra ogni punto del solitario cimitero sulla collina dove era sepolto Michael Furey. Si ammucchiava fitta sulle croci contorte e sulle lapidi, sulle punte del cancelletto, sui roveti spogli. La sua anima si dissolse lentamente nel sonno, mentre ascoltava la neve cadere lieve su tutto l'universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e su tutti i morti.





Angelica Huston nel film The dead di John Huston, tratto dal racconto di James Joyce.

martedì 25 dicembre 2012

Tra canti e bevute(Racconto) di Ezio Scaramuzzino




Pubblicato su KAIROS di Dicembre 2012. In un mondo ormai scomparso, la storia di Bebè, chitarrista girovago.



C’è una terra, nel centro della Calabria, poco conosciuta e comunque lontana dai grandi flussi del turismo di massa. E’ la Presila del Marchesato di Crotone, terra che continua a profumare dei boschi delle montagne vicine, ma che già prende in faccia l’aria salmastra che le giunge dalla costa  ionica ancora  lontana. Qua le persone a prima vista sembrano scostanti e dure come il paesaggio che le accoglie, a metà strada tra la dolcezza delle colline circostanti e l’asprezza della macchia mediterranea.  
Mio padre, un tempo,  andava  abbastanza spesso da quelle parti per alcuni suoi commerci di olio e mi portava spesso con sé. Al rientro ci si fermava immancabilmente  lungo la strada in un punto di ristoro al bivio Lenza. Si trattava allora di una stanzuccia dalle pareti  annerite e scrostate, con un bancone di tavole, al quale veniva servito quasi esclusivamente  del vino. Unica concessione era  la spuma, che qualcuno soleva aggiungere al vino, per allungarlo ed illudersi così di berne un po’ di più. Su un lato del bancone facevano bella mostra di sé un paio di vasi in vetro con caramelle di rabarbaro e menta. Non vi era acqua corrente ed i bicchieri venivano risciacquati in un catino colmo d’acqua. La modernità aveva portato però un freezer per i gelati, sempre scarsi e male assortiti.
E questo ambiente diventava spesso lo sfondo, nel quale vari attori  si avvicendavano ad interpretare dei ruoli  sul palcoscenico della vita. Ogni occasione era buona per fare un po’ di musica   e  cantare: erano  voci  apprezzabili, seppur non educate al canto. Contadini e piccoli artigiani, vestiti ancora dei panni di lavoro, erano accomunati dal piacere di stare assieme e da un bicchiere di buon vino prodotto dallo stesso oste. Si vedevano  omaccioni, dalle mani rudi e dai volti paonazzi, che si commuovevano quasi nel cantare  Calabrisella mia. A me faceva impressione tutto ciò, perché in precedenza non avevo mai visto degli uomini piangere e soprattutto perché non riuscivo a capire che cosa ci fosse da piangere. Non sapevo che era ancora vivo in queste persone il ricordo degli stenti, che li aveva talvolta  obbligati ad emigrare oppure  a scendere verso la  costa, fertile e paludosa, per ritornarne spesso  febbricitanti di malaria.
Qui, qualche volta, era possibile incontrare Ciccilluzzo di Mesoraca, artista girovago che non perdeva mai occasione per esibirsi. Si dava un’occhiata intorno e, se erano presenti almeno due o tre persone, saliva subito su una sedia, richiamava l’attenzione dei presenti e incominciava a recitare filastrocche  e scioglilingua che solo lui conosceva. Alla fine della recita scendeva dal suo piedistallo e chiedeva dieci lire. “M’e ‘ddu’ dece lire?”, diceva, non con l’aria di chi chiede l’elemosina, ma con l’atteggiamento di chi chiede il giusto compenso per     un’ esibizione artistica.
Un tale, paralitico da anni, se ne stava per l’intera giornata in un angolo, seduto su una  sedia a rotelle rabberciata alla meglio, con davanti il bicchiere sempre miracolosamente pieno, dove intingeva dei biscotti  vecchi, ormai rinsecchiti e duri come granito. Amava continuamente ripetere il famoso detto “vuota il bicchier ch’è pieno, empi il bicchier ch’è vuoto, non lo lasciar mai pieno, non lo lasciar mai vuoto”. Infine, nell’ultimo mezzo bicchiere da svuotare, prima di tornarsene a casa, risciacquava meticolosamente la dentiera. E io mi chiedevo a cosa gli potesse servire quella dentiera, che egli  teneva perennemente sul tavolo.
C’era poi lo spaccone, tale Lillo, pronto sempre a scommettere su qualsiasi cosa e che nel presentarsi amava ripetere: “Piaceri, Lillu, chi previt’ un si ficia”. Messo in seminario dalla famiglia che sperava di trovargli così una buona occupazione, si era fatto cacciare per aver combinato non si sa bene quale diavoleria. Fra le sue tante scommesse, famosa  quella in cui si era detto capace di mangiare un grillo vivo. La vinse, dopodiché, rivolgendosi al grillo che aveva appena inghiottito, disse: “Tardi cantasti, griggru!”.
Iniziavano poi grandi discussioni che coinvolgevano un po’ tutti, nelle quali ognuno riferiva cose per sentito dire e le sosteneva con determinazione. Il gestore del locale, un tale alto un metro e mezzo, detto semplicemente “il tappo”, se ne venne fuori una volta sostenendo che la terra era piatta e che chi sosteneva il contrario era semplicemente un idiota. In modo accanito cercava di dimostrare che, sì, insomma… proprio piatta, piatta… no, non lo era; certo, ci si poteva trovare qualche bitorzolo, qualche dosso più o meno alto, ma che tutto poteva essere, tranne una palla. I più si limitavano a sorridere di fronte a tanta ostinazione, ma un giorno un tale, non informato delle sue manie, prese a far polemiche. Al che  “il tappo” rispose che lì  il padrone era lui e che, se uno pensava che la terra fosse tonda, quella era la porta ed era  invitato ad accomodarsi fuori.
Il più atteso, comunque, era Bebè, perché portava la chitarra. Abitava in una casupola fuori dal paese di Roccabernarda, con un fazzoletto di terra attorno, dove, non si sa per quale motivo, il pollaio era stato posizionato in modo che le galline dovessero per forza attraversare la cucina, per andare a scorrazzare all’aperto. La moglie era una cuoca provetta, per la verità poco interessata alle regole igieniche, al punto che, mentre spianava la sfoglia sul tavolo, doveva mandar via le galline che venivano a zampettarci sopra. D’altra parte, da lì dovevano passare per entrare ed uscire dal pollaio!
La chitarra di Bebè era mitica. Fatta artigianalmente da lui stesso, riportava i segni del tempo e delle sbornie ed i vari sfondamenti venivano di volta in volta rattoppati con pezzi di compensato, talchè  la cassa armonica era costellata di toppe. Il pezzo forte di Bebè, spesso richiesto, era Rosa, risbìgghiati. Lui non si faceva pregare due volte e la intonava accompagnandosi con la chitarra, dandosi il ritmo con qualche colpetto della mano sulla gamba d’appoggio. Era un canto di sdegno per l’amata Rosa e Bebè la cantava con passione, concludendo “Faccia di piru cottu, di pumadoru sfattu, dimmi chi t’haiu fattu ca nun mi guardi cchiù”. Bebè aveva imparato a suonare la chitarra quando era militare, guardando di nascosto un suo commilitone, che non solo si era rifiutato di insegnargli a suonarla, ma che si nascondeva per impedirgli di vedere.
Ma una notte di Gennaio Bebè fu atteso invano a casa dalla moglie. Faceva molto freddo ed in cielo risplendeva una luna piena che rischiarava in parte le ombre che si aggiravano nel buio. Dopo aver suonato e bevuto a lungo con gli amici, sulla strada del ritorno a casa Bebè si sentì stanco e affaticato. Decise di fermarsi un attimo, solo un attimo, a sedere su una panchina illuminata dalla debole luce di un lampione. Ma la stanchezza lo sopraffece ed egli si addormentò. Il gelo della notte, che forse era in cerca di qualche preda, lo sorprese indifeso  su quella panchina e  lo avvolse. Alle prime luci dell’alba un passante lo vide ricoperto di brina, con gli occhi chiusi, e lo scosse un pochino, per ridestarlo. Bebè si piegò lentamente da un lato, riverso, e finì per appoggiare il volto, quasi come in un ultimo abbraccio, sul manico di quella sua chitarra che egli aveva allacciato a tracolla.
Al suo funerale vennero  in molti, anche dai paesi vicini, perché Bebè era benvoluto. Tutti, con il vestito buono ed il cappello stretto in mano, sfilarono ordinatamente davanti alla bara e  trattennero a stento la commozione che si manifestava in un leggero tremolio del labbro. Mai più Rosa avrebbe ascoltato parole di sdegno, mai più la chitarra rattoppata avrebbe accordato le note di Calabrisella mia.
Finite le esequie in Chiesa, il funerale si avviò verso il piccolo cimitero con il cancello cigolante sempre aperto e, prima che la tomba fosse richiusa, i compagni di brigata intonarono, a mo’ di canto di rispetto, l’ultimo addio a Bebè, ricordandone in rima le qualità di uomo, di amico e di musico, come si conveniva ad un personaggio quale egli era stato nel suo piccolo mondo. Gli amici Scintilla e Disturbo cantarono le ultime battute:

Bebè, tu ch’eri amicu di vivute,
tu ni lassasti e po’ ti ‘ndi si’ gghiutu.
Mo’ cu ri  santi certu ti ‘ndi stai,
for’ i da vita e for’ i nostri guai.

