Un piccolo capolavoro di Joyce, tratto dai Dubliners (Racconti di Dublino). Se ne riporta il finale.

Trama
A Dublino, nel 1904, in una serata del periodo natalizio, si svolge la tradizionale festa che tre signorine della buona borghesia, due anziane
sorelle, Kate e Julia Morkan, e la loro nipote Mary Jane, offrono ogni anno per
amici e parenti. Si fa musica, si balla
e si partecipa ad un ottimo pranzo, preparato completamente dalle padrone di
casa. Gabriel Conroy, nipote prediletto
delle signorine Morkan, e sua moglie
Gretta sono gli ospiti principali e aiutano a ricevere gli invitati. Soprattutto è
insostituibile Gabriel, incaricato dalle zie di svolgere compiti delicati, come sorvegliare
Freddy Malins, un caro amico troppo spesso ubriaco, o tagliare al momento opportuno
l’oca arrosto e, infine, pronunciare il
discorsetto ufficiale. La conversazione tra gli ospiti è vivace e si parla molto di musica e di religione. C’è anche un noto tenore fra gli invitati, Bartell D’Arcy, ma sembra non voglia esibirsi,
mentre la vecchia zia Julia, con voce molto flebile, canta una celebre aria in
modo patetico. Tutti lodano l’ospitalità squisita delle tre signorine e il
successo della festa. Poi viene l’ora di andare via: Gabriel e Gretta sono
rimasti fra gli ultimi e, poiché abitano lontano, per quella notte andranno
in albergo. Il marito è già pronto ad
uscire e aspetta all’ingresso la moglie, ma la vede fermarsi sulla scala
all’improvviso, a poca distanza da lui: in quel momento il tenore D’Arcy, in
una stanza al piano di sopra, ha
iniziato a cantare una vecchia e triste canzone irlandese, The Lass of Aughrim, e Gabriel scorge
chiaramente che, ascoltandola, Gretta è commossa fino alle lacrime.
Successivamente i due coniugi
raggiungono in carrozza l’albergo, mentre nevica abbondantemente.
I morti - Finale
Quando la carrozza si fermò davanti all'albergo,
Gabriel saltò giù e, nonostante le proteste di Bartell D'Arcy, pagò il
vetturino, lasciandogli uno scellino di mancia. Quello salutò e disse:
"Felice anno, signore!"
"Altrettanto a voi," ricambiò Gabriel cordialmente.
Lei gli si appoggiò un momento al braccio per
scendere dalla vettura e anche mentre, ferma sul marciapiede, augurava la buona
notte agli altri. Gli si appoggiava leggermente al braccio, come poche ore
prima, quando aveva ballato con lui. In quel momento egli si era sentito orgoglioso
e felice, felice che fosse sua, orgoglioso della sua grazia e della sua femminilità.
Ma adesso, con tutti i ricordi che si erano riaccesi in lui, il primo contatto
col suo corpo armonioso, strano e profumato, gli faceva provare un forte
stimolo di lussuria. Protetto dal silenzio di lei, le prese una mano
stringendosela forte contro il fianco e, quando si trovarono di fronte alla
porta dell'albergo, sentì che erano fuggiti dalla vita e dai doveri quotidiani,
fuggiti da casa e dagli amici per correre insieme, con i cuori spensierati e
raggianti, verso una nuova avventura.
Un vecchio era appisolato su un'enorme poltrona
nell'atrio. Accese una candela in dispensa e fece loro strada su per le scale.
Lo seguivano in silenzio, il rumore dei passi attutito dai folti tappeti. Lei
saliva dietro al portiere, con la testa china, le esili spalle curve come sotto
un peso, e la gonna stretta intorno alle gambe. Avrebbe potuto cingerle i
fianchi con le braccia e stringerla ancora, perché le sue braccia tremavano di
desiderio e soltanto conficcandosi le unghie nel palmo delle mani riusciva a
controllare l'impeto selvaggio del suo corpo. Il portiere si fermò sulle scale
per sistemare meglio la candela che smoccolava e anche loro si fermarono sui
gradini dietro a lui. Nel silenzio Gabriel poteva sentire le gocce di cera
cadere sul piattello e i battiti del cuore nel petto.
