“Pettini,
pettinisse, rocchelle, cromatine, specchi, nastri-iì “ (Pettini, forcine a
denti multipli, rocchetti di filo per cucire, lucido per le scarpe, specchi e
nastri di ogni tipo). Questo grido era ripetuto più volte, con una particolare
ed inconfondibile cadenza, con uno strascico prolungato dell’ultima parola e
soprattutto con un rialzo di tono dell’ultima sillaba, che conferiva all’intero
grido il tono languido e ritmato di una poesia. Con esso annunziava il suo arrivo al mio paese Giustino, un venditore
ambulante, che due-tre volte a settimana da Petilia Policastro giungeva a
Scandale a vendere la sua mercanzia.
C’era un intenso e strano traffico
commerciale allora tra Scandale e Petilia, di cui Giustino non era l’unico rappresentante.
Oltre a lui arrivava periodicamente una vecchia signora specializzata nel
vendere il pane di castagna, molto apprezzato dalle mie parti, ed anche
un’altra signora, che girava per le case dove c’erano giovani fanciulle per
cercare di piazzare corredi ed altri prodotti similari, rigorosamente fatti a
mano e destinati alle figlie più o meno in età da marito.
Giustino però era atteso con particolare interesse,
perché vendeva prodotti non facilmente reperibili in loco e anche perché tutto
sommato i suoi prezzi erano facilmente abbordabili in quelle famiglie
contadine, dove il contante era un bene prezioso e dove non si disdegnava
talvolta di ricorrere all’antichissimo ed insostituibile sistema del baratto:
pettini e pettinisse in cambio di qualche uovo e di altri magri prodotti della
terra.
Giustino arrivava in genere con il pullman
verso le 7 del mattino e subito incominciava a girare per le strade del paese
con le sue cassette, che egli reggeva e trasportava con delle cordicelle legate
ai quattro angoli di ognuna di esse e tenute insieme da un asse centrale di
legno: quattro cassette in tutto, due per mano. D’estate e d’inverno, in
qualunque momento della giornata lo si poteva vedere in giro, oppure fermo ad
un angolo di strada con la sua mercanzia bene in vista e messa insieme in
miracoloso equilibrio, mentre le donne vociavano intorno a lui o contrattavano
sul prezzo. I clienti non gli mancavano, perché quelle quattro cassette erano per molti
aspetti una sorta di bazar, dove era veramente possibile trovare un po’ di
tutto.
Giustino era un uomo intorno ai cinquanta, di
media statura, tarchiato, di poche parole, con un volto eternamente atteggiato
a serietà, con dei baffetti che avevano qualche pretesa di accuratezza e di
civetteria. Ascoltava con pazienza le richieste delle donne, ma raramente si
lasciava convincere ad un pagamento dilazionato o inferiore a quello che lui
aveva deciso in cuor suo. Non era sposato, viveva da solo a quel che si diceva
in giro, campava modestamente con gli stentati incassi del suo lavoro di
ambulante.
La sua apparente serietà non gli aveva però
impedito di allacciare una tresca a Scandale. Non si sa come, non si sa perché,
fatto sta che Giustino aveva messo gli occhi, ricambiato, su una vedova
quarantenne, Rosina, che viveva in una modesta casa circondata da un vasto
podere, alla periferia del paese, con un unico figlio diciottenne.
Non si sa nemmeno come la cosa avesse avuto
inizio e qualcuno, quando le prime voci si diffusero in giro, non escluse
l’ipotesi che la vedova pagasse in natura qualche debito accumulato
nell’acquisto della mercanzia e diventato ormai troppo oneroso per poter essere
pagato diversamente. Quando Giustino arrivava da quelle parti, osservava con
ansia già da lontano la biancheria stesa ad asciugare. Se nella biancheria era
steso un lenzuolo azzurro, quello era il segnale convenuto che il figlio era
assente o al lavoro nei campi, che Rosina era sola, libera e disponibile e che
quindi la via era aperta e lui poteva tranquillamente raggiungerla.
Nel vedere il lenzuolo azzurro, Giustino
veniva afferrato da una strana frenesia, concludeva i modesti affari pendenti,
licenziava tutti e con fare furtivo si dirigeva dalla sua Rosina. All’inizio la
cosa sembrò strana, ma, quando si incominciò a capire il motivo di quella
fretta, i paesani presero la cosa con rassegnazione e in tutto il paese ci si
abituò al pascolo abusivo di Giustino, che si consolava lontano dal suo paese.
Giustino incominciò a diventare un
frequentatore quasi abituale della casa di Rosina. Arrivava con il fiatone, si
riposava un pochino, poi si dirigeva nella stanza da letto dove Rosina aveva
preparato tutto e, senza inutili perdite di tempo o smancerie, si infilava nel
lettone dove già la vedova si trovava ad attenderlo distesa e dove il rapporto
amoroso veniva sbrigato con una rapidità quasi animalesca.
