Ero poco più che sedicenne e un giorno, di
ritorno col pullman da Crotone dove frequentavo il Liceo, vidi in un angolo
della cucina di casa mia un signore anziano, piccolo di statura e piuttosto
magro ed affusolato, che non avevo mai visto in precedenza.
Era solo, in silenzio, seduto di fianco ad
un tavolo e con davanti un bicchiere ed una bottiglia di vino, in buona parte già
svuotata. Se ne stava con gli occhi semichiusi, come se avesse bisogno di
dormire, e di tanto in tanto oscillava il busto e la testa, quasi non fosse
capace di stare dritto, nemmeno seduto.
Gli diedi uno sguardo superficiale, anche
perché l’immagine che me ne venne mi fu istintivamente sgradita, e proseguii
verso il soggiorno, dove Franca, la giovane donna che aiutava mia madre nelle
faccende domestiche, aveva già apparecchiato il pranzo per me, che ero l’ultimo
della giornata ad essere servito dal momento che arrivavo troppo tardi.
Pranzai in perfetto silenzio e, prima di
uscire da casa, non potei fare a meno di chiedere chi fosse quello sconosciuto.
Lo chiesi a Franca, prima di chiederlo agli altri:
-Chi
è quello lì?
-Zinni’
(così mi chiamava Franca), è arrivato stamattina e ne so ancora poco. Ha detto
che si chiama Antonio, viene da Cerenzia, è un ex monaco francescano ed è stato
scelto da tuo padre come guardiano della campagna.
-E
proprio quello lì doveva trovare? A me sembra solo un ubriacone e mi sa tanto
che deve essere guardato lui.
-Non
ti so dire. Stasera ne sapremo di più.
Quando ritornai dopo un paio d’ore, lo
sconosciuto era ancora lì, ma era chiaramente addormentato, ed io continuai a
chiedermi come avesse fatto mio padre a trovare quel poco di buono.
Erano tempi difficili allora. Le campagne
erano spesso abbandonate a se stesse, i sistemi di sorveglianza erano
rudimentali ed inefficaci e più che altro ci si affidava alla compassione dei
ladri e dei delinquenti, dai quali si sperava che, quando decidevano di
arraffare, avessero il buon cuore di lasciare qualcosa anche per noi.
Ricordo, come fosse ancora oggi, mio
fratello che, di ritorno dalla campagna, non appena arrivato a casa, ci dava le
ultime notizie.
-Stanotte
hanno rubato buona parte dell’uva da vendemmiare;
-Stanotte
hanno rubato quasi la metà delle olive della prossima campagna olearia.
Ricordo
però che la peggiore notizia era quella che riguardava gli animali.
-Hanno
svuotato i pollai;
-Hanno
rubato i due maiali.
Capivo
perciò mio padre che si era deciso a procurarsi un guardiano, anche se nutrivo
dubbi sulla validità della scelta. Quando a sera gli chiesi qualcosa, mi
rispose tranquillamente.
-Guarda che quello lì non ci costa quasi
niente. Dorme nella casetta di campagna, non pretende un salario e vuole solo
qualche bottiglia di vino, di cui pare non possa fare a meno. Lo so, è un
rischio, ma è meglio che niente, perché intanto i ladri sanno che lì qualcuno
c’è. Vediamo come va. Per il resto, più che continuare a rubarci non possono
fare.
Continuai a restare perplesso, ma qualche
mia perplessità incominciò a diradarsi già la sera stessa, quando potei
parlargli per la prima volta. Si presentò e disse:
-Sono Frate Antonio dell’ordine dei Frati
Minori Francescani e sono stato monaco nel convento di Pietrafitta. Ne sono
uscito due anni fa a causa di un Superiore invidioso che mi ha accusato di
varie nefandezze e scelleratezze.
-Quindi non sei più frate, sei un ex-frate.
-Ah, no. Lei deve sapere che Semel frater, semper frater (Frate una volta, frate per sempre).
Mi accorsi che parlava con una certa
ricercatezza e si esprimeva in un Italiano abbastanza corretto. Poi mi dava del
lei, cosa molto insolita dalle nostre parti, e infine conosceva il Latino, o
almeno ne conosceva qualche frase, dal che dedussi che non doveva essere stato
un monaco questuante, come da noi venivano definiti con una punta di dileggio i
francescani di infimo ordine, ma che doveva aver fatto qualche studio.
Confesso che, a parte la storia del vino di
cui non riusciva a fare a meno, l’impressione non fu del tutto sgradevole e
suscitò in me una certa curiosità. Lo salutai sforzandomi di essere cordiale e
mi riservai di conoscerlo meglio.
Circa un mese dopo andai in campagna per qualche
motivo e mi accorsi che quei luoghi, che mi erano tanto cari e familiari,
avevano subito una certa trasformazione e risentivano della presenza di Antonio.
Sul tronco di molti alberi aveva attaccato con dei chiodini delle immaginette
sacre; là dove i sentieri si incrociavano, aveva posto delle indicazioni con
nomi chiaramente religiosi, come Sentiero
dell’Immacolata o Sentiero di San
Francesco; su un gigantesco cartello vicino alla casetta aveva scritto Ora et labora; anche sulle palette dei fichi
d’india si potevano leggere frasi edificanti e su una lessi Ave Maria.
