giovedì 13 dicembre 2012

La signora col cagnolino (Racconto) di Anton Cechov


Anton Pavlovič Čechov (Taganrog,29 gennaio 1860 – Badenweiler15 luglio 1904) è stato uno scrittoredrammaturgo e medico russo.


I
Si diceva che sulla passeggiata lungo il mare fosse comparsa una faccia nuova: una signora con un cagnolino. Dmitrij Dmitrič Gurov, che a Jalta viveva già da due settimane e ormai ci si era abituato, cominciava anche lui a interessarsi alle facce nuove. Mentre era seduto al caffè Vernet nel padiglione vide passare sulla riva una signora giovane, di media statura, bionda, con un berretto; dietro a lei correva un volpino bianco.
Poi la incontrò nel giardino pubblico e nel parco, più volte al giorno. Passeggiava sola, sempre con lo stesso berretto e col cagnolino bianco; nessuno sapeva chi fosse e la chiamavano semplicemente così: la signora col cagnolino.
“Se si trova qui senza marito e senza conoscenti - pensava Gurov - non sarebbe male fare la sua conoscenza”.
Non aveva ancora quarant’anni, ma aveva già una figlia di dodici e due figli che andavano al ginnasio. Lo avevano sposato presto, quando era ancora studente di secondo anno d’università e ora la moglie gli pareva di vent’anni più vecchia di lui. Era una donna alta, dalle sopracciglia brune, dritta, grave e dignitosa e, come soleva definirsi da sé, un essere pensante. Leggeva molto, si permetteva qualche originalità nell’ortografia, chiamava il marito non Dmitrij ma Dimitrij; tuttavia in cuor suo egli la riteneva d’intelligenza limitata, gretta, inelegante, e un po’ la temeva e stava malvolentieri a casa. Da molto tempo già aveva cominciato a tradirla, continuava a tradirla spesso e probabilmente per questo parlava sempre con disprezzo delle donne, e quando in sua presenza il discorso cadeva sul tema delle donne, usava esclamare:
- Razza inferiore! Gli pareva di essere stato reso abbastanza edotto da amare esperienze per poterne dir male, ma ciononostante senza quella “razza inferiore” non avrebbe saputo vivere neppure due giorni. La compagnia degli uomini lo annoiava, si sentiva a disagio, diventava taciturno, freddo, ma quando invece si trovava in mezzo alle donne, si sentiva rinfrancato e sapeva di che parlare con esse e come comportarsi; con le donne anche tacere riusciva gradevole. Nel suo aspetto, nel suo carattere, in tutto il suo essere c’era qualcosa d’attraente, inafferrabile, che suscitava la simpatia delle donne, le seduceva; egli ne era conscio e una forza misteriosa traeva lui stesso verso le donne.
L’esperienza ripetuta e effettivamente amara già da gran tempo gli aveva insegnato che ogni relazione, la quale all’inizio dà una varietà così piacevole alla vita e appare un’avventura facile e dolce, nelle persone perbene e specialmente nei moscoviti, piuttosto pesanti e irresoluti, inevitabilmente si trasforma in un problema complicatissimo, sì che alla fine essa diventa gravosa. Eppure, ad ogni nuovo incontro con una donna interessante, quell’esperienza pareva scivolargli via dalla memoria e lo prendeva la voglia di vivere e tutto sembrava di nuovo tanto semplice e divertente. Ed ecco che una volta, prima del tramonto, mentre egli cenava all’aperto, la signora si avvicinò senza fretta per occupare un tavolo vicino. L’espressione del viso, il modo di camminare, la pettinatura, il vestito gli rivelarono che ella doveva appartenere alla buona società, che era maritata, si trovava per la prima volta a Jalta, e sola, e infine che si annoiava. Nei racconti sui costumi licenziosi in Crimea c’è molto di falso, ed egli li disprezzava sapendo che simili racconti venivano inventati per lo più da persone che avrebbero volentieri peccato se avessero potuto; eppure quando la signora prese posto a tre passi da lui, gli tornarono in mente quelle storie di facili conquiste, di gite ai monti, e d’un tratto il pensiero allettante di una relazione rapida e fugace, di un romanzo d’amore con la donna sconosciuta, di cui ignori nome e cognome, s’impossessò di lui.
Chiamò a sé con un gesto carezzevole il cagnolino e, quando questo si accostò, lo minacciò col dito. Il cagnolino si mise a ringhiare. E Gurov lo minacciò di nuovo.
La signora si voltò a guardarlo, ma poi abbassò subito gli occhi.
·       Non morde - disse arrossendo.
·   Posso dargli un osso? - e quando ella fece un cenno affermativo col capo, domandò affabilmente: - La signora è da molto a Jalta?
·       Da cinque giorni circa.
·       E io quasi ormai da due settimane. Tacquero per qualche istante.
·       Il tempo passa presto, eppure è una tale noia qui! - ella aggiunse senza guardarlo.
·       Tutti amano dire che qui ci si annoia. Uno che di solito vive in qualche cittadina di provincia senza annoiarsi, appena arriva qua, esclama: “Uh, che noia! Uh, che polvere!” quasi venisse da Granada.
