Le origini del Fascismo, al di là dei luoghi comuni e del conformismo ideologico, in un articolo di Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della sera.*****
Con questo terzo volume (Storia delle origini del fascismo. L'Italia dalla Grande Guerra alla marcia su Roma, Il Mulino), che esce a più di 45 anni di distanza dal primo, Roberto Vivarelli consegna alla cultura italiana un'opera monumentale, paragonabile solo a quella di Renzo De Felice su Mussolini. E, aggiungendo la sua all'altra — non importano, su alcuni punti, le differenze pure non irrilevanti tra le due —, egli segna la vittoria definitiva del cosiddetto revisionismo su quella che è la questione cruciale della storia italiana del Novecento. Revisionismo è un termine maledetto nel lessico del conformismo ideologico onnipresente, se in realtà esso non volesse dire — come lo stesso autore rivendica — «una delle più elementari esigenze del mestiere» di storico. È giusto comunque adoperarlo per significare come dopo quest'opera nessuno potrà più continuare a sostenere le interpretazioni del fascismo e delle sue cause che pure vanno ancora oggi per la maggiore, tutte in realtà rivolte ad assegnare torti e ragioni secondo le convenienze dell'antifascismo di allora e di poi (esattamente come, dopo l'opera di De Felice, nessuno ha potuto più accreditare l'immagine trucemente macchiettistica del regime che i suoi avversari gli avevano cucito addosso). Naturalmente nessuno che voglia muoversi sul terreno dei fatti e che non sia accecato dal pregiudizio. Resta infatti vero ciò che lo stesso Vivarelli osserva nella prefazione — in polemica con certa imperversante storiografia internazionale, in specie anglosassone, che da noi ha il suo rappresentante in Emilio Gentile — e cioè che la sua opera non varrà certo a far cambiare punto di vista a quegli «studi che discettano di un fenomeno fascista senza confrontarsi affatto con le vicende effettive del movimento di Mussolini e con la storia del Paese in cui quelle vicende si svolsero», riducendone le esperienze a quelle del nazismo tedesco «che con il fascismo italiano avevano in realtà poco a che fare».
Secondo Vivarelli il fascismo non è nato, e neppure si è affermato, come un movimento reazionario di classe sollecitato dagli agrari o tanto meno dagli industriali, come vuole lo stereotipo ancora oggi corrente. L'idea centrale della sua ricostruzione, invece — condotta, così come nei volumi precedenti, su una vastissima documentazione anche di ambito locale —, è che in Italia, tra il 1919 e il 1922, si sia combattuta in realtà una vera e propria guerra civile «tra due opposte passioni politiche», incarnate dai socialisti da un lato e dai fascisti dall'altro: la passione della classe e quella della nazione. Tra la bandiera rossa e il tricolore.
In una simile prospettiva di guerra civile il punto chiave, come è evidente, è l'uscita del conflitto sociale dai binari della legalità; il problema del «chi ha cominciato». E qui una montagna schiacciante di prove vale a mettere sul banco degli accusati il Partito socialista. Per pagine e pagine il lettore s'inoltra in una sorta di interminabile rassegna di quello che è difficile non definire un vero e proprio attacco di demenza politica che in quel dopoguerra colpì i socialisti. Inebriati fino alla forsennatezza dalla rivoluzione leninista, infatti, e non sospettando neppure che con la guerra e la vittoria si apriva una pagina interamente nuova della storia del Paese, dopo il 1918 essi misero in atto due orientamenti suicidi. Da un lato il desiderio di prendersi la rivincita della sconfitta patita nel maggio del 1915 a opera del fronte interventista (il quale però si dà il caso che avesse portato il Paese a un'affermazione storica di cui era impossibile ignorare la portata), e dall'altro l'illusione che in Italia si potesse «fare come la Russia», cioè impadronirsi del potere.