Nel pomeriggio volle per forza farmi da
guida e mi condusse ad esplorare in giro tutte le sue innovazioni, che io finsi
di apprezzare e di lodare, anche se in realtà mi sembravano solo povere
elucubrazioni di una mente esaltata, se non proprio folle.
Poi mi condusse nella casetta, dove volle
farmi vedere degli intrugli che a suo dire erano miracolosi. Aprì un vasetto e
ne tirò fuori un mucchietto di ossa, che a me sembrarono comuni ossa di gallina
o al più di tacchino per la loro grossezza.
-Vede queste ossa?, mi disse. Sono ossa di
pipistrello e le ho rigorosamente raccolte nelle notti di plenilunio. Non le dico come ho fatto a raccoglierle e
dico soltanto che basta pestarne uno in un mortaio, poi si diluisce la polvere
ottenuta con del latte d’asina e la bevanda è miracolosa per le donne che non
possono avere figli.
-Vede questa polverina?, disse aprendo un
altro vasetto. Questa polverina l’ho ottenuta triturando un cervello di cagna,
ma solo dopo che ha partorito. Questa è utile per gli uomini che hanno certi
problemi, quelli di una certa età soprattutto. Ma lei forse non può capire,
perché è troppo giovane ancora e questi problemi certamente non ce li ha.
E poi mi mostrò altri intrugli, ossa e
polverine, legati soprattutto alla soluzione di problemi della sfera
sessuale-riproduttiva. Fingevo di essere interessato, chiedevo spiegazioni e
lui sembrava un torrente in piena, incapace di fermarsi.
Alla fine rimasi quasi frastornato da tutte
quelle parole e non nascondo che fui perfino sfiorato dal dubbio se i suoi
fossero solo intrugli per i gonzi o se ci fosse qualche barlume di verità in
quella che egli presentava come la sua personale clinica ostetrica-ginecologica
in formato ridotto.
Dopo quel giorno non vidi più Antonio per
parecchio tempo e a poco a poco finii col dimenticarlo.
Un giorno, mentre oziavo sulla veranda del Bar Centrale ed ero intento ad osservare svogliatamente l’andirivieni delle
persone nell’antistante Piazza Oberdan, vidi arrivare Peppe Nuccà.
Di lui ho già raccontato ampiamente in altre
storie. Dico solo che Peppe, alquanto più grande d’età, era stato il confidente
della mia fanciullezza, era stato colui che una volta furtivamente mi aveva
introdotto in una casa d’appuntamenti e per molti aspetti mi aveva iniziato a
quelli che per me erano ancora i misteri del sesso.
Ci salutammo affettuosamente, ci
abbracciammo, volle per forza offrirmi un caffè e ci sedemmo ad un tavolino. Mi
sembrò un po’ giù di tono, almeno rispetto a come lo ricordavo io, sempre
allegro, sempre pieno di vita e felice di vivere. Non ci vedevamo da un paio
d’anni.
-Dove sei stato negli ultimi tempi? E poi,
che hai? Ti vedo un po’ abbacchiato, gli chiesi.
-Andiamo con ordine. Sono stato fuori, a
Milano, a guadagnarmi qualche soldo. E difatti ho guadagnato bene, lavorando
con l’Alemagna a produrre dolci e panettoni. Ma negli ultimi tempi mi è
successo un guaio. Tu sai che, se c’è una cosa alla quale non riesco a
rinunziare, sono le prostitute, ma, a furia di frequentarle, mi sono buscato
una bella malattia, che mi sta causando vari problemi. Tranquillo! Non è quella
che, come si chiama?, sembra il sibilo di un serpente, ma quell’altra, la lue,
più semplice e meno grave, ma che con me non si sta rivelando tanto semplice.
-E tu, con tutti i medici che ci stanno a
Milano, sei venuto a guarire qui da noi?
-E’ che a Milano ho già fatto tutto quello
che era possibile fare. Sono stato dai migliori specialisti. Alla fine ho fatto
instillazioni intrauretrali di Protargolo, che è considerato il miglior
preparato per questa malattia. Ma con me non è servito a niente. A me è costato
solo tante sofferenze ad ogni instillazione ed una montagna di soldi, perché a
Milano gli specialisti costano, altro che. Sono disperato e sono disposto a
tutto, pur di guarire.
-Mi dispiace per te. E ora che hai
intenzione di fare?
-Non lo so nemmeno io. Hai qualche consiglio
da darmi?
-Ma quale consiglio vuoi che ti dia? Io non
ho mai avuto di questi problemi. Oddio, non so se può considerarsi un consiglio,
ma una cosa da dirti ce l’avrei, poi decidi tu quello che vuoi fare. Io conosco
una specie di guaritore, che ha tutta una serie di rimedi pratici per questo
genere di problemi. Ovviamente non ti garantisco nulla e non so nemmeno se ha
un rimedio per questo problema specifico. Ma tentar non nuoce. I medici e i
grandi luminari li hai provati tutti, ti restano solo i guaritori e i
ciarlatani. Di soldi ne spendi pochi e nella peggiore delle ipotesi resti come
prima.