Le lacrime, faticosamente trattenute fino ad allora, riempirono gli occhi dei presenti, commossi dalle parole che ricordavano il caro Bebè.

Ezio Scaramuzzino

sabato 22 dicembre 2012

Le origini del Fascismo di Ernesto Galli della Loggia



Le origini del Fascismo, al di là dei luoghi comuni e del conformismo ideologico, in un articolo di Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della sera.*****
Con questo terzo volume (Storia delle origini del fascismo. L'Italia dalla Grande Guerra alla marcia su Roma, Il Mulino), che esce a più di 45 anni di distanza dal primo, Roberto Vivarelli consegna alla cultura italiana un'opera monumentale, paragonabile solo a quella di Renzo De Felice su Mussolini. E, aggiungendo la sua all'altra — non importano, su alcuni punti, le differenze pure non irrilevanti tra le due —, egli segna la vittoria definitiva del cosiddetto revisionismo su quella che è la questione cruciale della storia italiana del Novecento.  Revisionismo è un termine maledetto nel lessico del conformismo ideologico onnipresente, se in realtà esso non volesse dire — come lo stesso autore rivendica — «una delle più elementari esigenze del mestiere» di storico. È giusto comunque adoperarlo per significare come dopo quest'opera nessuno potrà più continuare a sostenere le interpretazioni del fascismo e delle sue cause che pure vanno ancora oggi per la maggiore, tutte in realtà rivolte ad assegnare torti e ragioni secondo le convenienze dell'antifascismo di allora e di poi (esattamente come, dopo l'opera di De Felice, nessuno ha potuto più accreditare l'immagine trucemente macchiettistica del regime che i suoi avversari gli avevano cucito addosso). Naturalmente nessuno che voglia muoversi sul terreno dei fatti e che non sia accecato dal pregiudizio. Resta infatti vero ciò che lo stesso Vivarelli osserva nella prefazione — in polemica con certa imperversante storiografia internazionale, in specie anglosassone, che da noi ha il suo rappresentante in Emilio Gentile — e cioè che la sua opera non varrà certo a far cambiare punto di vista a quegli «studi che discettano di un fenomeno fascista senza confrontarsi affatto con le vicende effettive del movimento di Mussolini e con la storia del Paese in cui quelle vicende si svolsero», riducendone le esperienze a quelle del nazismo tedesco «che con il fascismo italiano avevano in realtà poco a che fare».

Secondo Vivarelli il fascismo non è nato, e neppure si è affermato, come un movimento reazionario di classe sollecitato dagli agrari o tanto meno dagli industriali, come vuole lo stereotipo ancora oggi corrente. L'idea centrale della sua ricostruzione, invece — condotta, così come nei volumi precedenti, su una vastissima documentazione anche di ambito locale —, è che in Italia, tra il 1919 e il 1922, si sia combattuta in realtà una vera e propria guerra civile «tra due opposte passioni politiche», incarnate dai socialisti da un lato e dai fascisti dall'altro: la passione della classe e quella della nazione. Tra la bandiera rossa e il tricolore.
In una simile prospettiva di guerra civile il punto chiave, come è evidente, è l'uscita del conflitto sociale dai binari della legalità; il problema del «chi ha cominciato». E qui una montagna schiacciante di prove vale a mettere sul banco degli accusati il Partito socialista. Per pagine e pagine il lettore s'inoltra in una sorta di interminabile rassegna di quello che è difficile non definire un vero e proprio attacco di demenza politica che in quel dopoguerra colpì i socialisti. Inebriati fino alla forsennatezza dalla rivoluzione leninista, infatti, e non sospettando neppure che con la guerra e la vittoria si apriva una pagina interamente nuova della storia del Paese, dopo il 1918 essi misero in atto due orientamenti suicidi. Da un lato il desiderio di prendersi la rivincita della sconfitta patita nel maggio del 1915 a opera del fronte interventista (il quale però si dà il caso che avesse portato il Paese a un'affermazione storica di cui era impossibile ignorare la portata), e dall'altro l'illusione che in Italia si potesse «fare come la Russia», cioè impadronirsi del potere.
A fare da trait d'union tra questi due obiettivi, e da sfondo ideologico alla grande ondata di lotte sociali successive alla lunga compressione bellica, il Partito socialista mise in campo una violentissima predicazione antinazionale e antipatriottica, una martellante propaganda antimilitaristica fin dentro le caserme e ben oltre i limiti del disfattismo; un fiume ininterrotto di minacce di ogni tipo rivolte ai «borghesi», ai «padroni», ai «signori ufficiali». Non erano solo parole (che pure in politica contano e come!), perché ad esse si aggiungevano i fatti: l'appoggio incondizionato agli scioperi più insulsi, alle violenze più inutili, alle agitazioni anche le più distruttive come gli assalti ai negozi; e poi, laddove il potere era nelle mani degli uomini del partito (a cominciare dalle campagne e dai piccoli centri della bassa Lombardia, del Rodigino, dell'Emilia, della Toscana), «uno stillicidio continuo di abusi e di provocazioni». E non solo: dal momento che, scrive Vivarelli, «non corrisponde al vero che i socialisti fossero alieni dalla violenza». Si arrivò al punto, come a Bologna nel 1920, di disporre la chiusura del camposanto nel giorno dei Morti per festeggiare la conquista del municipio; o, come nei comuni del Genovese, di ordinare alle scuole di rimuovere, insieme ai crocefissi, i ritratti dei sovrani, le lapidi in memoria dei caduti in guerra, le corone con nastri tricolori. E infine dovunque prepotenze, più o meno piccole angherie ai «nemici di classe» e illegalità analoghe.
Ma tutto questo senza la minima iniziativa politica concreta, nonostante che dal 1919, come si sa, i socialisti, con oltre 150 seggi, fossero il maggior partito presente alla Camera. Il fatto si è, però, che dalla retorica massimalista e rivoluzionaria, dalla fissazione leninista di cui erano tutti prigionieri — salvo forse il solo Turati (sì, tutti: perfino i Baldesi, i Matteotti, i Buozzi, i Montemartini si dicevano ancora nel 1921 a favore dell'adesione al Comintern) — essi si sentivano obbligati a teorizzare come unico fine della propria presenza nelle istituzioni rappresentative il boicottaggio delle medesime. Basti pensare che nella legislatura 1919-21 il gruppo parlamentare socialista non avanzò una sola proposta di legge, non una. E che ancora nell'agosto del 1922 — quando ormai l'organizzazione socialista in intere regioni della Penisola era stata ridotta dallo squadrismo a un mucchio di macerie — un uomo come Claudio Treves, presunto portabandiera del riformismo, affermava alla Camera: «Quando si minaccia il parlamentarismo e si inneggia alla dittatura, noi vi diciamo, o signori, de re vestra agitur. Il regime liberale parlamentare è vostro, non nostro».
La vera e massima colpa degli eterogenei governi a maggioranza liberale di quel dopoguerra fu, secondo Vivarelli, di non aver opposto un'energica azione repressiva, come peraltro le leggi consentivano, a questo autentico attacco frontale dei socialisti nei confronti dello Stato nazionale. Ma anzi di aver mantenuto di fronte a un simile attacco, che era rivolto senza mezzi termini alle istituzioni, un'assurda posizione di sostanziale neutralità.
Sta qui, direi, il nocciolo interpretativo decisamente nuovo del libro (nuovo almeno per la storiografia d'ispirazione liberaldemocratica, cui il nostro autore appartiene). Il quale spiega questa debolezza/incapacità con il fatto che il fronte liberalcostituzionale si riconosceva ancora largamente nell'antinterventismo di marca giolittiana, a cui di fatto pure il Partito socialista e i cattolici avevano a suo tempo aderito, ed era quindi ideologicamente ed emotivamente restio a rivendicare il valore della guerra e della vittoria. All'antipatriottismo sovversivo socialista, insomma, i liberali e i popolari furono incapaci di opporre un consapevole, ma fermo, patriottismo delle istituzioni. La loro inazione, protrattasi per almeno due anni, produsse non solo un grave e capillare deterioramento dell'ordine pubblico, ma insieme — ciò che era ancora più grave — quella che a molti e in tante occasioni apparve come un'autentica latitanza dello Stato. Fu questa scelta suicida — quasi una replica sul versante liberale di quella compiuta dai socialisti — che finì per scavare un fossato tra la tradizionale classe dirigente e un'opinione pubblica, specie borghese, che per tanta parte si identificava pienamente nello Stato nazionale, tanto più riconoscendosi, dopo la vittoria, nelle ragioni della guerra e nell'esperienza bellica a cui aveva direttamente partecipato. Da qui una paurosa perdita di prestigio e di autorità da parte dei vari governi che si succedettero dal 1919 al '22 — a cominciare da quello di Giolitti stesso —; da qui l'insuperabile mancanza di credibilità e di forza politica comune a tutti.
Combattuti ferocemente dai socialisti, non difesi in modo adeguato dai liberali, lo Stato e l'eredità della guerra rimasero in certo senso alla mercé di chiunque avesse la volontà, la capacità e la forza di farsene tutore e rappresentante. Proprio perché mancò la reazione legale, è opinione di Vivarelli, sorse e si affermò quella illegale, cioè il fascismo. Dietro l'origine e il successo del quale, non vi fu dunque nessun particolare interesse di classe, bensì, per l'essenziale, una vasta adesione ideologico-culturale allo Stato nazionale nonché la volontà di difenderne la vittoria del '18. Agrari e industriali vennero solo dopo, a cose fatte o quasi, tanto più che «il carattere distintivo del movimento fascista — leggiamo — sin dalle origini, non è l'antisocialismo, ma l'antiliberalismo». La ragione ultima e più vera del successo dei fascisti deve essere vista nel fatto che essi, prendendo atto che la situazione del Paese era ormai quella di una virtuale guerra civile — e cioè che all'uscita dalla legalità da parte dei socialisti poteva contrapporsi solo un'illegalità organizzata, data la «neutralità» del governo — ne trassero le ovvie conseguenze e cominciarono a combattere gli avversari sul loro stesso terreno; e che potendo disporre in una misura enormemente superiore ai loro avversari dei mezzi per vincere (la giovane età, l'esperienza militare, la disciplina, una leadership anche tattica abilissima come quella di Mussolini), alla fine vinsero. Ma non senza avvalersi di una carta decisiva: l'appoggio, fin dall'inizio, delle forze dell'ordine e dell'esercito.
Vivarelli contrasta, in modo che a me sembra anche sul piano documentario convincente, la tesi tradizionale che ciò sarebbe stato il frutto di una voluta complicità con il nascente fascismo della classe dirigente liberale. A un'analisi attenta si direbbe che non fu proprio così. In realtà, sostiene il libro, si sarebbe trattato di una sorta di vera e propria sedizione tacita della struttura militare dello Stato, la quale avrebbe di fatto cessato di obbedire agli ordini di contrasto al movimento fascista impartiti dal governo. I quali ordini invece ci furono, energici e ripetuti, sebbene avvolti sempre da un'ambigua genericità (per esempio non fu mai previsto esplicitamente dalle autorità l'uso delle armi contro i fascisti o disposta la messa fuori legge delle squadre), e così furono ancor più destinati a restare elusi o inascoltati. Il fatto è che, avendo mancato di difendere la legalità contro i socialisti, agli occhi delle forze dell'ordine e dell'esercito (e assai probabilmente anche ai propri stessi occhi) i governi liberali avevano perduto qualunque autorità necessaria per ordinarne ora il rispetto contro i fascisti. Dichiarando una specie di neutralità nella guerra civile in atto, senza peraltro avere la forza di reprimere le due parti in lotta, il governo e i partiti costituzionali erano in pratica usciti dal novero degli attori politici; e con ciò avevano segnato la propria fine.
Come si vede, è un radicale spostamento d'asse interpretativo quello che questo libro opera rispetto all'immagine del fascismo e delle sue premesse, depositata da sempre nel discorso pubblico italiano. E poiché quell'immagine, come si sa, è in qualche modo alla base di tutta la vita della Repubblica, proprio per ciò esso ci aiuta a capire non poche delle fragilità e delle contraddizioni che ne hanno accompagnato la nascita, e non solo.
Ernesto Galli della Loggia
Corriere della sera del 10 ottobre 2012