A fare da trait d'union tra questi due obiettivi, e da sfondo ideologico alla grande ondata di lotte sociali successive alla lunga compressione bellica, il Partito socialista mise in campo una violentissima predicazione antinazionale e antipatriottica, una martellante propaganda antimilitaristica fin dentro le caserme e ben oltre i limiti del disfattismo; un fiume ininterrotto di minacce di ogni tipo rivolte ai «borghesi», ai «padroni», ai «signori ufficiali». Non erano solo parole (che pure in politica contano e come!), perché ad esse si aggiungevano i fatti: l'appoggio incondizionato agli scioperi più insulsi, alle violenze più inutili, alle agitazioni anche le più distruttive come gli assalti ai negozi; e poi, laddove il potere era nelle mani degli uomini del partito (a cominciare dalle campagne e dai piccoli centri della bassa Lombardia, del Rodigino, dell'Emilia, della Toscana), «uno stillicidio continuo di abusi e di provocazioni». E non solo: dal momento che, scrive Vivarelli, «non corrisponde al vero che i socialisti fossero alieni dalla violenza». Si arrivò al punto, come a Bologna nel 1920, di disporre la chiusura del camposanto nel giorno dei Morti per festeggiare la conquista del municipio; o, come nei comuni del Genovese, di ordinare alle scuole di rimuovere, insieme ai crocefissi, i ritratti dei sovrani, le lapidi in memoria dei caduti in guerra, le corone con nastri tricolori. E infine dovunque prepotenze, più o meno piccole angherie ai «nemici di classe» e illegalità analoghe.
Ma tutto questo senza la minima iniziativa politica concreta, nonostante che dal 1919, come si sa, i socialisti, con oltre 150 seggi, fossero il maggior partito presente alla Camera. Il fatto si è, però, che dalla retorica massimalista e rivoluzionaria, dalla fissazione leninista di cui erano tutti prigionieri — salvo forse il solo Turati (sì, tutti: perfino i Baldesi, i Matteotti, i Buozzi, i Montemartini si dicevano ancora nel 1921 a favore dell'adesione al Comintern) — essi si sentivano obbligati a teorizzare come unico fine della propria presenza nelle istituzioni rappresentative il boicottaggio delle medesime. Basti pensare che nella legislatura 1919-21 il gruppo parlamentare socialista non avanzò una sola proposta di legge, non una. E che ancora nell'agosto del 1922 — quando ormai l'organizzazione socialista in intere regioni della Penisola era stata ridotta dallo squadrismo a un mucchio di macerie — un uomo come Claudio Treves, presunto portabandiera del riformismo, affermava alla Camera: «Quando si minaccia il parlamentarismo e si inneggia alla dittatura, noi vi diciamo, o signori, de re vestra agitur. Il regime liberale parlamentare è vostro, non nostro».
La vera e massima colpa degli eterogenei governi a maggioranza liberale di quel dopoguerra fu, secondo Vivarelli, di non aver opposto un'energica azione repressiva, come peraltro le leggi consentivano, a questo autentico attacco frontale dei socialisti nei confronti dello Stato nazionale. Ma anzi di aver mantenuto di fronte a un simile attacco, che era rivolto senza mezzi termini alle istituzioni, un'assurda posizione di sostanziale neutralità.
Sta qui, direi, il nocciolo interpretativo decisamente nuovo del libro (nuovo almeno per la storiografia d'ispirazione liberaldemocratica, cui il nostro autore appartiene). Il quale spiega questa debolezza/incapacità con il fatto che il fronte liberalcostituzionale si riconosceva ancora largamente nell'antinterventismo di marca giolittiana, a cui di fatto pure il Partito socialista e i cattolici avevano a suo tempo aderito, ed era quindi ideologicamente ed emotivamente restio a rivendicare il valore della guerra e della vittoria. All'antipatriottismo sovversivo socialista, insomma, i liberali e i popolari furono incapaci di opporre un consapevole, ma fermo, patriottismo delle istituzioni. La loro inazione, protrattasi per almeno due anni, produsse non solo un grave e capillare deterioramento dell'ordine pubblico, ma insieme — ciò che era ancora più grave — quella che a molti e in tante occasioni apparve come un'autentica latitanza dello Stato. Fu questa scelta suicida — quasi una replica sul versante liberale di quella compiuta dai socialisti — che finì per scavare un fossato tra la tradizionale classe dirigente e un'opinione pubblica, specie borghese, che per tanta parte si identificava pienamente nello Stato nazionale, tanto più riconoscendosi, dopo la vittoria, nelle ragioni della guerra e nell'esperienza bellica a cui aveva direttamente partecipato. Da qui una paurosa perdita di prestigio e di autorità da parte dei vari governi che si succedettero dal 1919 al '22 — a cominciare da quello di Giolitti stesso —; da qui l'insuperabile mancanza di credibilità e di forza politica comune a tutti.