Ella rise. Continuarono a mangiare in silenzio, come ignorandosi a vicenda. Ma dopo la cena s’incamminarono insieme, fianco a fianco, e cominciò una conversazione facile, scherzosa, come fra persone libere, contente, alle quali non importi dove si va e di che cosa si parla. Passeggiavano e s’intrattenevano dello strano colore del mare; l’acqua aveva una tinta violacea, morbida e calda, e dalla luna una striscia dorata la solcava. Parlavano dell’aria afosa dopo una giornata torrida. Gurov raccontò che era di Mosca, che aveva studiato filologia ma era diventato impiegato di banca; che una volta si era messo a studiare canto lirico per esibirsi in privato, ma poi aveva troncato, e che a Mosca era proprietario di due case... E da lei egli venne a sapere che era cresciuta a Pietroburgo, ma che si era maritata nella città di S., dove viveva da due anni, che si sarebbe fermata a Jalta ancora un mese e che forse suo marito l’avrebbe raggiunta, perché voleva anch’egli riposarsi un poco. Non riuscì però in nessun modo a spiegargli dove prestasse servizio suo marito, se alla direzione del governatorato o alla delegazione dell’assemblea dello zemstvo, e lei stessa dovette ridere della propria ignoranza. Gurov seppe poi anche che si chiamava Anna Sergèevna.
Tornato all’albergo, rimase a pensare a lei, s’immaginò che il giorno appresso l’avrebbe certamente incontrata di nuovo. Era una cosa ovvia. Coricandosi si ricordò che pochi anni prima ella era stata un’educanda, aveva studiato esattamente come ora faceva sua figlia, e gli venne in mente che c’era ancora tanto di timido, di impacciato nel suo modo di ridere, di conversare con uno sconosciuto - probabilmente era la prima volta in vita sua che essa si trovava, in un ambiente simile, in cui veniva osservata e seguita e gli uomini s’intrattenevano con lei sempre in vista d’un unico fine segreto che essa non poteva non indovinare. Si ricordò anche del suo collo sottile, esile, dei suoi begli occhi grigi. “Eppure c’è qualcosa in lei che fa pena”, pensò e cominciò ad assopirsi.
II
Era passata una settimana dal primo incontro. Era una giornata festiva. Nelle camere c’era afa e per le strade il vento sollevava nugoli di polvere, portava via i cappelli. Durante tutto il giorno non si faceva che aver voglia di bere, e Gurov spesso andò al padiglione dello stabilimento balneare per offrire a Anna Sergèevna ora una bibita ora un gelato. Non si sapeva dove rifugiarsi. La sera, quando il vento si fu un poco calmato, si recarono sul molo per vedere l’arrivo del vapore. Sulla banchina molta gente passeggiava su e giù; parecchi venuti certo a prendere qualcuno, con mazzi di fiori in mano. Spiccavano nette due singolarità del pubblico elegante di Jalta: signore anziane vestite come delle giovani e una quantità di generali.
A causa del mare agitato il vapore arrivò con ritardo, quando il sole era già tramontato e prima di gettar l’ancora, manovrò a lungo. Anna Sergèevna osservava attraverso l’occhialetto il piroscafo e i passeggeri, come cercasse qualche conoscenza e, quando si volgeva a Gurov, i suoi occhi brillavano. Parlava molto, le sue domande erano brusche e lei stessa dimenticava subito quel che aveva domandato; poi in mezzo alla calca perse l’occhialetto.
La folla festante si era dispersa, già non si vedeva più nessuno, il vento si era del tutto placato e Gurov e Anna Sergèevna continuavano a star lì, come se aspettassero che qualcun’altro scendesse dal vapore. Anna Sergèevna da un po’ taceva, di tanto in tanto fiutando dei fiori, senza guardare Gurov.
·       Il tempo è un po’ migliorato verso sera - disse egli. - Dove andiamo ora? Che ne direste, se prendessimo una carrozza? Ella non rispose nulla. Allora egli la fissò in volto e d’un tratto l’abbracciò e baciò sulle labbra e fu avvolto dal profumo fresco dei fiori, ma tosto si guardò intorno spaurito al pensiero che qualcuno li avesse veduti.
·       Andiamo da voi... - mormorò.
E s’incamminarono rapidamente. Nella camera di lei l’aria era soffocante e impregnata di un profumo ch’ella aveva comprato in una bottega giapponese. Gurov, osservandola ora, pensava: “Che strani incontri càpitano nella vita!”. Dal proprio passato aveva conservato il ricordo di donne spensierate, bonarie, gaie d’amore, grate della felicità sia pure molto breve ch’egli donava loro; e il ricordo di donne, come per esempio sua moglie, le quali amavano senza sincerità, con discorsi superflui, con affettazioni e pose ipocrite, assumendo un’espressione come volessero far capire che quello non era amore né passione, ma qualcosa di assai più importante; e infine serbava il ricordo di due, tre, molto belle, fredde, sul cui volto balenava un’espressione rapace, un desiderio caparbio di afferrare, di strappare alla vita più di quanto essa è in grado di dare; ed erano state donne che avevano varcato la prima giovinezza, capricciose, irriflessive, imperiose, non intelligenti, e quando in Gurov l’ardore si andava raffreddando, la loro bellezza suscitava in lui odio e i merletti della loro biancheria gli davano l’impressione come di scaglie.
