mercoledì 16 agosto 2017

L'eredità (racconto inedito) di Ezio Scaramuzzino


Mario Fusaro era orfano di padre e di madre. Il padre era morto in guerra, o meglio era da considerarsi disperso, come dicevano le autorità militari nella lettera ufficiale dell’Agosto 1942, con cui comunicavano che se ne erano perse le tracce sul fronte russo. La madre, vedova di guerra, gli era sopravvissuta pochi anni, perché nell’ inverno del 1946 era deceduta in seguito alle complicazioni di una polmonite.
Mario quindi era rimasto orfano all’età di diciotto anni e riusciva a tirare avanti solo con la modestissima pensione di guerra che lo stato gli corrispondeva. Con quella non avrebbe potuto durare a lungo, se non fosse che anche il Comune di Scandale, tramite l’E.C.A, Ente Comunale di Assistenza, provvedeva di tanto in tanto a rifornirlo di qualche bene di prima necessità.
A dire il vero c’era in paese anche uno zio, fratello della madre, zio Paolo, che avrebbe potuto assisterlo, tanto più che era uno degli uomini più ricchi del paese e, cosa che in casi simili non guasta, non si era mai sposato e non aveva figli. Zio Paolo sembrava un novello Mazzarò: come il personaggio verghiano aveva incominciato quasi dal niente, ma, a poco a poco, con la sua testa di contadino con le scarpe grosse ed il cervello fino, all’età di sessanta anni si ritrovava proprietario di molte case del paese e di buona parte degli oliveti che lo circondavano. Mogli non ne aveva volute.”Perché mettersi un’estranea in casa? E poi le donne basta pagarle”, era solito ripetere. E forse non aveva tutti i torti, perché le malelingue gli attribuivano varie relazioni, ma tutte occasionali e non impegnative.
A chi avrebbe dovuto lasciarli i soldi zio Paolo? Non aveva moglie, non aveva figli, aveva solo quel nipote, che con la sua muta e costante presenza gli ricordava fastidiosamente i legami della parentela e il dovere morale dell’assistenza. Ma da questo orecchio lo zio non ci sentiva: non lo aveva voluto in casa, non lo assisteva e solo di tanto in tanto faceva vaghe promesse di benefici, che, a sentire lui, si sarebbero concretizzate al momento opportuno. Lo zio lo detestava anche perché lo considerava un fannullone capace soltanto di piangere miseria.
Solo una volta, qualche anno prima, tra i due c’era stato un colloquio, quando si erano per caso incontrati per strada e lo zio lo aveva fermato bruscamente.
-Ehi tu, ci sarebbe da raccogliere le ulive in campagna, ti interessa guadagnare qualche soldo?
-E quanto mi dai?, zio
-Quanto do a tutti gli altri, cinquanta lire al giorno.
-Bah, ci penso, zio. Sai, io non sono abituato a stare curvo e soffro pure di schiena. Ci debbo pensare.
-Ah, ho capito.
-Comunque grazie, zio. Ti faccio sapere.
Mario in effetti non faceva molto per guadagnarsi la fiducia e la simpatia dello zio, non tanto perché non volesse, ma proprio perché non ne era capace: la natura non lo aveva certo favorito quanto ad intelligenza ed egli si era assuefatto alle circostanze con passiva rassegnazione.
Viveva da solo, faceva tutto da solo, non aveva vere amicizie e dormiva da solo nel lettone dei suoi genitori. L’unico lusso che si permetteva era quello di arrivare al bar Centrale, ma non per bere una birra, cosa che oltre tutto non si poteva permettere per la cronica mancanza di soldi, ma solo per mettersi ad osservare da dietro le spalle quelli che giocavano a Briscola o a Tressette.