domenica 16 dicembre 2012

Mamma Pina (Racconto) di Ezio Scaramuzzino







I casini furono definitivamente chiusi in Italia alla  mezzanotte del 20 settembre 1958. Non fosse altro che per motivi di età, non feci in tempo a frequentarli, ma essi fecero parte del mio immaginario e certamente alimentarono le fantasie sessuali, e non soltanto quelle, di tanti giovani della mia età. I casini  avevano fatto parte del costume quotidiano, come la parrocchia o la caserma dei carabinieri, e la loro chiusura non fu senza conseguenze nella mente e nel cuore di tante persone.
La mia prima conoscenza sull’argomento si formò grazie ai racconti degli studenti universitari del paese. Questi, quando  ritornavano a casa a Natale, a Pasqua e durante l’estate, si soffermavano con dovizia di particolari  sulle arcane  delizie di quegli ambienti. La mia presenza era appena tollerata, data la differenza di età, e tante volte venivo allontanato senza troppi riguardi, specie quando i racconti  si apprestavano a diventare particolarmente scabrosi. Io facevo finta di andarmene, giravo un po’ al largo, ma poi approfittavo della distrazione di tutti  e a poco a poco mi riavvicinavo. Finché qualcuno non se ne accorgeva e un’altra volta venivo allontanato.
In questo andirivieni e con l’ascolto smozzicato di tanti fatti, le mie idee risultarono abbastanza  confuse. Soltanto una  cosa  mi sembrò sicura e inconfutabile: quelle case dovevano essere un luogo di piaceri proibiti, ai quali anche io, un giorno, forse, mi sarei avvicinato.
Divenuto un po’ più grandicello, ma non abbastanza per avervi accesso, fui erudito in merito da Peppe Nuccà, proiezionista nell’unico cinema del paese. Egli era un mio grande amico, nonostante la differenza di età, e  spesso mi consentiva  di vedere i film a sbafo su uno scomodo sgabello posizionato nella cabina di  proiezione. Tra le tante cose che lo distinguevano, una, in particolare, mi colpiva e mi incuriosiva: egli era un grande frequentatore di casini, tanto che, diceva, non riusciva a starne lontano per più di due o tre giorni.
 Mi teneva costantemente al corrente delle sue visite nell’unica casa chiusa  della zona, che poi era situata a Crotone, in  luogo discreto e appartato, ed era gestita da una tenutaria, Giuseppina Balestrieri o Mamma Pina, come egli preferiva chiamarla e come la chiamavano quasi tutti. I suoi racconti sembravano dei bollettini di guerra: aveva assaltato Ines che veniva da Torino, aveva annientato Tonina che veniva da Napoli, solo una volta aveva operato una ritirata strategica con Paola che era una profuga istriana. Io capivo poco di queste tattiche amatorie, ma prendevo per oro colato tutto quello che diceva e soprattutto sentivo un’ammirazione sconfinata per le sue gesta.
Mamma Pina era un’ ex prostituta che aveva deciso di mettersi in proprio. Pesava non meno di un quintale e, da un angolo della sala d’ingresso, dove sotto un baldacchino era situato il suo posto di comando, sorvegliava  e dirigeva con autorità e dolcezza quel  mondo variegato che gravitava intorno alla sua “casa”. Accoglieva tutti i clienti con premura e si arrabbiava solo con i “cacaniente”, come lei li chiamava, cioè  quelli che, dopo  aver indugiato  a lungo nella sala d’aspetto, se ne andavano senza aver “consumato”.
Mamma Pina in quell’ambiente era come una sepolta viva e usciva solo una volta ogni quindici giorni, quando, in una lunga carrozza trainata da due cavalli, esibiva nelle strade della città i nuovi arrivi, la cosiddetta quindicina. Girando su quella carrozza, sotto un ombrellino che proteggeva dai raggi del sole la sua carne abbondante e bianchissima, aveva lo sguardo perso nel vuoto e faceva finta di non conoscere nessuno, per evitare imbarazzi,  esperta com‘era di tanti segreti della  città e di come girava il mondo.
Peppe mi parlava di lei con una sorta di venerazione, raccontandomi di come ella avesse preso a ben volerlo. Un giorno mi fece vedere un tesserino speciale, una sorta di abbonamento, che gli consentiva di usufruire delle prestazioni della “casa” a prezzi speciali.
Mamma Pina faceva ormai parte del mio mondo e una notte arrivai addirittura a sognarla, pur senza averla mai vista. Grassa, ma con un volto bellissimo e dolcissimo, con un vestito che la ricopriva fino ai piedi, mi faceva cenno di avvicinarmi  e mi prendeva per mano. Ero in un  luogo sconosciuto, in una stanza che  non avevo mai visto prima e dietro un tramezzo lei  mi affidava ad una fanciulla bionda e con gli occhi azzurri. Mi svegliai con l’amara e dolce consapevolezza che era stato soltanto un sogno.
Peppe mi parlava anche delle prostitute, chiamandole per nome, come  fossero sue amiche. Quei nomi sconosciuti, a volte strani, a volte dal vago sapore esotico, Ines, Gilda, Doris, quei nomi chiaramente fittizi, come  era d’uso in quel mondo, riempivano di frequente le notti di Peppe, oltre a riempire i racconti che egli me ne faceva e le mie fantasie.
Ma quel mondo stava per finire. Una sera Peppe, con un tono da funerale, mi disse che i casini stavano per chiudere, definitivamente. Per quanto mi riguardava, capii subito che  non avrei fatto più in tempo a conoscerli. Peppe mi aggiunse che il sabato successivo, cioè l’ultima notte, al casino di Mamma Pina ci sarebbe stata una festa d’addio. A quella festa  partecipai pure io, approfittando della complicità di Peppe e soprattutto della confusione che inevitabilmente allentò ogni forma di controllo. Sarebbe stata per me la prima ed insieme l’ultima volta. Quando verso le dieci di sera io e Peppe riuscimmo ad entrare, facendoci largo con qualche spintone, trovammo la sala d’attesa strapiena, con tutte le “ragazze” liberamente mescolate agli intervenuti.
Quella sera nessuno pagò la marchetta e non la pagai nemmeno io, non perché ci fossero i saldi di fine stagione, ma soltanto perché un paio di “ragazze”, alle quali pure  avevo avuto il coraggio di avvicinarmi, mi squadrarono bene in volto e  si accorsero subito  della mia minore età, respingendomi inesorabilmente.
 A mezzanotte in punto una forte scampanellata  richiamò l’attenzione di tutti. Quelli che ancora indugiavano ai piani superiori scesero nella sala d’attesa a pianterreno e nel silenzio generale si sentì la voce di Mamma Pina.  La quale dalla sua postazione, con un bicchiere di champagne in mano ed in preda ad un’evidente e forte emozione, disse parole d’addio. Si rivolse prima di tutto alle sue “ragazze”, chiamandole per nome, tutte, ad una ad una. Le ringraziò, poi le abbracciò. Tutte erano commosse e su qualche volto scorrevano le lacrime. Poi si rivolse ai clienti, a  quelli che lei si ostinava a definire i suoi “figli”, chiedendo scusa per quello che era successo e garantendo  che tutti sarebbero rimasti nel suo cuore. C’era un’atmosfera triste e malinconica quella sera, un’atmosfera da ultimo giro di valzer sul ponte del Titanic.
Qualche tempo dopo mi ritrovai a passare per quei luoghi dove una volta si trovava la “casa” di Mamma Pina. Sulla porta d’ingresso pendeva una tenda scacciamosche intrecciata  con perline di metallo e in alto si poteva vedere l’insegna di un parrucchiere. Era estate e il sole picchiava alto nel cielo. Una finestra aveva le tapparelle rialzate, quelle stesse tapparelle che una volta erano ostinatamente chiuse, per una questione di pudore, si diceva. Un’anta della finestra era leggermente aperta e sui vetri si riflettevano delle ombre, ombre e fantasmi di fanciulle che si muovevano all’interno. Credetti di rivedere in quelle ombre le Ines e le Doris di una volta, credetti di rivedere Mamma Pina.  Mi fermai ad osservarle, fino a quando qualcuno si accorse di me, richiuse l’anta e quelle ombre svanirono, come d’incanto. Stentai a ridestarmi da quel sogno e mi ritrovai  a dire con un sussurro, quasi con un filo di voce: ”Mamma Pina, dove sei? Ines, Doris, Gilda, Francesca, Paola, dove siete?”.
Ezio Scaramuzzino