E ora invece aveva notato sempre quella medesima timidezza, quel fare impacciato di un essere giovane, inesperto, quel senso di disagio; e c’era un’espressione di smarrimento, come se qualcuno avesse bussato alla porta. Anna Sergèevna, quella “signora col cagnolino”, verso ciò che era accaduto prese un atteggiamento singolare, molto serio, come consapevole di una sua caduta, così almeno pareva, e la cosa riusciva strana e quasi incongruente. I tratti del viso si allentarono, appassirono e i lunghi capelli pendevano tristi dalle due parti; ella rimase meditabonda in una posa di mestizia, proprio come la peccatrice in un quadro antico. — Non è bene — disse. — Voi sarete ora il primo a non stimarmi. Sul tavolo della camera c’era un cocomero. Gurov si tagliò una fetta e si mise a mangiarla lentamente. Passò una mezz’ora almeno in silenzio.
Qualcosa di commovente spirava da Anna Sergèevna, la purezza d’una donna perbene, ingenua, poco esperta della vita; la candela solitaria che ardeva sulla tavola illuminava appena il suo volto, ma si vedeva che nell’intimo si tormentava.
— Perché dovrei cessare di stimarti? domandò Gurov. — Non sai tu stessa quel che dici.
— Che Dio mi perdoni! — disse ella, e gli occhi le si riempirono di lacrime. — E’ terribile.
- Non hai bisogno di giustificarti. 
- E come dovrei giustificarmi? Sono una donna volgare, bassa, e mi disprezzo e non ci penso neanche a giustificarmi. Non ho tradito mio marito, ma me stessa. E non ora soltanto, ma da molto tempo lo tradisco. Mio marito è forse un uomo onesto, buono, ma in fondo è un lacchè! Non so quale sia il suo lavoro laggiù, come presti il suo servizio, so soltanto che ha l’anima di un lacchè. Avevo vent’anni quando mi sposai, ero tormentata dalla curiosità, desideravo qualcosa di meglio; perché ci dev’essere, mi dicevo, una vita diversa. Avevo voglia di vivere. Vivere, vivere veramente... La curiosità mi bruciava... Voi non lo potete capire, ma vi giuro in nome di Dio, non riuscivo più a dominarmi, qualcosa succedeva in me, non era possibile tenermi, e ho detto a mio marito che ero ammalata e sono venuta qua... E qui giravo come in delirio, come una pazza... ed ecco che son diventata una donna come tante altre, una donna miserabile che ognuno può disprezzare.
Gurov provava già noia ad ascoltarla, lo irritava il tono ingenuo, questo pentimento inaspettato, fuori luogo: se non fossero state le lacrime negli occhi, si sarebbe potuto pensare che scherzasse o recitasse una parte,
·       Non capisco - disse piano: - che cosa vuoi insomma? Ella poggiò il viso sul suo petto e si strinse a lui.
·       Credetemi, credetemi, vi supplico - continuava a dire. - Amo la vita onesta, pura, e il peccato mi fa ribrezzo, non so io stessa quel che sto facendo. La gente semplice dice: il diavolo ci ha messo la coda. E ora posso anch'io dire di me che ci ha messo la coda il diavolo.
·       Via, basta, basta... - mormorava egli. La guardava negli occhi fissi, spaventati, la baciava e le parlava con voce sommessa, carezzevole, e a poco a poco essa si calmò e l’allegria tornò in lei; tutti e due si misero a ridere.
Poi quando uscirono, sulla passeggiata non c’era più anima viva, la città con i suoi cipressi aveva un aspetto funereo, ma il mare continuava a rumoreggiare e a battere contro la riva; una barca dondolava sulle onde e su di essa un piccolo fanale gettava una luce fioca.
Trovarono una carrozza e si fecero portare a Oreanda.
·       Ho saputo or ora il tuo cognome nella portineria - sul quadro era scritto von Dideritz - disse Gurov. - È tedesco tuo marito?
·       No, suo nonno, mi pare fosse tedesco, ma lui è ortodosso. A Oreanda si sedettero su una panchina vicino alla chiesa e stettero a guardare il mare in basso, senza parlare. Jalta appena s’intravvedeva attraverso la nebbia del mattino, sulle cime dei monti nuvole bianche erano sospese immobili. Il fogliame non si moveva neppure, si udiva solo il canto delle cicale e il mormorio sordo, monotono del mare che veniva dal basso, parlava di quiete, del sonno eterno che ci attende. Così mormorava il mare quando ancora non esistevano né Jalta né Oreanda, e continua a mormorare e così mormorerà indifferente e sordo, quando noi non saremo più. In questa immutabilità, in questa totale indifferenza verso la vita e la morte di ciascuno di noi, si cela, forse, il pegno della nostra salvezza eterna, del moto incessante della vita sulla terra, dell’incessante perfezionamento. Seduto accanto a una donna giovane che nella luce dell’alba appariva così bella, calmato e incantato dallo scenario fiabesco intorno, dal mare, dai monti, dalle nuvole e dal cielo vasto, Gurov trovava che in verità, a pensarci bene, tutto in questo mondo è meraviglioso, tutto, all’infuori di quello che noi stessi operiamo e pensiamo quando dimentichiamo i fini ultimi dell’esistenza, la nostra dignità umana.