Il portiere li guidò lungo un corridoio e aprì una
porta. Poi appoggiò la candela traballante sulla toletta e chiese a che ora
desiderassero essere svegliati.
"Alle otto," rispose Gabriel."
Il portiere indicò l'interruttore della luce elettrica e cominciò a
scusarsi balbettando qualcosa, ma Gabriel tagliò corto:
"Non ci serve nessuna luce. Ne arriva abbastanza dalla strada.
Anzi," aggiunse puntando il dito sulla candela, "portatevi via quel
bell'arnese, su, da bravo."
Il portiere si riprese la candela, con gesto lento, perché era rimasto
stupito da un'idea tanto strampalata. Poi augurò borbottando la buona notte e
se ne andò. Gabriel fece scattare la serratura dall'interno.
La luce spettrale di un lampione dalla finestra si
allungava in una striscia fino alla porta. Gabriel gettò soprabito e cappello
su un divano e attraversò la stanza dirigendosi verso la finestra. Guardava in
strada per riprendersi un po' dall'emozione. Poi si girò e si appoggiò al
cassettone, volgendo le spalle alla luce. Anche lei si era tolta cappello e
mantello e, in piedi davanti a una grande specchiera, stava slacciandosi il
corpetto. Gabriel rimase zitto per alcuni istanti, osservandola, poi le disse:
"Gretta!"
Lentamente lei si allontanò dallo specchio e si diresse verso di lui
lungo la fascia di luce. Aveva un'aria così seria e affaticata che Gabriel non
riuscì a dire parola. No, non era ancora il momento.
"Hai l'aria stanca," le disse.
"Un po' lo sono," rispose lei.
"Ma non ti senti mica male, vero?"
"No, È solo stanchezza; nient'altro."
Si avvicinò alla finestra e rimase là a guardare fuori. Gabriel
aspettò ancora e poi, temendo che la timidezza lo sopraffacesse, disse
improvvisamente:
"A proposito, Gretta..."
"Che cosa?"
"Lo conosci quel poveraccio di Malins," disse in fretta.
"Be', che c'è?"
"Poveraccio, è un buon diavolo in fondo," continuò Gabriel
con una nota falsa nella voce. "Mi ha restituito quella sterlina che gli
avevo prestato e, a dire la verità, non me l'aspettavo. E' un vero peccato che
non sappia stare alla larga da quel Browne, perché non è davvero cattivo."
Ora stava tremando per la tensione. Perchè lei aveva quell'aria così distratta?
Non sapeva come cominciare. Forse anche lei era tormentata da qualcosa? Se solo
si fosse rivolta a lui e gli fosse venuta vicino spontaneamente. Prenderla così
sarebbe stato brutale. No, doveva prima vedere un po' di ardore nei suoi occhi.
Voleva averla vinta su quel suo strano umore.
"Quando gli hai prestato quella sterlina?" gli chiese lei,
dopo una pausa.
Gabriel fece uno sforzo su se stesso per trattenersi dall'esplodere in
una serie di parolacce contro quell'ubriacone di Malins e la sua sterlina.
Sentiva il bisogno di gridarle qualcosa dal profondo dell'anima, di stringere
al suo il corpo di lei, di dominarla. Invece disse:
"Oh, a Natale, quando aprì quel negozietto di cartoleria in Henry
Street."
Si sentiva la febbre addosso, una febbre di rabbia e di desiderio, tanto
che non la sentì avvicinarsi alla finestra. Se ne stette dritta per un attimo
davanti a lui, guardandolo stranamente. Poi, d'improvviso, alzandosi sulla
punta dei piedi e, appoggiandogli delicatamente le mani sulle spalle, lo baciò.
"Sei molto generoso, Gabriel," gli disse.
Gabriel, tremante di gioia, per il suo improvviso bacio e per la stranezza
della frase, le posò le mani sui capelli e comincio ad accarezzarli
all'indietro, toccandoli appena con le dita. L'averli lavati da poco li aveva
resi morbidi e lucenti. Il cuore gli traboccava di felicità. Proprio nel
momento in cui più lo desiderava, lei era venuta da lui spontaneamente. Forse i
loro pensieri avevano seguito lo stesso corso, forse lei aveva sentito il suo
impetuoso desiderio, e poi si era fatta arrendevole. Adesso che era venuta da lui
con tanta facilità, si chiedeva perché si fosse sentito cosi sfiduciato. Rimase
immobile tenendole la testa tra le mani. Poi, passandole rapido un braccio
intorno alla vita, l'attirò a sé e le disse con tenerezza:
"Gretta, cara, a che cosa pensi?"