giovedì 13 dicembre 2012

La signora col cagnolino (Racconto) di Anton Cechov


Anton Pavlovič Čechov (Taganrog,29 gennaio 1860 – Badenweiler15 luglio 1904) è stato uno scrittoredrammaturgo e medico russo.


I
Si diceva che sulla passeggiata lungo il mare fosse comparsa una faccia nuova: una signora con un cagnolino. Dmitrij Dmitrič Gurov, che a Jalta viveva già da due settimane e ormai ci si era abituato, cominciava anche lui a interessarsi alle facce nuove. Mentre era seduto al caffè Vernet nel padiglione vide passare sulla riva una signora giovane, di media statura, bionda, con un berretto; dietro a lei correva un volpino bianco.
Poi la incontrò nel giardino pubblico e nel parco, più volte al giorno. Passeggiava sola, sempre con lo stesso berretto e col cagnolino bianco; nessuno sapeva chi fosse e la chiamavano semplicemente così: la signora col cagnolino.
“Se si trova qui senza marito e senza conoscenti - pensava Gurov - non sarebbe male fare la sua conoscenza”.
Non aveva ancora quarant’anni, ma aveva già una figlia di dodici e due figli che andavano al ginnasio. Lo avevano sposato presto, quando era ancora studente di secondo anno d’università e ora la moglie gli pareva di vent’anni più vecchia di lui. Era una donna alta, dalle sopracciglia brune, dritta, grave e dignitosa e, come soleva definirsi da sé, un essere pensante. Leggeva molto, si permetteva qualche originalità nell’ortografia, chiamava il marito non Dmitrij ma Dimitrij; tuttavia in cuor suo egli la riteneva d’intelligenza limitata, gretta, inelegante, e un po’ la temeva e stava malvolentieri a casa. Da molto tempo già aveva cominciato a tradirla, continuava a tradirla spesso e probabilmente per questo parlava sempre con disprezzo delle donne, e quando in sua presenza il discorso cadeva sul tema delle donne, usava esclamare:
- Razza inferiore! Gli pareva di essere stato reso abbastanza edotto da amare esperienze per poterne dir male, ma ciononostante senza quella “razza inferiore” non avrebbe saputo vivere neppure due giorni. La compagnia degli uomini lo annoiava, si sentiva a disagio, diventava taciturno, freddo, ma quando invece si trovava in mezzo alle donne, si sentiva rinfrancato e sapeva di che parlare con esse e come comportarsi; con le donne anche tacere riusciva gradevole. Nel suo aspetto, nel suo carattere, in tutto il suo essere c’era qualcosa d’attraente, inafferrabile, che suscitava la simpatia delle donne, le seduceva; egli ne era conscio e una forza misteriosa traeva lui stesso verso le donne.
L’esperienza ripetuta e effettivamente amara già da gran tempo gli aveva insegnato che ogni relazione, la quale all’inizio dà una varietà così piacevole alla vita e appare un’avventura facile e dolce, nelle persone perbene e specialmente nei moscoviti, piuttosto pesanti e irresoluti, inevitabilmente si trasforma in un problema complicatissimo, sì che alla fine essa diventa gravosa. Eppure, ad ogni nuovo incontro con una donna interessante, quell’esperienza pareva scivolargli via dalla memoria e lo prendeva la voglia di vivere e tutto sembrava di nuovo tanto semplice e divertente. Ed ecco che una volta, prima del tramonto, mentre egli cenava all’aperto, la signora si avvicinò senza fretta per occupare un tavolo vicino. L’espressione del viso, il modo di camminare, la pettinatura, il vestito gli rivelarono che ella doveva appartenere alla buona società, che era maritata, si trovava per la prima volta a Jalta, e sola, e infine che si annoiava. Nei racconti sui costumi licenziosi in Crimea c’è molto di falso, ed egli li disprezzava sapendo che simili racconti venivano inventati per lo più da persone che avrebbero volentieri peccato se avessero potuto; eppure quando la signora prese posto a tre passi da lui, gli tornarono in mente quelle storie di facili conquiste, di gite ai monti, e d’un tratto il pensiero allettante di una relazione rapida e fugace, di un romanzo d’amore con la donna sconosciuta, di cui ignori nome e cognome, s’impossessò di lui.
Chiamò a sé con un gesto carezzevole il cagnolino e, quando questo si accostò, lo minacciò col dito. Il cagnolino si mise a ringhiare. E Gurov lo minacciò di nuovo.
La signora si voltò a guardarlo, ma poi abbassò subito gli occhi.
·       Non morde - disse arrossendo.
·   Posso dargli un osso? - e quando ella fece un cenno affermativo col capo, domandò affabilmente: - La signora è da molto a Jalta?
·       Da cinque giorni circa.
·       E io quasi ormai da due settimane. Tacquero per qualche istante.
·       Il tempo passa presto, eppure è una tale noia qui! - ella aggiunse senza guardarlo.
·       Tutti amano dire che qui ci si annoia. Uno che di solito vive in qualche cittadina di provincia senza annoiarsi, appena arriva qua, esclama: “Uh, che noia! Uh, che polvere!” quasi venisse da Granada.
Ella rise. Continuarono a mangiare in silenzio, come ignorandosi a vicenda. Ma dopo la cena s’incamminarono insieme, fianco a fianco, e cominciò una conversazione facile, scherzosa, come fra persone libere, contente, alle quali non importi dove si va e di che cosa si parla. Passeggiavano e s’intrattenevano dello strano colore del mare; l’acqua aveva una tinta violacea, morbida e calda, e dalla luna una striscia dorata la solcava. Parlavano dell’aria afosa dopo una giornata torrida. Gurov raccontò che era di Mosca, che aveva studiato filologia ma era diventato impiegato di banca; che una volta si era messo a studiare canto lirico per esibirsi in privato, ma poi aveva troncato, e che a Mosca era proprietario di due case... E da lei egli venne a sapere che era cresciuta a Pietroburgo, ma che si era maritata nella città di S., dove viveva da due anni, che si sarebbe fermata a Jalta ancora un mese e che forse suo marito l’avrebbe raggiunta, perché voleva anch’egli riposarsi un poco. Non riuscì però in nessun modo a spiegargli dove prestasse servizio suo marito, se alla direzione del governatorato o alla delegazione dell’assemblea dello zemstvo, e lei stessa dovette ridere della propria ignoranza. Gurov seppe poi anche che si chiamava Anna Sergèevna.
Tornato all’albergo, rimase a pensare a lei, s’immaginò che il giorno appresso l’avrebbe certamente incontrata di nuovo. Era una cosa ovvia. Coricandosi si ricordò che pochi anni prima ella era stata un’educanda, aveva studiato esattamente come ora faceva sua figlia, e gli venne in mente che c’era ancora tanto di timido, di impacciato nel suo modo di ridere, di conversare con uno sconosciuto - probabilmente era la prima volta in vita sua che essa si trovava, in un ambiente simile, in cui veniva osservata e seguita e gli uomini s’intrattenevano con lei sempre in vista d’un unico fine segreto che essa non poteva non indovinare. Si ricordò anche del suo collo sottile, esile, dei suoi begli occhi grigi. “Eppure c’è qualcosa in lei che fa pena”, pensò e cominciò ad assopirsi.
II
Era passata una settimana dal primo incontro. Era una giornata festiva. Nelle camere c’era afa e per le strade il vento sollevava nugoli di polvere, portava via i cappelli. Durante tutto il giorno non si faceva che aver voglia di bere, e Gurov spesso andò al padiglione dello stabilimento balneare per offrire a Anna Sergèevna ora una bibita ora un gelato. Non si sapeva dove rifugiarsi. La sera, quando il vento si fu un poco calmato, si recarono sul molo per vedere l’arrivo del vapore. Sulla banchina molta gente passeggiava su e giù; parecchi venuti certo a prendere qualcuno, con mazzi di fiori in mano. Spiccavano nette due singolarità del pubblico elegante di Jalta: signore anziane vestite come delle giovani e una quantità di generali.