Si avvicinò un uomo - probabilmente un guardiano - li osservò un momento e si allontanò di nuovo. E anche questo particolare parve così misterioso e pure bellissimo. Si vide un piroscafo proveniente da Feodosija, illuminato dai bagliori dell’alba e che già navigava con le luci spente.
·       C’è della rugiada sull’erba - disse Anna Sergèevna dopo un lungo silenzio.
·       Sì. E’ ora di tornare a casa. Rientrarono in città. Poi, ogni giorno a mezzodì si incontravano sulla passeggiata, facevano colazione, cenavano insieme, giravano, si estasiavano davanti al mare. Ella si lagnava che dormiva male, che aveva il cuore agitato, e poneva sempre le stesse domande, turbata ora dalla gelosia ora dal timore che egli non la stimasse abbastanza. E spesso nel parco o nel giardino pubblico, quando non c’era nessuno nelle vicinanze, egli d’un tratto la attirava a sé e la baciava appassionatamente. La vita oziosa che conduceva, quei baci, in pieno giorno, guardando in giro spauriti se nessuno li scorgesse, il caldo, l’odore del mare e il continuo baluginare davanti agli occhi di una folla oziosa, elegante, sazia, sembravano averlo quasi fatto rinascere; ripeteva ad Anna Sergèevna che era tanto bella, affascinante, ed era tutto preso da una passione impaziente, non la lasciava un istante, mentre ella spesso si faceva meditabonda e continuava a pregarlo che confessasse di stimarla poco, di non amarla affatto, di vedere in lei una donna volgare. Quasi ogni giorno sul tardi essi facevano una gita fuori di città, a Oreanda o alla cascata; e ogni volta era una gioia piena e le impressioni erano sempre bellissime, grandiose.
Aspettavano l’arrivo del marito. Ma giunse una lettera in cui egli le comunicava che aveva preso una malattia agli occhi e la supplicava di tornare al più presto a casa. Anna Sergèevna si preparò a partire in fretta.
- È bene che io me ne debba andare - diceva a Gurov. - È il destino che vuol così.
Partì con la vettura a cavalli ed egli l’accompagnò. Viaggiarono così tutta una giornata. Quando si fu accomodata nello scompartimento del treno espresso, dopo il secondo segnale della campana, gli disse:
·       Lasciate che vi guardi ancora una volta. Ancora una volta. Ecco, così... Non piangeva, ma era triste, come malata, e aveva un tremito nel viso.
·       Penserò a voi... mi ricorderò di voi - disse. - Che Dio vi protegga. Non pensate male di me. Ci separiamo per sempre, è necessario così; perché sarebbe stato meglio non incontrarsi mai, Dio sia con voi.
Il treno si allontanò velocemente, le sue luci si dileguarono presto e dopo un minuto già non si udiva più il suo rumore, quasi che tutto avesse congiurato perché cessasse di colpo quel dolce oblio, quella follia. Rimasto solo sul marciapiede e guardando nella lontananza buia, Gurov ascoltava il canto dei grilli e il ronzio dei fili telegrafici con una sensazione strana, come se solo allora si fosse svegliato. Pensava che, ecco, nella sua vita c’era stata ancora una vicenda o avventura e che anch’essa si era già conclusa, e ora ne era rimasto solo il ricordo... Era commosso, triste e provava un lieve senso di rimorso; quella giovane donna infatti, ch’egli non avrebbe mai più riveduta, non era stata felice con lui. Sì, egli si era mostrato affabile con lei, cordiale, eppure nel suo comportamento verso di lei, nel tono, nelle carezze era passata un’ombra di leggera ironia, la presunzione alquanto grossolana dell’uomo felice, il quale poi era quasi del doppio più anziano di lei. Tutto il tempo essa lo aveva chiamato buono, nobile, straordinario; evidentemente le era apparso diverso da quel che era in realtà, e dunque involontariamente egli l’aveva ingannata...
Qui, alla stazione, si sentiva già nell’aria l’autunno, la serata era fresca, “È tempo anche per me di tornare al Nord - pensava Gurov allontanandosi dal marciapiede. - È tempo ormai!”
III
In casa, a Mosca, ormai tutto era come d’inverno: si accendevano le stufe e la mattina, quando i ragazzi si preparavano per andare al ginnasio e prendevano il tè, era buio e la njanja accendeva per un po’ di tempo il lume. Era già cominciato il gelo. Quando cade la prima neve, il primo giorno che si va in slitta, è gradevole vedere la terra bianca, i tetti bianchi, si respira agevolmente, meravigliosamente, e vengono in mente gli anni giovanili. I vecchi tigli e le betulle, bianchi di brina, hanno un’espressione bonaria, e sono più vicini al cuore che non i cipressi e le palme, e in prossimità loro non si ha più voglia di pensare alle montagne e al mare.