Non gli rispose, né si abbandonò completamente all'abbraccio. Le ripeté
ancora dolcemente:
"Dimmi che c'è, Gretta. Credo di indovinare di che cosa si
tratta, no?"
Non gli rispose subito. Poi, scoppiando in lacrime, disse: "Sto
pensando a quella canzone: La ragazza di
Aughrim."
Si sciolse dalla stretta, corse verso il letto e, gettando le braccia
sulla spalliera, nascose il viso. Gabriel, per lo stupore, rimase come impietrito
per un istante e poi la seguì. Passando davanti alla specchiera, vi sorprese la
propria immagine riflessa per intero, il davanti della sua ampia camicia ben
steso sopra il petto, il viso, la cui espressione lo metteva sempre in
imbarazzo quando si guardava allo specchio, e il luccichio degli occhiali dalla
montatura dorata. Si fermò a pochi passi da lei e le disse:
"E che cosa c'è in quella canzone? Perché ti fa piangere?"
Sollevò la testa dalle braccia e si asciugò gli occhi col dorso della mano
come una bambina. La voce di Gabriel prese un tono più gentile di quanto
effettivamente fosse nelle sue intenzioni, mentre le chiedeva: "Perché,
Gretta?"
"Mi ricorda una persona che la cantava tanto tempo fa."
"E chi era quella persona?" chiese Gabriel sorridendo.
"Una persona che avevo conosciuto dalla nonna quando stavo a
Galway," rispose.
Il sorriso sparì dal viso di Gabriel. Una sorda collera cominciò ad accumularsi
di nuovo in fondo alla sua mente e un sordo ardore di lussuria riprese a
bruciargli rabbioso nelle vene.
"Qualcuno di cui eri innamorata, naturalmente?" chiese
ironico.
"Era un giovinetto quando lo conobbi," rispose lei, "si
chiamava Michael Furey. Cantava spesso quella canzone: La ragazza di Aughrim. Era molto delicato."
Gabriel taceva. Non voleva che lei pensasse che il ragazzo delicato lo
interessasse.
"Mi sembra ancora di vederlo," riprese Gretta dopo un
momento. "Con quegli occhi grandi, scuri! E che espressione avevano, che espressione!"
"Ne sei proprio innamorata, eh?" disse Gabriel.
"Facevamo spesso delle passeggiate insieme," precisò lei,
"quando ero a Galway."
Un pensiero attraversò la mente di Gabriel.
"Forse è per questo che volevi andare a Galway con quella
Ivors?" chiese freddamente.
Lo guardò con stupore. "E perchè?"
I suoi occhi gli diedero un senso di disagio. Si strinse nelle spalle.
"Che ne so io? Forse per vederlo."
Distolse gli occhi da lui e in silenzio li rivolse verso la finestra, lungo
la striscia luminosa.
"E' morto," disse dopo un bel po'. "E' morto a soli
diciassette anni. Non è terribile morire così giovani?"
"Che cosa faceva?" chiese Gabriel, ancora ironicamente.
"Era impiegato presso l'azienda del gas," rispose lei.
Gabriel si sentì umiliato della cattiva riuscita
della sua ironia e per aver evocato lo spirito di quel ragazzo morto, un
ragazzo impiegato presso l'azienda del gas. Mentre lui era tutto preso dal ricordo
della loro vita intima, pieno di tenerezza, di gioia e di desiderio, lei, nella
sua mente, lo aveva paragonato a un altro. La coscienza di ciò che lui era in
realtà lo assalì e ne sentì vergogna. Si vide come un individuo ridicolo che
faceva da galoppino alle zie, un nervoso, ben intenzionato, sentimentale, che
faceva discorsi alla plebaglia e che idealizzava i propri bassi istinti,
quell'essere fatuo e miserevole, che aveva intravisto nello specchio.
Istintivamente girò ancora di più le spalle alla luce per paura che lei potesse
accorgersi della vergogna che gli bruciava la fronte. Si sforzò di sostenere il
suo tono di fredda interrogazione, ma la sua voce, quando parlò, era umile e
indifferente.