Combattuti ferocemente dai socialisti, non difesi in modo adeguato dai liberali, lo Stato e l'eredità della guerra rimasero in certo senso alla mercé di chiunque avesse la volontà, la capacità e la forza di farsene tutore e rappresentante. Proprio perché mancò la reazione legale, è opinione di Vivarelli, sorse e si affermò quella illegale, cioè il fascismo. Dietro l'origine e il successo del quale, non vi fu dunque nessun particolare interesse di classe, bensì, per l'essenziale, una vasta adesione ideologico-culturale allo Stato nazionale nonché la volontà di difenderne la vittoria del '18. Agrari e industriali vennero solo dopo, a cose fatte o quasi, tanto più che «il carattere distintivo del movimento fascista — leggiamo — sin dalle origini, non è l'antisocialismo, ma l'antiliberalismo». La ragione ultima e più vera del successo dei fascisti deve essere vista nel fatto che essi, prendendo atto che la situazione del Paese era ormai quella di una virtuale guerra civile — e cioè che all'uscita dalla legalità da parte dei socialisti poteva contrapporsi solo un'illegalità organizzata, data la «neutralità» del governo — ne trassero le ovvie conseguenze e cominciarono a combattere gli avversari sul loro stesso terreno; e che potendo disporre in una misura enormemente superiore ai loro avversari dei mezzi per vincere (la giovane età, l'esperienza militare, la disciplina, una leadership anche tattica abilissima come quella di Mussolini), alla fine vinsero. Ma non senza avvalersi di una carta decisiva: l'appoggio, fin dall'inizio, delle forze dell'ordine e dell'esercito.
Vivarelli contrasta, in modo che a me sembra anche sul piano documentario convincente, la tesi tradizionale che ciò sarebbe stato il frutto di una voluta complicità con il nascente fascismo della classe dirigente liberale. A un'analisi attenta si direbbe che non fu proprio così. In realtà, sostiene il libro, si sarebbe trattato di una sorta di vera e propria sedizione tacita della struttura militare dello Stato, la quale avrebbe di fatto cessato di obbedire agli ordini di contrasto al movimento fascista impartiti dal governo. I quali ordini invece ci furono, energici e ripetuti, sebbene avvolti sempre da un'ambigua genericità (per esempio non fu mai previsto esplicitamente dalle autorità l'uso delle armi contro i fascisti o disposta la messa fuori legge delle squadre), e così furono ancor più destinati a restare elusi o inascoltati. Il fatto è che, avendo mancato di difendere la legalità contro i socialisti, agli occhi delle forze dell'ordine e dell'esercito (e assai probabilmente anche ai propri stessi occhi) i governi liberali avevano perduto qualunque autorità necessaria per ordinarne ora il rispetto contro i fascisti. Dichiarando una specie di neutralità nella guerra civile in atto, senza peraltro avere la forza di reprimere le due parti in lotta, il governo e i partiti costituzionali erano in pratica usciti dal novero degli attori politici; e con ciò avevano segnato la propria fine.
Come si vede, è un radicale spostamento d'asse interpretativo quello che questo libro opera rispetto all'immagine del fascismo e delle sue premesse, depositata da sempre nel discorso pubblico italiano. E poiché quell'immagine, come si sa, è in qualche modo alla base di tutta la vita della Repubblica, proprio per ciò esso ci aiuta a capire non poche delle fragilità e delle contraddizioni che ne hanno accompagnato la nascita, e non solo.
Ernesto Galli della Loggia
Corriere della sera del 10 ottobre 2012
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