Gurov era moscovita, era tornato a Mosca in una bella giornata di gelo, e quando indossò la pelliccia e si mise i guanti foderati per fare una passeggiata per la Petrovka, e quando la sera del sabato udì lo scampanio festoso, la villeggiatura recente e i luoghi ove era stato perdettero tutto il loro incanto. S’immerse a poco a poco nella vita di Mosca, leggeva già avidamente due o tre giornali al giorno e diceva che non leggeva giornali di Mosca per principio. Già lo attiravano di nuovo i ristoranti, i circoli, i banchetti, gli anniversari, e già si sentiva lusingato che la sua casa fosse frequentata da illustri avvocati e artisti e che al circolo dei medici egli potesse giocare alle carte con un professore. Ed era di nuovo capace di mangiarsi un’intera porzione di seljanka al tegame...
Passerà un mesetto circa, e l’immagine di Anna Sergèevna, così supponeva, si velerà di nebbia nella memoria e solo di quando in quando riapparirà nei sogni col suo sorriso commovente, così come altre donne riaffioravano talvolta nel sogno. Ma passò più d’un mese, si era già nel profondo inverno, e nella memoria tutto rimaneva nitido, come se si fosse separato da Anna Sergèevna il giorno innanzi. E i ricordi divampavano sempre più forti. O che nel silenzio serale giungessero neI suo studio le voci dei figli, che preparavano i loro compiti, o che udisse una romanza o l’organetto in un ristorante, o che nella cappa del camino ululasse la bufera, d’improvviso risorgeva nella memoria tutto: quel che era accaduto sul molo e l’alba nebbiosa nei monti, e il vapore proveniente da Feodosija, e i baci. Camminava a lungo su e giù per la stanza inseguendo i ricordi, sorridendo, poi i ricordi si mutavano in fantasticherie e il passato nella sua immaginazione si confondeva con l’avvenire. Anna Sergèevna non gli appariva in sogno, ma gli andava dietro ovunque, come un’ombra, e lo osservava. Chiudendo gli occhi la vedeva come se gli stesse innanzi viva, e pareva più bella, più giovanile e tenera che non nella realtà; ed egli stesso si vedeva migliore di quanto non fosse stato allora a Jalta. Ella la sera lo guardava dallo scaffale dei libri, dal caminetto, da qualche angolo della stanza; udiva il respiro di lei, il morbido fruscio del suo abito. Per strada accompagnava con lo sguardo le donne, cercava se non ve ne fosse una simile a lei...
E già lo tormentava un desiderio intenso di rendere partecipe qualcuno dei suoi ricordi. Ma a casa non poteva parlare del suo amore e fuori di casa, non c’era nessuno cui confidarlo, non già fra gli inquilini o nemmeno alla banca. E poi, di che parlare? Forse che aveva amato, allora? Forse che c’era stato qualcosa di bello, poetico, o di edificante o anche semplicemente di interessante nella sua relazione con Anna Sergèevna? Conveniva perciò parlare in termini vaghi dell’amore, delle donne, e nessuno indovinava di che si trattasse in sostanza, e solo la moglie moveva le sue sopracciglia scure e diceva:
·       A te, Dimitrij, non s’adatta punto la parte di bellimbusto. Una volta, di notte, uscendo dal circolo dei medici con il suo compagno di partita, un funzionario, non riuscì a trattenersi ed esclamò:
·       Se sapeste con che donna incantevole ho fatto amicizia a Jalta! Il funzionario prese posto nella slitta e quando questa si mise in moto, si voltò d’un tratto e lo chiamò:
·       Dmitrij Dmitrič!
·       Che c’è?
·       Avevate ragione dianzi: quello storione aveva un certo odorino. Queste parole, così comuni, chissà perché indignarono d’un tratto Gurov, gli parvero umilianti, impure. Che usanze rozze, che persone! Com’erano insulse le serate, come insignificanti, senza nulla d’interessante i giorni! Il gioco accanito alle carte, l’intemperanza nel mangiare e nel bere, e continuamente gli stessi discorsi. Le faccende inutili, i discorsi sempre sugli stessi temi si divorano la più gran parte del tempo, le forze migliori, e alla  fine rimane un’esistenza tronca, senz’ali, qualcosa di sconclusionato, e non è possibile andarsene, fuggire, come se ti trovassi in un manicomio o in una compagnia di detenuti.
Gurov non riuscì a dormire tutta la notte, e s’indignò, e il giorno appresso lo passò col mal di capo. Anche le notti successive dormì male; se ne stava seduto nel letto e meditava o camminava da un angolo all’altro. I figli e la banca gli erano venuti a noia, non aveva più voglia di andare in nessun posto, di parlare di nulla.
A dicembre, quando cominciarono le feste, si preparò a partire e raccontò alla moglie che si recava a Pietroburgo per occuparsi di un giovane, e prese il treno per S. Perché? Non lo sapeva bene neppure lui. Sentiva il bisogno di rivedere Anna Sergèevna, di parlarle, di combinare un convegno, se era possibile.