Lo faceva d’estate e d’inverno, con il caldo e con il freddo, con la pioggia e con il bel tempo, quasi ogni giorno dell’anno alle tre del pomeriggio. Era puntuale come una cambiale e c’era chi, scherzando, diceva che con il suo arrivo al bar si potevano addirittura regolare gli orologi. Si piazzava in piedi, alle spalle di un giocatore, senza dire una parola, senza fare un commento, impassibile come una statua, e con il suo inerte atteggiamento alimentava seri dubbi sulla sua capacità di capire, o almeno di seguire, le fasi e l’andamento del gioco. Dopo un paio d’ore, così come era venuto, silenziosamente e con un discreto cenno di saluto se ne andava, per riapparire puntuale il giorno successivo. Nessuno si infastidiva per la sua presenza e molti non ci facevano nemmeno caso, considerandolo alla stregua di un pezzo d’arredamento del locale o di una parte del paesaggio.
Mario ritornava a casa quasi rasentando i muri e scambiando rare parole con chi incontrava, poi preparava la cena, rassettava, puliva quel che c’era da pulire e alle otto di sera, in qualunque stagione, era già a letto.
Spesso al mattino era possibile vederlo seduto davanti alla porta della sua casa, ad osservare quelli che passavano ed a scambiare rare parole di saluto con i contadini che andavano e venivano dalla campagna. Chi lo osservava spesso nutriva un sentimento di commiserazione per la sua solitudine, per la sua povertà, ma senza esagerare in tal senso, perché al paese tutti sapevano che c’era sempre zio Paolo, lo zio ricco, che prima o poi doveva pur passare all’altro mondo e rendere meno precaria la vita del nipote.
Una volta Mario si fece coraggio ed entrò a Crotone nel casino di Giuseppina Balestrieri, Mamma Pina, come tutti la chiamavano. La ragazza che lo accolse notò la sua goffaggine e gli chiese se era la prima volta. Tutto sommato Mario trovò la cosa di suo estremo gradimento. L’unica cosa che gli dispiaceva erano le quaranta lire che aveva dovuto pagare per la marchetta e che per lui rappresentavano un’enormità, oltre a fargli capire che per lui il casino era un lusso che difficilmente si sarebbe potuto permettere un’altra volta.
Poi Mario, nell’attesa che lo zio si decidesse a compiere il grande passo, concepì l’idea di trovarsi una moglie. Capì inoltre che, per trovarsi una moglie, doveva prima trovarsi una fidanzata e che, per trovarsi una fidanzata, doveva prima trovare una donna che accettasse l’idea di vivere con lui. Rifletté a lungo sul problema, scartò varie ipotesi e concluse che l’unica che poteva fare al caso suo era Franceschina.
Franceschina era una bella donna, un po’ più grande di lui quanto ad età ed abbastanza disinibita per quei tempi, tanto che spesso andava in giro da sola non facendosi scrupolo di ostentare vistosamente le sue grazie e di attaccare discorso anche con gli uomini, con grave scandalo dei benpensanti.
Mario, dopo aver riflettuto a lungo, decise di affrontarla.
Un giorno, mentre era seduto davanti alla porta di casa, la vide arrivare. Nell’attesa capì che quello era il momento decisivo; “adesso o mai più”, si disse. Cercò di trovare due parole acconce, provò a ripeterle mentalmente, ma, quando  finalmente si sentì calmo e rilassato, si accorse che Franceschina era già irrimediabilmente passata, senza far caso a lui. Si sentì perduto, ma, ritornato in sé, decise di non darsi per vinto: affrettò il passo e si mise quasi ad inseguirla. Quando fu a qualche metro da lei,
-Franceschinaaa, gridò.
Franceschina trasalì, si girò di scatto e gridò-Che è successo?
-Franceschina, mi vuoi sposare?
-Come? ti voglio sposare?!
-Sì, Franceschina, mi vuoi sposare?
-E così me lo chiedi?
-E come te lo debbo chiedere?
-E come campiamo? Con la misera pensione che ti passa lo stato?
-Ma un giorno sarò ricco, lo sai. Lo sanno tutti.
-Ecco, hai detto bene. Un giorno sarai ricco. Ma allora aspettiamo che diventi ricco e poi ne parliamo.
Da quel giorno Mario si considerò il fidanzato ufficiale di Franceschina. Per il matrimonio c’era solo un piccolo problema da superare: era necessario che zio Paolo si decidesse a tirare le cuoia, cosa che sarebbe accaduta quanto prima, dal momento che lo zio aveva superato i sessanta e quindi non gli restava molto da vivere.