La pacchia durava da qualche tempo, ma, come
tutte le pacchie, era destinata a finire. E già, perché Rosina era sì vedova,
ma era vedova di guerra, ed in quegli anni non era infrequente il caso di
improvvisi ed inaspettati ritorni di soldati creduti morti. Il marito di Rosina,
Peppino, era stato semplicemente ed ufficialmente dichiarato disperso durante
la battaglia di El Alamein, il suo cadavere non era mai stato ritrovato e
l’eventualità di un suo inaspettato ritorno non era del tutto da escludere.
Questa preoccupazione angustiava oltremodo i due piccioncini.
Ma c’era anche un’altra preoccupazione ad
angustiarli. Al paese c’era un altro pretendente di Rosina, Michele Altimari,
fabbro ferraio, sposato e con figli, che aveva avuto una fugace relazione con
Rosina e non si rassegnava alla nuova situazione, dimostrando senza alcun
ritegno la sua insofferenza di spasimante deluso e messo da parte. Rosina lo
aveva escluso quando all’orizzonte era apparso Giustino, con il quale prima o
poi contava di arrivare ad una qualche sistemazione, cosa del tutto
improponibile, anzi impossibile, con Michele.
Costui però dimostrava di non riuscire a
tollerare la sua nuova condizione, si sentiva ingiustamente umiliato, smaniava
e, preso dalla disperazione e dalla gelosia, incominciò a progettare un gesto
clamoroso che, seppure poco utile a lui, servisse però a porre fine all’idillio
dei due amanti.
Michele aveva un amico per la pelle,
Martino, suo compagno in diverse occasioni di ribalderie e di bagordi. Costui
si era accorto che l’amico stava attraversando un periodo difficile ed un
giorno gli prese il discorso.
-
Miché’, lo so che non stai attraversando un buon momento.
-
Già, non ci vuole molto a capirlo, ma così non può continuare. Bisogna fare
qualcosa.
-
Ma che vuoi fare? Rassegnati. Ce ne sono di donne a questo mondo. Ne troverai
un’altra.
-
Ma un’altra Rosina non si trova facilmente. La mia Rosina era speciale e tu non
puoi nemmeno immaginare che donna fosse. Comunque io un’idea ce l’avrei.
Potresti far credere a Giustino che sei il marito ritornato dalla guerra e
costringerlo a scomparire. Così, con le buone, senza violenza.
-
Ma che dici? La cosa verrebbe risaputa prima o poi e non funzionerebbe.
-
In alternativa si potrebbe minacciarlo apertamente e costringerlo a tagliare la
corda.
-
Già questo mi sembra più fattibile. L’importante è agire bene e con
risolutezza. Giustino non mi sembra un tipo coraggioso e un paio di minacce lo
convinceranno facilmente.
I due amici presero accordi dettagliati sul
da farsi e Michele si sentì rinfrancato e pieno di speranza. L’occasione
propizia si presentò dopo qualche settimana.
Era un giorno di agosto dell’anno di grazia
1950. Il figlio di Rosina era andato a Catanzaro per la visita di leva e
sarebbe stato assente per un paio di giorni. Rosina e Giustino si erano visti
al pomeriggio e, approfittando della circostanza, avevano deciso di protrarre
il loro incontro fino al giorno successivo. La vedova aveva fatto le cose per
bene: aveva preparato una deliziosa cenetta per la sera, si era agghindata con
ricercatezza, aveva dato una rassettata alla camera da letto, aveva anche spostato
in un’altra stanza il ritratto incorniciato del “defunto “ marito, ad evitare
che dal comò potesse con il suo incerto sorriso quasi rivolgerle un muto
rimprovero per la notte d’amore che si apprestava a trascorrere.
I due amici Michele e Martino erano però al
corrente di tutto. Sin dal pomeriggio avevano sorvegliato i movimenti di
Giustino, avevano intuito tutto e contavano di passare all’azione nel corso
della notte. L’isolamento della casa alla periferia del paese avrebbe favorito
il loro piano.
I due amanti erano andati a letto presto e
verso le undici, nel pieno delle loro effusioni, sentirono bussare alla porta.
Si augurarono di aver sentito male, ma capirono che non poteva essere: entrambi
avevano sentito nitidamente i colpi sulla porta. Si rivestirono entrambi in fretta:
Giustino cercò di nascondersi alla meglio dietro un armadio, mentre Rosina con
il cuore in gola si avviava verso la porta. Si sentirono ancora una volta
nitidamente alcuni colpi.