Arrivò a S. di mattina e prese nell’albergo la camera migliore, dove il pavimento era tutto coperto da un panno grigio militare e dove sul tavolino era posato un calamaio grigio di polvere, con un guerriero a cavallo, che aveva un braccio alzato col cappello ed era stato privato della testa. Il portiere gli fornì le necessarie informazioni: che von Dideritz abitava nella Staro-Gončarnaja in una casa di sua proprietà, non lontano dall’albergo, e che viveva bene, anzi riccamente e aveva cavalli suoi, e che tutti in città lo conoscevano. Il cognome il portiere lo pronunciava così: Drìdyric.
Gurov senza fretta s’incamminò verso la Staro-Gončarnaja e trovò la casa indicata. Davanti ad essa si stendeva un lungo steccato grigio disseminato di chiodi.
“Da uno steccato come questo vien voglia di fuggire” pensò Gurov guardando ora le finestre ora lo steccato.
Rifletté: oggi è giornata di vacanza e il marito è probabilmente in casa. E del resto sarebbe stato poco educato venire così e portare scompiglio in casa. Se invece mandava un biglietto, questo poteva andar a finire nelle mani del marito e allora si rovinava tutto. Il partito migliore era dunque affidarsi al caso. E si mise a camminare su e giù per la strada vicino allo steccato, aspettando questo caso. Vide entrare nel portone un mendicante contro il quale vennero lanciati dei cani, poi, un’ora dopo, sentì suonare il pianoforte, ma i suoni giungevano deboli e poco chiari. Certamente era Anna Sergèevna che stava suonando. D’un tratto si aprì la porta di casa e ne uscì una vecchietta, seguita dal ben noto cagnolino bianco. Gurov voleva chiamarlo, ma il cuore d’improvviso si mise a batter forte e per l’agitazione egli non riuscì a rammentare il nome.
Continuò a camminare su e giù e sempre più forte si faceva in lui l’odio contro quello steccato grigio e già pensava con irritazione che Anna Sergèevna forse si era già scordata di lui e già si divertiva con un altro e che ciò sarebbe stato naturale in una donna giovane, costretta a vedere dalla mattina alla sera quel maledetto steccato. Tornò all’albergo, salì in camera e rimase a lungo seduto sul divano, non sapendo che fare. Poi scese a far colazione e poi dormì a lungo.
“Com’è sciocco tutto questo e inquietante - pensò, svegliandosi e guardando le finestre scure: era già sera. - Ecco, ora, chissà perché, ho smaltito il mio sonno. E ora, cosa farò, ch’è già notte?”.
Era seduto sul letto, su cui era stesa una coperta grigia, da pochi soldi, come quelle degli ospedali, e scherniva se stesso:
“Eccoti la tua signora col cagnolino... Eccoti l’avventura… ora sei inchiodato qui!
La mattina, ancora alla stazione, lo aveva colpito un manifesto in cui si annunziava la prima della Geisha. Ora se ne ricordò e decise di andare a teatro. “È probabile che lei vada alle prime rappresentazioni” pensò. Il teatro era pieno. Anche qui, come in tutti i teatri di provincia, sopra i lampadari si librava una nebbiolina e in galleria c’era un’agitazione chiassosa; nelle prime file della platea stavano in piedi i bellimbusti locali, con le mani dietro la schiena; nel palco del governatore sedeva in primo piano la figlia con un boa sulle spalle, mentre il governatore stesso si nascondeva discretamente dietro la tendina e si vedevano solo le sue mani. Il sipario ondeggiava e l’orchestra accordò a lungo gli strumenti. Per tutto il tempo che il pubblico affluiva e andava a occupare i posti, Gurov cercò avidamente con gli occhi.
Entrò anche Anna Sergèevna. Si sedette in terza fila, e quando Gurov la scorse, il suo cuore ebbe un sussulto ed egli comprese chiaramente che per lui ormai in tutto il mondo non esisteva creatura umana più vicina, più cara, e più importante: sperduta in mezzo alla folla provinciale, quella piccola donna che non aveva nulla d’eccezionale, con il suo comunissimo occhialetto in mano, riempiva ora tutta la sua vita, era la sua pena e la sua gioia, l’unica felicità ch’egli ora desiderasse per sé; e ai suoni dell’orchestra mediocre, dei violini miserabili, egli pensava a lei, a come era bella. Pensava e fantasticava. Insieme ad Anna Sergèevna era entrato un giovane signore con delle fedine corte, molto alto, un po’ curvo, che le si era seduto accanto. Ad ogni passo dondolava con la testa e pareva salutasse continuamente. Era di certo il marito, colui che ella, in un impeto di sentimento amaro, aveva definita un’anima di lacchè. E difatti, nella sua figura lunga, nelle fedine, nella calvizie incipiente c’era qualcosa di sottomesso che ricordava un cameriere; e sorrideva anche mellifluo e nell’occhiello brillava un qualche distintivo che pareva proprio un numero di metallo.
