I casini furono definitivamente chiusi in
Italia alla mezzanotte del 20 settembre
1958. Non fosse altro che per motivi di età, non feci in tempo a frequentarli,
ma essi fecero parte del mio immaginario e certamente alimentarono le fantasie
sessuali, e non soltanto quelle, di tanti giovani della mia età. I casini avevano fatto parte del costume quotidiano,
come la parrocchia o la caserma dei carabinieri, e la loro chiusura non fu senza conseguenze
nella mente e nel cuore di tante persone.
La mia prima conoscenza sull’argomento si
formò grazie ai racconti degli studenti universitari del paese. Questi,
quando ritornavano a casa a Natale, a Pasqua
e durante l’estate, si soffermavano con dovizia di particolari sulle arcane delizie di quegli ambienti. La mia presenza
era appena tollerata, data la differenza di età, e tante volte venivo
allontanato senza troppi riguardi, specie quando i racconti si apprestavano a diventare particolarmente
scabrosi. Io facevo finta di andarmene, giravo un po’ al largo, ma poi
approfittavo della distrazione di tutti
e a poco a poco mi riavvicinavo. Finché qualcuno non se ne accorgeva e
un’altra volta venivo allontanato.
In questo andirivieni e con l’ascolto
smozzicato di tanti fatti, le mie idee risultarono abbastanza confuse. Soltanto una cosa
mi sembrò sicura e inconfutabile: quelle case dovevano essere un luogo
di piaceri proibiti, ai quali anche io, un giorno, forse, mi sarei avvicinato.
Divenuto un po’ più grandicello, ma non
abbastanza per avervi accesso, fui erudito in merito da Peppe Nuccà, proiezionista
nell’unico cinema del paese. Egli era un mio grande amico, nonostante la
differenza di età, e spesso mi
consentiva di vedere i film a sbafo su
uno scomodo sgabello posizionato nella cabina di proiezione. Tra le tante cose che lo
distinguevano, una, in particolare, mi colpiva e mi incuriosiva: egli era un
grande frequentatore di casini, tanto che, diceva, non riusciva a starne lontano
per più di due o tre giorni.
Mi
teneva costantemente al corrente delle sue visite nell’unica casa chiusa della zona, che poi era situata a Crotone,
in luogo discreto e appartato, ed era
gestita da una tenutaria, Giuseppina Balestrieri o Mamma Pina, come egli
preferiva chiamarla e come la chiamavano quasi tutti. I suoi racconti
sembravano dei bollettini di guerra: aveva assaltato Ines che veniva da Torino,
aveva annientato Tonina che veniva da Napoli, solo una volta aveva operato una
ritirata strategica con Paola che era una profuga istriana. Io capivo poco di
queste tattiche amatorie, ma prendevo per oro colato tutto quello che diceva e
soprattutto sentivo un’ammirazione sconfinata per le sue gesta.
Mamma Pina era un’ ex prostituta che aveva
deciso di mettersi in proprio. Pesava non meno di un quintale e, da un angolo
della sala d’ingresso, dove sotto un baldacchino era situato il suo posto di
comando, sorvegliava e dirigeva con
autorità e dolcezza quel mondo variegato
che gravitava intorno alla sua “casa”. Accoglieva tutti i clienti con premura e
si arrabbiava solo con i “cacaniente”, come lei li chiamava, cioè quelli che, dopo aver indugiato a lungo nella sala d’aspetto, se ne andavano
senza aver “consumato”.
Mamma Pina in quell’ambiente era come una
sepolta viva e usciva solo una volta ogni quindici giorni, quando, in una lunga
carrozza trainata da due cavalli, esibiva nelle strade della città i nuovi
arrivi, la cosiddetta quindicina. Girando su quella carrozza, sotto un
ombrellino che proteggeva dai raggi del sole la sua carne abbondante e
bianchissima, aveva lo sguardo perso nel vuoto e faceva finta di non conoscere
nessuno, per evitare imbarazzi, esperta
com‘era di tanti segreti della città e
di come girava il mondo.
Peppe mi parlava di lei con una sorta di
venerazione, raccontandomi di come ella avesse preso a ben volerlo. Un giorno
mi fece vedere un tesserino speciale, una sorta di abbonamento, che gli
consentiva di usufruire delle prestazioni della “casa” a prezzi speciali.