-Chi
è? , chiese Rosina.
-Come
chi sono? Disse una voce. Sono Peppino, tuo marito. Sono ritornato dalla
prigionia. Apri. O debbo sfondare questa maledetta porta?
Rosina era perplessa. La voce non era chiara
e non sembrava che fosse con certezza quella del marito. Ma erano dieci anni
che non lo vedeva e sentiva, erano successe tante cose e anche la voce del
marito forse era un po’ cambiata. Non sapeva che fare, ma altri colpi decisi
sulla porta, che aveva preso a traballare vistosamente, riuscirono a
convincerla. Accese la luce, girò con decisione la chiave nella toppa, aprì un
chiavistello supplementare, spalancò l’uscio e sulla soglia, pienamente
illuminati, apparvero i due amici Michele e Martino.
-Dov’è
lui? Dov’è Giustino?, gridò il primo e con passo deciso si avviò verso la
stanza da letto. Quando lo vide tremante dietro l’armadio,
-Vestiti,
gli gridò. Anzi, sei già vestito. Allora spogliati! E, visto che Giustino
esitava, lo strattonò con violenza e gli tolse la camicia di dosso. –Continua a
spogliarti, gli intimò.
Giustino, di fronte alla furia del suo “nemico”,
divenne docile e ubbidiente e continuò a spogliarsi. Rosina, atterrita, era
incapace di profferir parola, mentre il sodale di Michele la teneva a bada e con
tutta evidenza dava manforte al suo amico. Giustino si tolse le scarpe, i
calzini, i pantaloni, la canottiera e rimase in mutande: chiese se poteva
tenere almeno quelle. Michele era quasi fuori di sé: la facilità dell’impresa
alimentava a dismisura la sua euforia e dava ai suoi atteggiamenti ed alle sue
parole toni esaltati, quasi parossistici. Gli disse di tenere le mutande, poi
lo fece girare. Poteva fermarsi lì, poteva accontentarsi dell’umiliazione
inferta al suo nemico, ma tutto questo non gli bastò. Tirò fuori un cartello
preparato in precedenza e glielo appese al collo. Fece segno a Rosina di scansarsi,
assestò una pedata sul didietro a Giustino invitandolo a muoversi, indicò al
suo amico di seguirlo ed infine la strana processione dei tre si diresse verso
il centro del paese.
Dileggiato, spintonato e sputacchiato dai
due, Giustino si moveva come un automa. Ad ulteriore dileggio, sul cartello era
scritto “Sono un ricchione”, cosa che allora era considerata la massima offesa
alla dignità di qualunque uomo, di qualunque maschio. Non ci fu pietà per lui. Inebetito
e quasi reso ubriaco dal dolore e dalla vergogna, Giustino fu portato in giro
per le strade del paese, esibito come un triste trofeo e fu visto da varie
persone in quella notte d’agosto. Ma nessuno ebbe il coraggio di intervenire.
Alla fine, in quelle condizioni, fu strettamente legato con una corda ad un
bidone delle immondizie, dove al mattino qualcuno riuscì a liberarlo.
Il giorno dopo al paese già tutti ne
parlavano e non ci volle molto a sapere come si erano svolti i fatti. La
notizia corse di bocca in bocca e si diffuse dappertutto, anche nei paesi
circostanti. Tutti avevano l’impressione che si fosse superato ogni limite e
dicevano che i colpevoli dovevano essere puniti. Ben presto i due amici furono
individuati, arrestati, sottoposti a processo per la loro crudele bravata e
finirono col fare qualche mese di carcere.
A distanza di qualche anno, quando la cosa
ormai tendeva a sbiadire nella nebbia dei ricordi, Giustino riprese la via di
Scandale e incominciò a rivendere la sua mercanzia. Un giorno, trovandosi verso
la periferia del paese, guardò verso la casa di Rosina e si accorse che tra i
panni stesi ad asciugare c’era anche un lenzuolo, bianco questa volta. Sembrava
quel lenzuolo come una bandiera bianca, il segnale di una resa di fronte alle tempeste
della vita e alle vicende di una tresca amorosa che era finita per sempre.
Un amaro sorriso affiorò sulle labbra di
Giustino, il quale divenne improvvisamente serio e pensieroso. Poi egli si girò
dall’altra parte, si passò una mano sui capelli come per scacciare un brutto
pensiero e per l’ennesima volta prese a gridare “pettini, pettinisse, rocchelle,
cromatine, specchi, nastri-iì…”
Ezio Scaramuzzino
Bel racconto, sei stato così bravo che mi sembrava di vedere i personaggi!
RispondiEliminaSei gentile, come sempre, e quello che scrivi mi fa piacere.
EliminaAwesome blog you have here
RispondiElimina