Durante il primo intervallo il marito uscì a fumare ed ella rimase seduta in poltrona. Gurov, che aveva pure un posto in platea, le si accostò e disse con voce tremante, sforzandosi di sorridere:
- Buona sera. Ella alzò gli occhi a guardarlo e impallidì, poi di nuovo lo fissò con un’espressione di spavento, non credendo ai propri occhi, poi strinse fortemente fra le dita il ventaglio e l’occhialetto, visibilmente in lotta con se stessa, per non cadere svenuta. Tutti e due tacevano. Ella seduta, l’uomo in piedi, atterrito dal suo turbamento, non osando sederlesi accanto. Ricominciarono a cantare i violini, che venivano accordati, e un flauto, e d’un tratto un senso di terrore s’impadronì di loro e sembrò che da tutti i palchi li osservassero. Ma ecco che essa si alzò e si avviò rapidamente all’uscita; ed egli dietro a lei e camminarono come storditi, per corridoi e scale, ora salendo, ora scendendo, e dinanzi agli occhi trascorrevano persone in uniforme di magistrati, di insegnanti, di impiegati distrettuali, coi loro distintivi, trascorrevano signore, pellicce agli attaccapanni, e soffiava un forte riscontro, recando l’odore di mozziconi di sigari. E Gurov che sentiva battere violentemente il cuore, pensava: “Oh, Dio, perché mai tutta questa gente, quest’orchestra?...”. In quell’istante gli venne in mente che allora, alla stazione, dopo aver accompagnato Anna Sergèevna, si era detto che tutto era finito e che non si sarebbero mai più rivisti. Ma com’era tutto lontano dalla fine!
Su una scaletta angusta, tetra, dov’era scritto: “Ingresso all’anfiteatro “, ella si arrestò.
·       Come mi avete spaventata! - disse respirando con affanno, sempre ancora pallida, sconvolta. - Ah, come mi avete spaventata! Mi sento morire. Perché siete venuto? Perché?
·       Ma cercate di capire, Anna, cercate.., - egli rispose a mezza voce, in fretta.
·       Vi supplico, capite... Essa lo guardava con paura, con amore, supplichevole, fissamente, come a imprimere più fortemente i suoi tratti nella memoria.
·       Soffro tanto! - ella rispose senza ascoItarlo. - Tutto il tempo ho pensato a voi soltanto, ho vissuto sempre pensando a voi. E volevo dimenticare, dimenticare... ma perché, perché siete venuto?
Più in alto, sul pianerottolo, due studenti fumavano e guardavano giù, ma a Gurov non importava più nulla, egli trasse a sé Anna Sergèevna e si mise a coprirle di baci il viso, le guance, le mani,
·       Ma cosa fate, cosa fate! - ella diceva atterrita cercando di respingerlo. - Siamo impazziti tutt’e due. Partite, oggi stesso, partite subito... Vi supplico, vi scongiuro, in nome di Dio... Viene gente! Qualcuno infatti saliva le scale
·       Dovete partire... - proseguì Anna Sergèevna bisbigliando. - Mi state a sentire, Dmitrij Dmitrič? Verrò da voi a Mosca. Non sono mai stata felice, e ora mi sento tanto infelice, e non sarò mai, mai felice, mai! Non mi fate soffrire ancora di più! Vi giuro, verrò da voi a Mosca. Ma ora ci dobbiamo lasciare! Mio caro, mio buono, adorato, separiamoci, ora!
Gli strinse la mano e si precipitò giù per la scala, sempre voltandosi a guardarlo, e dai suoi occhi si vedeva che veramente era infelice... Gurov rimase per un po’ immobile, stette in ascolto, e poi, quando tutto fu silenzioso, si recò al guardaroba e uscì dal teatro.
IV
 E Anna Sergèevna cominciò a venire da lui a Mosca. Ogni due, tre mesi, essa partiva da S., dicendo che andava a consultare un ginecologo, e il marito credeva e non credeva. Arrivata a Mosca scendeva allo Slavjanskij Bazàr e subito mandava da Gurov un inserviente col berretto rosso. E Gurov andava a trovarla, e nessuno sapeva di questi incontri.
Una volta egli andava da lei in una mattinata d’inverno (il messo era venuto la sera prima e non l’aveva trovato in casa). Veniva con lui sua figlia ch’egli voleva accompagnare, strada facendo, al ginnasio. Cadeva la neve in grossi fiocchi fradici.
·       Sono tre gradi sopra zero, ora, eppure piove — spiegava Gurov alla figlia.
·       Ma solo la superficie della terra è tiepida, e negli strati più alti dell’atmosfera c’è una temperatura tutta diversa.