A causa del mare agitato il vapore arrivò con ritardo, quando il sole era già tramontato e prima di gettar l’ancora, manovrò a lungo. Anna Sergèevna osservava attraverso l’occhialetto il piroscafo e i passeggeri, come cercasse qualche conoscenza e, quando si volgeva a Gurov, i suoi occhi brillavano. Parlava molto, le sue domande erano brusche e lei stessa dimenticava subito quel che aveva domandato; poi in mezzo alla calca perse l’occhialetto.
La folla festante si era dispersa, già non si vedeva più nessuno, il vento si era del tutto placato e Gurov e Anna Sergèevna continuavano a star lì, come se aspettassero che qualcun’altro scendesse dal vapore. Anna Sergèevna da un po’ taceva, di tanto in tanto fiutando dei fiori, senza guardare Gurov.
·       Il tempo è un po’ migliorato verso sera - disse egli. - Dove andiamo ora? Che ne direste, se prendessimo una carrozza? Ella non rispose nulla. Allora egli la fissò in volto e d’un tratto l’abbracciò e baciò sulle labbra e fu avvolto dal profumo fresco dei fiori, ma tosto si guardò intorno spaurito al pensiero che qualcuno li avesse veduti.
·       Andiamo da voi... - mormorò.
E s’incamminarono rapidamente. Nella camera di lei l’aria era soffocante e impregnata di un profumo ch’ella aveva comprato in una bottega giapponese. Gurov, osservandola ora, pensava: “Che strani incontri càpitano nella vita!”. Dal proprio passato aveva conservato il ricordo di donne spensierate, bonarie, gaie d’amore, grate della felicità sia pure molto breve ch’egli donava loro; e il ricordo di donne, come per esempio sua moglie, le quali amavano senza sincerità, con discorsi superflui, con affettazioni e pose ipocrite, assumendo un’espressione come volessero far capire che quello non era amore né passione, ma qualcosa di assai più importante; e infine serbava il ricordo di due, tre, molto belle, fredde, sul cui volto balenava un’espressione rapace, un desiderio caparbio di afferrare, di strappare alla vita più di quanto essa è in grado di dare; ed erano state donne che avevano varcato la prima giovinezza, capricciose, irriflessive, imperiose, non intelligenti, e quando in Gurov l’ardore si andava raffreddando, la loro bellezza suscitava in lui odio e i merletti della loro biancheria gli davano l’impressione come di scaglie.
E ora invece aveva notato sempre quella medesima timidezza, quel fare impacciato di un essere giovane, inesperto, quel senso di disagio; e c’era un’espressione di smarrimento, come se qualcuno avesse bussato alla porta. Anna Sergèevna, quella “signora col cagnolino”, verso ciò che era accaduto prese un atteggiamento singolare, molto serio, come consapevole di una sua caduta, così almeno pareva, e la cosa riusciva strana e quasi incongruente. I tratti del viso si allentarono, appassirono e i lunghi capelli pendevano tristi dalle due parti; ella rimase meditabonda in una posa di mestizia, proprio come la peccatrice in un quadro antico. — Non è bene — disse. — Voi sarete ora il primo a non stimarmi. Sul tavolo della camera c’era un cocomero. Gurov si tagliò una fetta e si mise a mangiarla lentamente. Passò una mezz’ora almeno in silenzio.
Qualcosa di commovente spirava da Anna Sergèevna, la purezza d’una donna perbene, ingenua, poco esperta della vita; la candela solitaria che ardeva sulla tavola illuminava appena il suo volto, ma si vedeva che nell’intimo si tormentava.
— Perché dovrei cessare di stimarti? domandò Gurov. — Non sai tu stessa quel che dici.
— Che Dio mi perdoni! — disse ella, e gli occhi le si riempirono di lacrime. — E’ terribile.
- Non hai bisogno di giustificarti. 
- E come dovrei giustificarmi? Sono una donna volgare, bassa, e mi disprezzo e non ci penso neanche a giustificarmi. Non ho tradito mio marito, ma me stessa. E non ora soltanto, ma da molto tempo lo tradisco. Mio marito è forse un uomo onesto, buono, ma in fondo è un lacchè! Non so quale sia il suo lavoro laggiù, come presti il suo servizio, so soltanto che ha l’anima di un lacchè. Avevo vent’anni quando mi sposai, ero tormentata dalla curiosità, desideravo qualcosa di meglio; perché ci dev’essere, mi dicevo, una vita diversa. Avevo voglia di vivere. Vivere, vivere veramente... La curiosità mi bruciava... Voi non lo potete capire, ma vi giuro in nome di Dio, non riuscivo più a dominarmi, qualcosa succedeva in me, non era possibile tenermi, e ho detto a mio marito che ero ammalata e sono venuta qua... E qui giravo come in delirio, come una pazza... ed ecco che son diventata una donna come tante altre, una donna miserabile che ognuno può disprezzare.
Gurov provava già noia ad ascoltarla, lo irritava il tono ingenuo, questo pentimento inaspettato, fuori luogo: se non fossero state le lacrime negli occhi, si sarebbe potuto pensare che scherzasse o recitasse una parte,
·       Non capisco - disse piano: - che cosa vuoi insomma? Ella poggiò il viso sul suo petto e si strinse a lui.
·       Credetemi, credetemi, vi supplico - continuava a dire. - Amo la vita onesta, pura, e il peccato mi fa ribrezzo, non so io stessa quel che sto facendo. La gente semplice dice: il diavolo ci ha messo la coda. E ora posso anch'io dire di me che ci ha messo la coda il diavolo.
·       Via, basta, basta... - mormorava egli. La guardava negli occhi fissi, spaventati, la baciava e le parlava con voce sommessa, carezzevole, e a poco a poco essa si calmò e l’allegria tornò in lei; tutti e due si misero a ridere.
Poi quando uscirono, sulla passeggiata non c’era più anima viva, la città con i suoi cipressi aveva un aspetto funereo, ma il mare continuava a rumoreggiare e a battere contro la riva; una barca dondolava sulle onde e su di essa un piccolo fanale gettava una luce fioca.
Trovarono una carrozza e si fecero portare a Oreanda.
·       Ho saputo or ora il tuo cognome nella portineria - sul quadro era scritto von Dideritz - disse Gurov. - È tedesco tuo marito?
·       No, suo nonno, mi pare fosse tedesco, ma lui è ortodosso. A Oreanda si sedettero su una panchina vicino alla chiesa e stettero a guardare il mare in basso, senza parlare. Jalta appena s’intravvedeva attraverso la nebbia del mattino, sulle cime dei monti nuvole bianche erano sospese immobili. Il fogliame non si moveva neppure, si udiva solo il canto delle cicale e il mormorio sordo, monotono del mare che veniva dal basso, parlava di quiete, del sonno eterno che ci attende. Così mormorava il mare quando ancora non esistevano né Jalta né Oreanda, e continua a mormorare e così mormorerà indifferente e sordo, quando noi non saremo più. In questa immutabilità, in questa totale indifferenza verso la vita e la morte di ciascuno di noi, si cela, forse, il pegno della nostra salvezza eterna, del moto incessante della vita sulla terra, dell’incessante perfezionamento. Seduto accanto a una donna giovane che nella luce dell’alba appariva così bella, calmato e incantato dallo scenario fiabesco intorno, dal mare, dai monti, dalle nuvole e dal cielo vasto, Gurov trovava che in verità, a pensarci bene, tutto in questo mondo è meraviglioso, tutto, all’infuori di quello che noi stessi operiamo e pensiamo quando dimentichiamo i fini ultimi dell’esistenza, la nostra dignità umana.
Si avvicinò un uomo - probabilmente un guardiano - li osservò un momento e si allontanò di nuovo. E anche questo particolare parve così misterioso e pure bellissimo. Si vide un piroscafo proveniente da Feodosija, illuminato dai bagliori dell’alba e che già navigava con le luci spente.
·       C’è della rugiada sull’erba - disse Anna Sergèevna dopo un lungo silenzio.