"Penso che ne fossi innamorata di questo Michael Furey,
Gretta," disse.
"Stavamo molto insieme, allora," osservò lei.
La sua voce era velata e triste. Gabriel, sentendo quanto inutile sarebbe
stato ormai cercare di portarla dove si era riproposto, le accarezzò la mano e
disse, anche lui con tristezza:
"E di che cosa è morto così giovane, Gretta? Tubercolosi?"
"Credo sia morto per me," rispose Gretta.
Un vago terrore prese Gabriel a questa risposta,
come se, in quell'ora nella quale aveva sperato di trionfare, un impalpabile e
vendicativo essere gli si scagliasse contro, raccogliendo forze sconosciute
contro di lui nel suo mondo non ben definito. Ma con uno sforzo se ne liberò e
continuò ad accarezzarle la mano. Non le chiese altro, perché sentiva che lei
stessa gli avrebbe detto tutto. La sua mano era calda e umida; non rispondeva
al suo tocco, pure continuò ad accarezzarla, proprio come aveva accarezzato la
prima lettera di lei quella mattina di primavera.
"Era inverno," disse, "anzi il principio dell'inverno,
e stavo per lasciare la casa della nonna per venire qui in collegio. Lui si era
ammalato in quei giorni, lì a Galway, e non poteva uscire, tanto che a Oughterard
i suoi genitori erano stati avvertiti. Era alla fine, dicevano, o qualcosa del
genere. Non l'ho mai saputo con precisione."
S'interruppe per un attimo e sospirò.
"Poverino," riprese. "Mi voleva tanto bene ed era un
così caro ragazzo! Facevamo spesso delle passeggiate insieme, tu sai, Gabriel, come
si fa in campagna. Avrebbe studiato canto, se la scarsa salute non glielo
avesse impedito. Aveva veramente una bella voce, povero Michael Furey."
"Be', e poi?" fece Gabriel.
"Poi, quando arrivò per me il momento di lasciare Galway per
andare in collegio, era molto peggiorato, tanto che non mi consentirono di vederlo;
allora gli scrissi una lettera dicendogli che andavo a Dublino e che sarei
tornata in estate; speravo allora di trovarlo migliorato."
Si fermò ancora un momento per dominare la voce, poi continuò:
"La notte prima che partissi ero in casa della nonna a Nuns
Island e stavo facendo le valige, quando sentii un rumore di sassolini contro la
finestra. Ma i vetri erano tanto bagnati che non mi fu possibile vedere niente.
Allora, così com'ero, corsi giù per le scale e dalla porta posteriore
sgattaiolai in giardino; proprio là, in fondo, trovai quel povero ragazzo, scosso
dai brividi."
"E non gli dicesti di andarsene via?" chiese Gabriel.
"Lo scongiurai di tornarsene a casa subito e gli dissi che
sarebbe morto se fosse rimasto lì sotto quella pioggia. Ma mi rispose che non ci
teneva a vivere. Me li rivedo ancora davanti i suoi occhi come fosse adesso!
Era in piedi in fondo al muro, vicino a un albero."
"E tornò a casa?" chiese Gabriel.
"Sì, se ne andò. Ma era passata appena una settimana da quando
ero entrata in collegio che morì e fu sepolto a Oughterard, il paese dei suoi.
Ah, il giorno che lo seppi, che seppi che era morto!"
S'interruppe, scossa dai singhiozzi, e, sopraffatta
dall'emozione, si buttò a faccia in giù sul letto, mettendosi a singhiozzare
sulla coperta. Gabriel le tenne la mano un po' più a lungo, indeciso, e poi, non
volendo intromettersi nel suo dolore, la lasciò ricadere pian piano e si
diresse lentamente alla finestra. Si era profondamente addormentata.