·       Senti, babbo, perché non c’è il tuono in inverno? Le spiegò anche questo. Parlava e frattanto pensava che ecco, egli si recava ora ad un appuntamento, e nessuno ne sapeva nulla e nessuno forse ne avrebbe mai saputo nulla. Viveva due esistenze: una palese, che tutti vedevano e conoscevano tutti quelli che vi avevano un qualche interesse, un’esistenza piena di verità convenzionali e di inganni convenzionali, del tutto simile a quella dei suoi conoscenti e amici; ed un’altra che scorreva segreta. E, per una strana coincidenza di circostanze, forse casuale, tutto ciò che per lui era importante, attraente, necessario, ciò in cui era sincero e non ingannava se stesso e che costituiva il nocciolo della sua vita, si svolgeva all’insaputa degli altri; tutto ciò invece che era la sua menzogna, il suo involucro, nel quale si celava per occultare la verità, e cioè la sua attività alla banca, le discussioni al circolo, quel suo parlare della “razza inferiore”, le visite che faceva con la moglie in occasione di qualche anniversario, tutto questo era palese. Da se stesso poi cominciò a giudicare gli altri, non credeva più a quel che vedeva e sempre supponeva che in ognuno sotto la coltre del segreto, come sotto la coltre della notte, dovesse scorrere la sua vita vera, quella più interessante. Ogni esistenza privata si regge sul segreto e può darsi che proprio per questo l’uomo civile si preoccupi così ansiosamente che la sua storia segreta venga rispettata.
Dopo aver accompagnato la figlia al ginnasio, Gurov andò allo Slavjanskij Bazàr. Si tolse la pelliccia in basso, salì le scale e bussò piano alla porta. Anna Sergèevna, che indossava l’abito grigio a lui caro, stanca del viaggio e dell’attesa, lo aspettava già dalla sera innanzi; era pallida, lo guardava senza sorridere, e non appena egli entrò, gli si gettò sul petto. Come se non si fossero veduti da più d’un anno, il loro bacio fu prolungato, insistente.
·       Ebbene, come va la tua vita laggiù? - egli domandò. - Che c’è di nuovo?
·       Aspetta.... Ora non posso. Non riusciva a parlare, perché piangeva. Si voltò dall’altra parte e si premette il fazzoletto sugli occhi.
“Lasciamo che si sfoghi un po’, e intanto mi seggo”, pensò egli e si accomodò sulla poltrona.
Poi suonò il campanello e ordinò del tè; e mentre egli stava bevendo, Anna Sergèevna continuava a star in piedi, sempre col viso voltato verso la finestra... Piangeva per l’agitazione, per l’amara coscienza della loro vita così penosa e difficile; si potevano vedere solo segretamente, dovevano nascondersi agli altri uomini come dei ladri! Non era una vita fallita, la loro?
- Via, via, smetti di piangere! - egli disse infine. Per lui era ormai chiaro che questo loro amore sarebbe durato ancora a lungo, chissà quanto. Anna Sergèevna si attaccava a lui sempre più fortemente, lo adorava, e sarebbe stato impensabile dirle che tutto questo un giorno avrebbe dovuto finire; e del resto ella non lo avrebbe creduto.
Si accostò a lei e la prese per le spalle, per accarezzarla, per scherzare un poco, e in quel momento si scorse nello specchio di fronte.
I suoi capelli cominciavano già a incanutire. E gli parve strano di esser così invecchiato, così imbruttito negli ultimi anni. Le spalle, su cui posavano le sue mani, erano calde e fremevano. Egli provò pena per quella vita, ancora così calda e bella, eppure già vicina forse ad appassire, a offuscarsi, come la sua propria vita. Perché lo amava tanto? Egli era sempre apparso alle donne diverso da com’era in realtà; esse avevano amato non lui, ma l’uomo che la loro immaginazione creava e che nella loro vita avevano cercato avidamente; e poi, quando si accorgevano dell’errore, continuavano tuttavia ad amarlo. E neppure una era stata felice con lui. Il tempo scorreva, egli faceva nuove conoscenze, si legava per un po’, si separava, ma non una sola volta aveva amato veramente: c’era stato tutto quel che si vuole, ma amore no.
E solo ora che i suoi capelli cominciavano a farsi grigi, si era innamorato davvero, sul serio, per la prima volta in vita sua.
Anna Sergèevna e Gurov si amavano, come esseri affini, intimi, come marito e moglie, come teneri amici; pareva loro che la sorte stessa li avesse predestinati l’uno all’altra ed era incomprensibile che egli fosse sposato, e lei maritata ad un altro. Erano come due uccelli migratori, maschio e femmina, che fossero stati catturati e costretti a vivere in due gabbie separate. Si perdonavano reciprocamente ciò di cui si vergognavano nel loro passato, si perdonavano tutto nel presente e sentivano che questo loro amore li aveva traditi ambedue.
Prima, nei momenti di tristezza, si era calmato con ogni genere di ragionamenti che gli venissero in mente, ma ora non era più capace di ragionare, provava una profonda pietà e aveva voglia di essere sincero, tenero.
- Via, smetti di piangere, mia cara - diceva - hai pianto abbastanza... Ora parleremo con calma, e qualcosa ci verrà in mente.
Poi a lungo discutevano, si consigliavano sul modo di liberarsi dalla necessità di nascondersi, di ingannare, di vivere in due città diverse, separati per lunghi periodi. Come fare a liberarsi da tali legami insopportabili?
- Come? come? egli si chiedeva prendendosi la testa fra le mani. - Come? E pareva che sarebbe trascorso ancora poco tempo, e si sarebbe trovata una soluzione, e sarebbe cominciata allora una vita nuova, meravigliosa; ed erano convinti tutti e due che la fine era ancora lontana  e che il difficile, il più complicato, era appena cominciato.



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