Mamma Pina faceva ormai parte del mio mondo
e una notte arrivai addirittura a sognarla, pur senza averla mai vista. Grassa,
ma con un volto bellissimo e dolcissimo, con un vestito che la ricopriva fino
ai piedi, mi faceva cenno di avvicinarmi
e mi prendeva per mano. Ero in un luogo sconosciuto, in una stanza che non avevo mai visto prima e dietro un
tramezzo lei mi affidava ad una
fanciulla bionda e con gli occhi azzurri. Mi svegliai con l’amara e dolce
consapevolezza che era stato soltanto un sogno.
Peppe mi parlava anche delle prostitute,
chiamandole per nome, come fossero sue
amiche. Quei nomi sconosciuti, a volte strani, a volte dal vago sapore esotico,
Ines, Gilda, Doris, quei nomi chiaramente fittizi, come era d’uso in quel mondo, riempivano di frequente
le notti di Peppe, oltre a riempire i racconti che egli me ne faceva e le mie
fantasie.
Ma quel mondo stava per finire. Una sera
Peppe, con un tono da funerale, mi disse che i casini stavano per chiudere,
definitivamente. Per quanto mi riguardava, capii subito che non avrei fatto più in tempo a conoscerli.
Peppe mi aggiunse che il sabato successivo, cioè l’ultima notte, al casino di
Mamma Pina ci sarebbe stata una festa d’addio. A quella festa partecipai pure io, approfittando della
complicità di Peppe e soprattutto della confusione che inevitabilmente allentò
ogni forma di controllo. Sarebbe stata per me la prima ed insieme l’ultima
volta. Quando verso le dieci di sera io e Peppe riuscimmo ad entrare, facendoci
largo con qualche spintone, trovammo la sala d’attesa strapiena, con tutte le
“ragazze” liberamente mescolate agli intervenuti.
Quella sera nessuno pagò la marchetta e non
la pagai nemmeno io, non perché ci fossero i saldi di fine stagione, ma
soltanto perché un paio di “ragazze”, alle quali pure avevo avuto il coraggio di avvicinarmi, mi squadrarono
bene in volto e si accorsero subito della mia minore età, respingendomi
inesorabilmente.
A
mezzanotte in punto una forte scampanellata
richiamò l’attenzione di tutti. Quelli che ancora indugiavano ai piani
superiori scesero nella sala d’attesa a pianterreno e nel silenzio generale si
sentì la voce di Mamma Pina. La quale
dalla sua postazione, con un bicchiere di champagne in mano ed in preda ad
un’evidente e forte emozione, disse parole d’addio. Si rivolse prima di tutto
alle sue “ragazze”, chiamandole per nome, tutte, ad una ad una. Le ringraziò,
poi le abbracciò. Tutte erano commosse e su qualche volto scorrevano le
lacrime. Poi si rivolse ai clienti, a
quelli che lei si ostinava a definire i suoi “figli”, chiedendo scusa
per quello che era successo e garantendo
che tutti sarebbero rimasti nel suo cuore. C’era un’atmosfera triste e
malinconica quella sera, un’atmosfera da ultimo giro di valzer sul ponte del
Titanic.
Qualche tempo dopo mi ritrovai a passare per
quei luoghi dove una volta si trovava la “casa” di Mamma Pina. Sulla porta
d’ingresso pendeva una tenda scacciamosche intrecciata con perline di metallo e in alto si poteva
vedere l’insegna di un parrucchiere. Era estate e il sole picchiava alto nel
cielo. Una finestra aveva le tapparelle rialzate, quelle stesse tapparelle che
una volta erano ostinatamente chiuse, per una questione di pudore, si diceva.
Un’anta della finestra era leggermente aperta e sui vetri si riflettevano delle
ombre, ombre e fantasmi di fanciulle che si muovevano all’interno. Credetti di
rivedere in quelle ombre le Ines e le Doris di una volta, credetti di rivedere
Mamma Pina. Mi fermai ad osservarle,
fino a quando qualcuno si accorse di me, richiuse l’anta e quelle ombre svanirono,
come d’incanto. Stentai a ridestarmi da quel sogno e mi ritrovai a dire con un sussurro, quasi con un filo di
voce: ”Mamma Pina, dove sei? Ines, Doris, Gilda, Francesca, Paola, dove
siete?”.
Ezio Scaramuzzino
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