Gabriel, appoggiato sul gomito, la guardò per
alcuni istanti, senza rancore, i capelli scomposti e la bocca semiaperta,
ascoltandone il profondo respiro. Dunque c'era un romanzo nella sua vita: un
uomo era morto per lei. Sentiva un'acuta sensazione di pena ora, pensando alla misera
parte che lui, il marito, aveva avuto nella sua vita. La osservava, mentre
dormiva, come se non avessero mai vissuto insieme da uomo e donna. I suoi occhi
curiosi indugiarono a lungo sul suo viso e sui suoi capelli e, mentre pensava a
quella che doveva essere stata allora, al tempo della sua bellezza di
fanciulla, una strana, benevola pietà per lei gli penetrò nell'anima. Non
voleva ammettere neppure con se stesso che il suo viso non era più bello, ma
sapeva che non era il viso per il quale Michael Furey aveva sfidato la morte. Forse
non gli aveva raccontato tutto. Posò gli occhi sulla sedia su cui lei aveva
gettato alcuni indumenti. Un laccio della sottana pendeva sul pavimento, uno
stivaletto, la cui parte alta era afflosciata, stava diritto e il compagno gli
giaceva di fianco. Si meravigliò della sua eccitazione di prima. Da dove era nata? Dalla cena
delle zie, dal suo sciocco discorso, dal vino e dal ballare, dal festoso
scambiarsi la buona notte nell'atrio e dal piacere della passeggiata lungo il
fiume sulla neve. Povera zia Julia! Anche lei, presto, sarebbe stata un'ombra
come Patrick Morkan e il suo cavallo. Glielo aveva letto in faccia per un
momento, quando cantava: Ornata per le nozze. Presto, forse, si
sarebbe trovato seduto nello stesso salotto, vestito di nero, col cilindro
sulle ginocchia. Le imposte sarebbero state socchiuse, e zia Kate, seduta
vicino a lui, piangendo e soffiandosi il naso, gli avrebbe raccontato come
Julia era morta. Si sarebbe spremuto le meningi per trovare qualche parola che
potesse
consolarla e ne avrebbe trovato solo di banali e inutili. Sì, sarebbe successo
molto presto.
L'aria della stanza gli faceva sentire freddo alle
spalle. Si lasciò scivolare pian piano sotto il lenzuolo e si coricò vicino
alla moglie. A uno a uno sarebbero diventati tutti delle ombre. Meglio passare
a miglior vita baldanzosamente, nel pieno splendore di qualche passione, piuttosto
che appassire e spegnersi lentamente di vecchiaia. Pensava a come colei che gli
giaceva accanto avesse per tanti anni custodito gelosamente nel cuore
l'immagine degli occhi del suo innamorato, quando le aveva detto che non
desiderava vivere. Lacrime generose riempirono gli occhi di Gabriel. Lui non lo
aveva mai provato per nessuna donna, ma sapeva che un sentimento simile doveva
essere amore. Le lacrime gli salirono più abbondanti agli occhi, e, nella semioscurità,
immaginò di vedere la sagoma di un giovinetto in piedi sotto un albero
gocciolante. Altre figure gli erano vicino. La sua anima si era avvicinata a
quella regione dove abita l'immensa schiera dei morti. Era consapevole della
loro esistenza aerea e incorporea, ma non poteva afferrarla. La sua stessa
identità svaniva in un grigio mondo impalpabile: lo stesso solido mondo, in cui
questi morti avevano operato e vissuto, si dissolveva e svaniva.
Un leggero picchiare sui vetri lo fece girare verso
la finestra. Aveva ricominciato a nevicare. Osservò assonnato i fiocchi,
argentei e scuri, cadere obliquamente contro il lampione. Era tempo per lui di mettersi
in viaggio verso occidente. Sì, i giornali avevano ragione: nevicava in tutta
l'Irlanda. La neve cadeva su ogni punto dell'oscura pianura centrale, sulle
colline senza alberi, cadeva lenta sulla palude di Allen e, più a ovest, sulle
onde scure e tumultuose dello Shannon. Cadeva anche sopra ogni punto del
solitario cimitero sulla collina dove era sepolto Michael Furey. Si ammucchiava
fitta sulle croci contorte e sulle lapidi, sulle punte del cancelletto, sui
roveti spogli. La sua anima si dissolse lentamente nel sonno, mentre ascoltava
la neve cadere lieve su tutto l'universo, come la discesa della loro ultima
fine, su tutti i vivi e su tutti i morti.
Angelica Huston nel film The dead di John Huston, tratto dal racconto di James Joyce.
Angelica Huston nel film The dead di John Huston, tratto dal racconto di James Joyce.