·       Sì. E’ ora di tornare a casa. Rientrarono in città. Poi, ogni giorno a mezzodì si incontravano sulla passeggiata, facevano colazione, cenavano insieme, giravano, si estasiavano davanti al mare. Ella si lagnava che dormiva male, che aveva il cuore agitato, e poneva sempre le stesse domande, turbata ora dalla gelosia ora dal timore che egli non la stimasse abbastanza. E spesso nel parco o nel giardino pubblico, quando non c’era nessuno nelle vicinanze, egli d’un tratto la attirava a sé e la baciava appassionatamente. La vita oziosa che conduceva, quei baci, in pieno giorno, guardando in giro spauriti se nessuno li scorgesse, il caldo, l’odore del mare e il continuo baluginare davanti agli occhi di una folla oziosa, elegante, sazia, sembravano averlo quasi fatto rinascere; ripeteva ad Anna Sergèevna che era tanto bella, affascinante, ed era tutto preso da una passione impaziente, non la lasciava un istante, mentre ella spesso si faceva meditabonda e continuava a pregarlo che confessasse di stimarla poco, di non amarla affatto, di vedere in lei una donna volgare. Quasi ogni giorno sul tardi essi facevano una gita fuori di città, a Oreanda o alla cascata; e ogni volta era una gioia piena e le impressioni erano sempre bellissime, grandiose.
Aspettavano l’arrivo del marito. Ma giunse una lettera in cui egli le comunicava che aveva preso una malattia agli occhi e la supplicava di tornare al più presto a casa. Anna Sergèevna si preparò a partire in fretta.
- È bene che io me ne debba andare - diceva a Gurov. - È il destino che vuol così.
Partì con la vettura a cavalli ed egli l’accompagnò. Viaggiarono così tutta una giornata. Quando si fu accomodata nello scompartimento del treno espresso, dopo il secondo segnale della campana, gli disse:
·       Lasciate che vi guardi ancora una volta. Ancora una volta. Ecco, così... Non piangeva, ma era triste, come malata, e aveva un tremito nel viso.
·       Penserò a voi... mi ricorderò di voi - disse. - Che Dio vi protegga. Non pensate male di me. Ci separiamo per sempre, è necessario così; perché sarebbe stato meglio non incontrarsi mai, Dio sia con voi.
Il treno si allontanò velocemente, le sue luci si dileguarono presto e dopo un minuto già non si udiva più il suo rumore, quasi che tutto avesse congiurato perché cessasse di colpo quel dolce oblio, quella follia. Rimasto solo sul marciapiede e guardando nella lontananza buia, Gurov ascoltava il canto dei grilli e il ronzio dei fili telegrafici con una sensazione strana, come se solo allora si fosse svegliato. Pensava che, ecco, nella sua vita c’era stata ancora una vicenda o avventura e che anch’essa si era già conclusa, e ora ne era rimasto solo il ricordo... Era commosso, triste e provava un lieve senso di rimorso; quella giovane donna infatti, ch’egli non avrebbe mai più riveduta, non era stata felice con lui. Sì, egli si era mostrato affabile con lei, cordiale, eppure nel suo comportamento verso di lei, nel tono, nelle carezze era passata un’ombra di leggera ironia, la presunzione alquanto grossolana dell’uomo felice, il quale poi era quasi del doppio più anziano di lei. Tutto il tempo essa lo aveva chiamato buono, nobile, straordinario; evidentemente le era apparso diverso da quel che era in realtà, e dunque involontariamente egli l’aveva ingannata...
Qui, alla stazione, si sentiva già nell’aria l’autunno, la serata era fresca, “È tempo anche per me di tornare al Nord - pensava Gurov allontanandosi dal marciapiede. - È tempo ormai!”
III
In casa, a Mosca, ormai tutto era come d’inverno: si accendevano le stufe e la mattina, quando i ragazzi si preparavano per andare al ginnasio e prendevano il tè, era buio e la njanja accendeva per un po’ di tempo il lume. Era già cominciato il gelo. Quando cade la prima neve, il primo giorno che si va in slitta, è gradevole vedere la terra bianca, i tetti bianchi, si respira agevolmente, meravigliosamente, e vengono in mente gli anni giovanili. I vecchi tigli e le betulle, bianchi di brina, hanno un’espressione bonaria, e sono più vicini al cuore che non i cipressi e le palme, e in prossimità loro non si ha più voglia di pensare alle montagne e al mare.
Gurov era moscovita, era tornato a Mosca in una bella giornata di gelo, e quando indossò la pelliccia e si mise i guanti foderati per fare una passeggiata per la Petrovka, e quando la sera del sabato udì lo scampanio festoso, la villeggiatura recente e i luoghi ove era stato perdettero tutto il loro incanto. S’immerse a poco a poco nella vita di Mosca, leggeva già avidamente due o tre giornali al giorno e diceva che non leggeva giornali di Mosca per principio. Già lo attiravano di nuovo i ristoranti, i circoli, i banchetti, gli anniversari, e già si sentiva lusingato che la sua casa fosse frequentata da illustri avvocati e artisti e che al circolo dei medici egli potesse giocare alle carte con un professore. Ed era di nuovo capace di mangiarsi un’intera porzione di seljanka al tegame...
Passerà un mesetto circa, e l’immagine di Anna Sergèevna, così supponeva, si velerà di nebbia nella memoria e solo di quando in quando riapparirà nei sogni col suo sorriso commovente, così come altre donne riaffioravano talvolta nel sogno. Ma passò più d’un mese, si era già nel profondo inverno, e nella memoria tutto rimaneva nitido, come se si fosse separato da Anna Sergèevna il giorno innanzi. E i ricordi divampavano sempre più forti. O che nel silenzio serale giungessero neI suo studio le voci dei figli, che preparavano i loro compiti, o che udisse una romanza o l’organetto in un ristorante, o che nella cappa del camino ululasse la bufera, d’improvviso risorgeva nella memoria tutto: quel che era accaduto sul molo e l’alba nebbiosa nei monti, e il vapore proveniente da Feodosija, e i baci. Camminava a lungo su e giù per la stanza inseguendo i ricordi, sorridendo, poi i ricordi si mutavano in fantasticherie e il passato nella sua immaginazione si confondeva con l’avvenire. Anna Sergèevna non gli appariva in sogno, ma gli andava dietro ovunque, come un’ombra, e lo osservava. Chiudendo gli occhi la vedeva come se gli stesse innanzi viva, e pareva più bella, più giovanile e tenera che non nella realtà; ed egli stesso si vedeva migliore di quanto non fosse stato allora a Jalta. Ella la sera lo guardava dallo scaffale dei libri, dal caminetto, da qualche angolo della stanza; udiva il respiro di lei, il morbido fruscio del suo abito. Per strada accompagnava con lo sguardo le donne, cercava se non ve ne fosse una simile a lei...
E già lo tormentava un desiderio intenso di rendere partecipe qualcuno dei suoi ricordi. Ma a casa non poteva parlare del suo amore e fuori di casa, non c’era nessuno cui confidarlo, non già fra gli inquilini o nemmeno alla banca. E poi, di che parlare? Forse che aveva amato, allora? Forse che c’era stato qualcosa di bello, poetico, o di edificante o anche semplicemente di interessante nella sua relazione con Anna Sergèevna? Conveniva perciò parlare in termini vaghi dell’amore, delle donne, e nessuno indovinava di che si trattasse in sostanza, e solo la moglie moveva le sue sopracciglia scure e diceva:
·       A te, Dimitrij, non s’adatta punto la parte di bellimbusto. Una volta, di notte, uscendo dal circolo dei medici con il suo compagno di partita, un funzionario, non riuscì a trattenersi ed esclamò:
·       Se sapeste con che donna incantevole ho fatto amicizia a Jalta! Il funzionario prese posto nella slitta e quando questa si mise in moto, si voltò d’un tratto e lo chiamò:
·       Dmitrij Dmitrič!
·       Che c’è?