Il giovane apparve ringalluzzito dal suo nuovo status e volle anche darsi un tono. Incominciò a dire qualche parola in più con gli estranei, prese a curare di più la sua persona ed un giorno arrivò perfino a presentarsi dal barbiere, cosa che aveva sempre evitato in precedenza, perché i capelli era abituato ad accorciarseli da solo e la barba l’aveva fatta sempre con un vecchio rasoio che egli si limitava ad affilare di tanto in tanto.
Una domenica, addirittura, Mario fu visto con un vestito nuovo. Gli andava un po’ largo, ma faceva comunque il suo effetto. Era un vestito, che il padre aveva lasciato in un armadio al momento di partire in guerra e che egli aveva sempre considerato una sorta di sacra reliquia. Mario andò a ripescarlo, lo lavò, lo stirò, lo indossò e percorse in lungo ed in largo il corso principale del paese. La sera andò a dormire contento, perché sentiva che tutto filava liscio e che presto si sarebbe sposato, a parte quel piccolo particolare che lo angustiava e che prima o poi, più prima che poi, doveva avverarsi riguardo allo zio.
E quel piccolo particolare si avverò, una mattina di Luglio del 1960, quando lo zio aveva ormai settantaquattro anni ed il nipote trentadue. Quella mattina faceva molto caldo ed un uomo si aggirava nel mercato di Crotone tra i banchi di frutta e verdura: aveva in mano una borsa vuota e avvertiva uno strano affanno. Ad un certo punto si sentì mancare il respiro e stramazzò a terra. Qualcuno si premurò di chiamare il Pronto Soccorso, ma il personale dell’ambulanza constatò subito che lo sconosciuto era già morto. Era stato un infarto.
Nelle tasche del morto fu trovato il suo portafoglio con qualche soldo, i suoi documenti ed un biglietto di andata e ritorno Scandale-Crotone e Crotone-Scandale. Quel biglietto di ritorno Crotone-Scandale era stato probabilmente l’unico, seppur involontario, spreco di denaro della sua vita.
Mario ricevette la notizia da un messo comunale verso mezzogiorno, mentre stava preparando il pranzo. Non sapeva se essere contento o dispiaciuto della notizia, ma si accorse che in fondo aveva voluto bene a quel suo zio arcigno e si comportò secondo quanto le circostanze richiedevano.
Si recò subito alla casa del morto, dove una vecchia domestica aveva provveduto ad aprire il portone e dove, dopo un paio d’ore, un carro funebre venne a depositare la bara. I vicini vennero in visita, fu approntata la veglia funebre e il nipote si comportò da perfetto padrone di casa e da nipote addolorato.
Il giorno dopo in chiesa, durante il funerale, Mario sedette in prima fila, poi ricevette le condoglianze di quasi tutto il paese e solo sul tardi poté ritornare alla casa del morto, dove qualcuno ancora si attardava a salutare e a dare le condoglianze.
Quando, finalmente, si ritrovò solo, si guardò in uno specchio e sorrise: si sentiva ricco e padrone.
-E’ fatta, pensò.
Si preparò a fare un giro per la casa per vedere quello che c’era. Poi si pentì.
-Ma no, verrò domani con calma, anche perché c’è molto da vedere.
Spasimava dalla voglia e dalla curiosità di girare per quella casa a lui quasi sconosciuta e nella quale era entrato solo una volta molti anni prima e quasi in punta di piedi. Ma riuscì a calmare le sue voglie e, seppure stanco, si sentì finalmente tranquillo. Ritornò a casa sua, mangiò qualcosa svogliatamente, andò presto a dormire, ma quasi non chiuse occhio durante la notte.
Il giorno successivo, mentre stava per uscire di casa, il portalettere gli consegnò un telegramma. Pensò che fosse un telegramma di condoglianze, ma veniva da Crotone e la cosa gli sembrò piuttosto strana. Mario lo aprì con una certa apprensione e lo lesse con difficoltà, anche perché non era abituato a ricevere telegrammi e soprattutto non era abituato a leggere, da quando tanti anni prima aveva preso la licenza elementare con la maestra Belvedere. Il signor Mario Fusaro è convocato presso lo studio dello scrivente, per domani Giovedì 28 Luglio 1960, alle ore 15, per comunicazioni che lo riguardano. Firmato Tommaso Capocasale Notaio in Crotone.