·       Avevate ragione dianzi: quello storione aveva un certo odorino. Queste parole, così comuni, chissà perché indignarono d’un tratto Gurov, gli parvero umilianti, impure. Che usanze rozze, che persone! Com’erano insulse le serate, come insignificanti, senza nulla d’interessante i giorni! Il gioco accanito alle carte, l’intemperanza nel mangiare e nel bere, e continuamente gli stessi discorsi. Le faccende inutili, i discorsi sempre sugli stessi temi si divorano la più gran parte del tempo, le forze migliori, e alla  fine rimane un’esistenza tronca, senz’ali, qualcosa di sconclusionato, e non è possibile andarsene, fuggire, come se ti trovassi in un manicomio o in una compagnia di detenuti.
Gurov non riuscì a dormire tutta la notte, e s’indignò, e il giorno appresso lo passò col mal di capo. Anche le notti successive dormì male; se ne stava seduto nel letto e meditava o camminava da un angolo all’altro. I figli e la banca gli erano venuti a noia, non aveva più voglia di andare in nessun posto, di parlare di nulla.
A dicembre, quando cominciarono le feste, si preparò a partire e raccontò alla moglie che si recava a Pietroburgo per occuparsi di un giovane, e prese il treno per S. Perché? Non lo sapeva bene neppure lui. Sentiva il bisogno di rivedere Anna Sergèevna, di parlarle, di combinare un convegno, se era possibile.
Arrivò a S. di mattina e prese nell’albergo la camera migliore, dove il pavimento era tutto coperto da un panno grigio militare e dove sul tavolino era posato un calamaio grigio di polvere, con un guerriero a cavallo, che aveva un braccio alzato col cappello ed era stato privato della testa. Il portiere gli fornì le necessarie informazioni: che von Dideritz abitava nella Staro-Gončarnaja in una casa di sua proprietà, non lontano dall’albergo, e che viveva bene, anzi riccamente e aveva cavalli suoi, e che tutti in città lo conoscevano. Il cognome il portiere lo pronunciava così: Drìdyric.
Gurov senza fretta s’incamminò verso la Staro-Gončarnaja e trovò la casa indicata. Davanti ad essa si stendeva un lungo steccato grigio disseminato di chiodi.
“Da uno steccato come questo vien voglia di fuggire” pensò Gurov guardando ora le finestre ora lo steccato.
Rifletté: oggi è giornata di vacanza e il marito è probabilmente in casa. E del resto sarebbe stato poco educato venire così e portare scompiglio in casa. Se invece mandava un biglietto, questo poteva andar a finire nelle mani del marito e allora si rovinava tutto. Il partito migliore era dunque affidarsi al caso. E si mise a camminare su e giù per la strada vicino allo steccato, aspettando questo caso. Vide entrare nel portone un mendicante contro il quale vennero lanciati dei cani, poi, un’ora dopo, sentì suonare il pianoforte, ma i suoni giungevano deboli e poco chiari. Certamente era Anna Sergèevna che stava suonando. D’un tratto si aprì la porta di casa e ne uscì una vecchietta, seguita dal ben noto cagnolino bianco. Gurov voleva chiamarlo, ma il cuore d’improvviso si mise a batter forte e per l’agitazione egli non riuscì a rammentare il nome.
Continuò a camminare su e giù e sempre più forte si faceva in lui l’odio contro quello steccato grigio e già pensava con irritazione che Anna Sergèevna forse si era già scordata di lui e già si divertiva con un altro e che ciò sarebbe stato naturale in una donna giovane, costretta a vedere dalla mattina alla sera quel maledetto steccato. Tornò all’albergo, salì in camera e rimase a lungo seduto sul divano, non sapendo che fare. Poi scese a far colazione e poi dormì a lungo.
“Com’è sciocco tutto questo e inquietante - pensò, svegliandosi e guardando le finestre scure: era già sera. - Ecco, ora, chissà perché, ho smaltito il mio sonno. E ora, cosa farò, ch’è già notte?”.
Era seduto sul letto, su cui era stesa una coperta grigia, da pochi soldi, come quelle degli ospedali, e scherniva se stesso:
“Eccoti la tua signora col cagnolino... Eccoti l’avventura… ora sei inchiodato qui!
La mattina, ancora alla stazione, lo aveva colpito un manifesto in cui si annunziava la prima della Geisha. Ora se ne ricordò e decise di andare a teatro. “È probabile che lei vada alle prime rappresentazioni” pensò. Il teatro era pieno. Anche qui, come in tutti i teatri di provincia, sopra i lampadari si librava una nebbiolina e in galleria c’era un’agitazione chiassosa; nelle prime file della platea stavano in piedi i bellimbusti locali, con le mani dietro la schiena; nel palco del governatore sedeva in primo piano la figlia con un boa sulle spalle, mentre il governatore stesso si nascondeva discretamente dietro la tendina e si vedevano solo le sue mani. Il sipario ondeggiava e l’orchestra accordò a lungo gli strumenti. Per tutto il tempo che il pubblico affluiva e andava a occupare i posti, Gurov cercò avidamente con gli occhi.
Entrò anche Anna Sergèevna. Si sedette in terza fila, e quando Gurov la scorse, il suo cuore ebbe un sussulto ed egli comprese chiaramente che per lui ormai in tutto il mondo non esisteva creatura umana più vicina, più cara, e più importante: sperduta in mezzo alla folla provinciale, quella piccola donna che non aveva nulla d’eccezionale, con il suo comunissimo occhialetto in mano, riempiva ora tutta la sua vita, era la sua pena e la sua gioia, l’unica felicità ch’egli ora desiderasse per sé; e ai suoni dell’orchestra mediocre, dei violini miserabili, egli pensava a lei, a come era bella. Pensava e fantasticava. Insieme ad Anna Sergèevna era entrato un giovane signore con delle fedine corte, molto alto, un po’ curvo, che le si era seduto accanto. Ad ogni passo dondolava con la testa e pareva salutasse continuamente. Era di certo il marito, colui che ella, in un impeto di sentimento amaro, aveva definita un’anima di lacchè. E difatti, nella sua figura lunga, nelle fedine, nella calvizie incipiente c’era qualcosa di sottomesso che ricordava un cameriere; e sorrideva anche mellifluo e nell’occhiello brillava un qualche distintivo che pareva proprio un numero di metallo.
Durante il primo intervallo il marito uscì a fumare ed ella rimase seduta in poltrona. Gurov, che aveva pure un posto in platea, le si accostò e disse con voce tremante, sforzandosi di sorridere:
- Buona sera. Ella alzò gli occhi a guardarlo e impallidì, poi di nuovo lo fissò con un’espressione di spavento, non credendo ai propri occhi, poi strinse fortemente fra le dita il ventaglio e l’occhialetto, visibilmente in lotta con se stessa, per non cadere svenuta. Tutti e due tacevano. Ella seduta, l’uomo in piedi, atterrito dal suo turbamento, non osando sederlesi accanto. Ricominciarono a cantare i violini, che venivano accordati, e un flauto, e d’un tratto un senso di terrore s’impadronì di loro e sembrò che da tutti i palchi li osservassero. Ma ecco che essa si alzò e si avviò rapidamente all’uscita; ed egli dietro a lei e camminarono come storditi, per corridoi e scale, ora salendo, ora scendendo, e dinanzi agli occhi trascorrevano persone in uniforme di magistrati, di insegnanti, di impiegati distrettuali, coi loro distintivi, trascorrevano signore, pellicce agli attaccapanni, e soffiava un forte riscontro, recando l’odore di mozziconi di sigari. E Gurov che sentiva battere violentemente il cuore, pensava: “Oh, Dio, perché mai tutta questa gente, quest’orchestra?...”. In quell’istante gli venne in mente che allora, alla stazione, dopo aver accompagnato Anna Sergèevna, si era detto che tutto era finito e che non si sarebbero mai più rivisti. Ma com’era tutto lontano dalla fine!
Su una scaletta angusta, tetra, dov’era scritto: “Ingresso all’anfiteatro “, ella si arrestò.
·       Come mi avete spaventata! - disse respirando con affanno, sempre ancora pallida, sconvolta. - Ah, come mi avete spaventata! Mi sento morire. Perché siete venuto? Perché?
·       Ma cercate di capire, Anna, cercate.., - egli rispose a mezza voce, in fretta.
·       Vi supplico, capite... Essa lo guardava con paura, con amore, supplichevole, fissamente, come a imprimere più fortemente i suoi tratti nella memoria.
·       Soffro tanto! - ella rispose senza ascoItarlo. - Tutto il tempo ho pensato a voi soltanto, ho vissuto sempre pensando a voi. E volevo dimenticare, dimenticare... ma perché, perché siete venuto?
Più in alto, sul pianerottolo, due studenti fumavano e guardavano giù, ma a Gurov non importava più nulla, egli trasse a sé Anna Sergèevna e si mise a coprirle di baci il viso, le guance, le mani,
·       Ma cosa fate, cosa fate! - ella diceva atterrita cercando di respingerlo. - Siamo impazziti tutt’e due. Partite, oggi stesso, partite subito... Vi supplico, vi scongiuro, in nome di Dio... Viene gente! Qualcuno infatti saliva le scale
·       Dovete partire... - proseguì Anna Sergèevna bisbigliando. - Mi state a sentire, Dmitrij Dmitrič? Verrò da voi a Mosca. Non sono mai stata felice, e ora mi sento tanto infelice, e non sarò mai, mai felice, mai! Non mi fate soffrire ancora di più! Vi giuro, verrò da voi a Mosca. Ma ora ci dobbiamo lasciare! Mio caro, mio buono, adorato, separiamoci, ora!
Gli strinse la mano e si precipitò giù per la scala, sempre voltandosi a guardarlo, e dai suoi occhi si vedeva che veramente era infelice... Gurov rimase per un po’ immobile, stette in ascolto, e poi, quando tutto fu silenzioso, si recò al guardaroba e uscì dal teatro.
IV
 E Anna Sergèevna cominciò a venire da lui a Mosca. Ogni due, tre mesi, essa partiva da S., dicendo che andava a consultare un ginecologo, e il marito credeva e non credeva. Arrivata a Mosca scendeva allo Slavjanskij Bazàr e subito mandava da Gurov un inserviente col berretto rosso. E Gurov andava a trovarla, e nessuno sapeva di questi incontri.
Una volta egli andava da lei in una mattinata d’inverno (il messo era venuto la sera prima e non l’aveva trovato in casa). Veniva con lui sua figlia ch’egli voleva accompagnare, strada facendo, al ginnasio. Cadeva la neve in grossi fiocchi fradici.
·       Sono tre gradi sopra zero, ora, eppure piove — spiegava Gurov alla figlia.
·       Ma solo la superficie della terra è tiepida, e negli strati più alti dell’atmosfera c’è una temperatura tutta diversa.
·       Senti, babbo, perché non c’è il tuono in inverno? Le spiegò anche questo. Parlava e frattanto pensava che ecco, egli si recava ora ad un appuntamento, e nessuno ne sapeva nulla e nessuno forse ne avrebbe mai saputo nulla. Viveva due esistenze: una palese, che tutti vedevano e conoscevano tutti quelli che vi avevano un qualche interesse, un’esistenza piena di verità convenzionali e di inganni convenzionali, del tutto simile a quella dei suoi conoscenti e amici; ed un’altra che scorreva segreta. E, per una strana coincidenza di circostanze, forse casuale, tutto ciò che per lui era importante, attraente, necessario, ciò in cui era sincero e non ingannava se stesso e che costituiva il nocciolo della sua vita, si svolgeva all’insaputa degli altri; tutto ciò invece che era la sua menzogna, il suo involucro, nel quale si celava per occultare la verità, e cioè la sua attività alla banca, le discussioni al circolo, quel suo parlare della “razza inferiore”, le visite che faceva con la moglie in occasione di qualche anniversario, tutto questo era palese. Da se stesso poi cominciò a giudicare gli altri, non credeva più a quel che vedeva e sempre supponeva che in ognuno sotto la coltre del segreto, come sotto la coltre della notte, dovesse scorrere la sua vita vera, quella più interessante. Ogni esistenza privata si regge sul segreto e può darsi che proprio per questo l’uomo civile si preoccupi così ansiosamente che la sua storia segreta venga rispettata.
Dopo aver accompagnato la figlia al ginnasio, Gurov andò allo Slavjanskij Bazàr. Si tolse la pelliccia in basso, salì le scale e bussò piano alla porta. Anna Sergèevna, che indossava l’abito grigio a lui caro, stanca del viaggio e dell’attesa, lo aspettava già dalla sera innanzi; era pallida, lo guardava senza sorridere, e non appena egli entrò, gli si gettò sul petto. Come se non si fossero veduti da più d’un anno, il loro bacio fu prolungato, insistente.
·       Ebbene, come va la tua vita laggiù? - egli domandò. - Che c’è di nuovo?
·       Aspetta.... Ora non posso. Non riusciva a parlare, perché piangeva. Si voltò dall’altra parte e si premette il fazzoletto sugli occhi.
“Lasciamo che si sfoghi un po’, e intanto mi seggo”, pensò egli e si accomodò sulla poltrona.
Poi suonò il campanello e ordinò del tè; e mentre egli stava bevendo, Anna Sergèevna continuava a star in piedi, sempre col viso voltato verso la finestra... Piangeva per l’agitazione, per l’amara coscienza della loro vita così penosa e difficile; si potevano vedere solo segretamente, dovevano nascondersi agli altri uomini come dei ladri! Non era una vita fallita, la loro?
- Via, via, smetti di piangere! - egli disse infine. Per lui era ormai chiaro che questo loro amore sarebbe durato ancora a lungo, chissà quanto. Anna Sergèevna si attaccava a lui sempre più fortemente, lo adorava, e sarebbe stato impensabile dirle che tutto questo un giorno avrebbe dovuto finire; e del resto ella non lo avrebbe creduto.
Si accostò a lei e la prese per le spalle, per accarezzarla, per scherzare un poco, e in quel momento si scorse nello specchio di fronte.
I suoi capelli cominciavano già a incanutire. E gli parve strano di esser così invecchiato, così imbruttito negli ultimi anni. Le spalle, su cui posavano le sue mani, erano calde e fremevano. Egli provò pena per quella vita, ancora così calda e bella, eppure già vicina forse ad appassire, a offuscarsi, come la sua propria vita. Perché lo amava tanto? Egli era sempre apparso alle donne diverso da com’era in realtà; esse avevano amato non lui, ma l’uomo che la loro immaginazione creava e che nella loro vita avevano cercato avidamente; e poi, quando si accorgevano dell’errore, continuavano tuttavia ad amarlo. E neppure una era stata felice con lui. Il tempo scorreva, egli faceva nuove conoscenze, si legava per un po’, si separava, ma non una sola volta aveva amato veramente: c’era stato tutto quel che si vuole, ma amore no.
E solo ora che i suoi capelli cominciavano a farsi grigi, si era innamorato davvero, sul serio, per la prima volta in vita sua.
Anna Sergèevna e Gurov si amavano, come esseri affini, intimi, come marito e moglie, come teneri amici; pareva loro che la sorte stessa li avesse predestinati l’uno all’altra ed era incomprensibile che egli fosse sposato, e lei maritata ad un altro. Erano come due uccelli migratori, maschio e femmina, che fossero stati catturati e costretti a vivere in due gabbie separate. Si perdonavano reciprocamente ciò di cui si vergognavano nel loro passato, si perdonavano tutto nel presente e sentivano che questo loro amore li aveva traditi ambedue.
Prima, nei momenti di tristezza, si era calmato con ogni genere di ragionamenti che gli venissero in mente, ma ora non era più capace di ragionare, provava una profonda pietà e aveva voglia di essere sincero, tenero.
- Via, smetti di piangere, mia cara - diceva - hai pianto abbastanza... Ora parleremo con calma, e qualcosa ci verrà in mente.
Poi a lungo discutevano, si consigliavano sul modo di liberarsi dalla necessità di nascondersi, di ingannare, di vivere in due città diverse, separati per lunghi periodi. Come fare a liberarsi da tali legami insopportabili?
- Come? come? egli si chiedeva prendendosi la testa fra le mani. - Come? E pareva che sarebbe trascorso ancora poco tempo, e si sarebbe trovata una soluzione, e sarebbe cominciata allora una vita nuova, meravigliosa; ed erano convinti tutti e due che la fine era ancora lontana  e che il difficile, il più complicato, era appena cominciato.