Non avrebbe mai immaginato che zio Paolo potesse fare un testamento e, addirittura, potesse depositarlo presso un notaio. Ma, se c’era, tanto valeva affrontarlo serenamente, perché lui era l’unico parente del morto e non potevano esserci pericoli. Che se poi lo zio avesse deciso di lasciare qualcosina, per scrupolo di coscienza, a un estraneo, e beh, pazienza! Questo avrebbe cambiato poco o niente.
Il giorno dopo chiamò un taxi, ormai se lo poteva permettere, e si fece portare a Crotone. Quando fu introdotto nello studio del notaio, si accorse della presenza di un signore che dimostrava più o meno la sua stessa età. Pensò fosse un dipendente dello studio, ma restò perplesso quando ad essere convocati dal notaio furono in due, lui e lo sconosciuto.
Il notaio li fece sedere, lui su un divanetto, lo sconosciuto su una poltrona di fronte, e così parlò:
-Siete stati convocati in questo studio perché il signor Paolo Crimi, deceduto in data 25 luglio 1960, ha depositato presso me notaio un testamento olografo, con richiesta di immediata lettura: cosa che mi appresto a fare.
Il notaio estrasse da una busta un foglio scritto a mano e lesse:
Il sottoscritto Paolo Crimi, nato a Scandale (Catanzaro) il 21 aprile 1883, nella mia piena capacità di capere e di volere, decido questo. lascio tutti i miei averi e i miei soldi a mio figlio Giacomo Crimi, figlio naturale che ho riconosciuto come figlio legittimo, con provvedimento del giudice del 1955. Lascio a mio nipote Mario un asino. Scandale 20 marzo1957.
Mario ritornò a casa arrabbiato, deluso e sconcertato. E poi quale asino? Non c’era nessun asino, o meglio un asino c’era, ma lo zio lo aveva venduto due anni prima di morire. Dal momento che questa era la volontà del morto, egli pretese un asino dall’unico erede, il quale non ebbe difficoltà ad accontentarlo, comprandone uno.
Dopo qualche giorno Mario fece sfilare l’asino per le vie del paese, forse per far vedere ai paesani che comunque qualcosa in eredità aveva avuto. L’insolito spettacolo aveva attirato l’attenzione di molti e soprattutto di un nugolo di monelli che, gridando e sbeffeggiando, si erano aggiunti al corteo. Tutti si voltavano ad osservare, le donne si affacciavano alle finestre e ai balconi, uno strano e frenetico tripudio sembrava aver coinvolto l’intero paese.
Alla testa del corteo Mario spingeva l’asino, gli gridava dietro e lo bastonava senza pietà con un randello, chiamandolo zu Paulu (zio Paolo).
Quando il corteo festante arrivò nella piazza principale, Mario fece segno che voleva un po’ di silenzio e fu subito accontentato. L’attesa era vivissima, perché era la prima volta che egli aveva qualcosa da dire e tutti erano curiosi di ascoltare.
Mario si schiarì la voce con un colpetto di tosse, una, due, tre volte, poi disse:
-Scandalesi, tutti avete visto quello che mio zio mi ha lasciato. Mi ha lasciato un asino. Ma quest’asino non è mio, è di tutto il paese. Chiunque lo vuole, da domani potrà usarlo. Ad una condizione. Che, quando gli dovete dare una bastonata, lo dovete chiamare zu Paulu.
Gli astanti applaudirono, gridando, sghignazzando, torcendosi dalle risate. Poi Mario fu issato sulle spalle dei presenti e portato in trionfo per la piazza dalla folla in delirio.
Mario si sentiva sballottato e trascinato e, mentre passava da una spalla all’altra, osservando la folla tumultuante sotto di lui, forse per la prima volta in vita sua ebbe un barlume di lucidità, intuì confusamente qualcosa sul senso della vita e pensò:
-Bisogna guardarli bene e ricordarli uno per uno. Sono gli stessi che solo quindici giorni fa mi hanno dato le condoglianze per la morte dello zio.
Ezio Scaramuzzino


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