-Va bene. Fammelo conoscere subito. Ti ripeto
che sono disposto a tutto, pur di guarire.
E fu così che gli organizzai un incontro con
Fratello Antonio, ex monaco francescano, guardiano dei campi e presunto
guaritore di problemi sessuali. Partimmo insieme una mattina di fine Agosto, a piedi, attraversando strade interpoderali e
qualche mulattiera e in meno di un’ora giungemmo a destinazione.
Lo intravidi da lontano e prendemmo ad
osservarlo, senza chiamarlo e senza essere visti. Antonio ci era apparso dietro
un albero e procedeva nei campi, saltellando come se danzasse, ed aveva a
fianco un corvo che, saltellando per terra, sembrava voler tenere il passo. Mi ricordava
San Francesco che predica agli uccelli
in un dipinto di Giotto e di uccelli ce n’erano veramente tanti in quella
splendida mattinata, tra passeri cinguettanti e gazze che in coppia volavano
tra gli alberi, mentre un astore in alto sembrava scrutare la terra in cerca di
prede. Un leggero vento moveva appena le cime degli alberi e, a guardare per terra, si poteva spesso avvertire il fruscio delle lucertole che si ponevano in
salvo dietro i cespugli o nascondendosi tra l’erba folta.
Ma Peppe aveva ben altre preoccupazioni che
non quella di ammirare le bellezze della campagna quella mattina e, insistendo,
mi pregò di chiamarlo. Quando arrivò, glielo presentai e tutti e tre, insieme,
ci dirigemmo verso la casetta e sedemmo su una panca all’ombra di un vasto
fico.
Antonio andò a prendere una bottiglia di
vino e tre bicchieri, ma finì col bere solo lui, dal momento che io e Peppe
declinammo gentilmente l’invito. Poi volle conoscere l’intera vicenda e, quando
credette di avere un quadro chiaro e completo della situazione, concluse:
-Si può fare, anche se ci sono alcuni
problemi. Prima di tutto non è detto che si guarisca al primo colpo, nel qual
caso bisogna ripetere la cura un mese dopo. Poi c’è da dire che la cura stessa
è una delle più complicate, ma, tutto sommato, non è difficile portarla a
compimento. Ascoltatemi bene.
Voi dovete essere qui di mattina, facciamo
le nove, e lei, Peppe, deve aver bevuto non più di un caffè. Appena arrivato,
deve bere una pozione che io le do e poi, completamente nudo, deve restare
immerso fino al collo per circa un’ora in un calderone di acqua calda che noi
avremo preparato nel frattempo e in cui avremo prima sciolto non meno di 5
kilogrammi di ortica e di malva. Intanto stabiliamo il giorno, facciamo il
prossimo 20 Settembre. Dunque, per quel giorno voi dovrete portare un
calderone, di cui io sono sprovvisto, legna abbondante per il fuoco, un grande
treppiede e una scala con cui salire e scendere dal calderone. Procurate pure
le erbe, anche se io non mancherò di trovarne e di fare la mia parte. Il pagamento
è anticipato e sono cinquecento Lire.
Quando Peppe sentì che doveva stare per
un’ora nel calderone, lo vidi impallidire un pochino.
-Ma se poi l’acqua dovesse essere troppo
calda o troppo fredda, io come faccio a dirvelo?, disse.
-Nessuna preoccupazione, rispose Antonio. Io
ti do un martelletto. Se l’acqua è calda, tu dai un colpetto e noi sottraiamo
calore togliendo legna. Se invece l’acqua è fredda, tu dai due colpetti e noi
aggiungiamo legna. Ricorda: acqua calda, un colpetto; acqua fredda, due
colpetti.
Alla fine Peppe si lasciò convincere.
Nei giorni seguenti trovammo tutto
l’occorrente, lo trasportammo in loco a dorso di mulo e per il grande giorno
tutto fu pronto, compresa l’impalcatura col treppiede che doveva reggere il
calderone.
Alle nove in punto eravamo in campagna da
Frate Antonio. Peppe bevve la pozione, poi si spogliò completamente e, salito
sulla scala, si calò nel calderone con l’acqua già intiepidita. Dopo un po’
sentimmo due colpetti: l’acqua era fredda e ci demmo da fare per aggiungere
legna. Dopo circa dieci minuti un colpetto: l’acqua era troppo calda e ci
affrettammo a sottrarre legna. Poi non sentimmo più nulla. Era passata circa
mezz’ora dall’ultimo colpetto e tutt’intorno si sentiva solo il canto degli
uccelli.
Forse Peppe era svenuto, o forse era morto
perché, semplicemente, era rimasto bollito. Salii sulla scala per accertarmi e
vidi che Peppe annaspava nell’acqua con un filo di voce, ma era vivo, vivo
grazie a Dio. Di corsa scesi a togliere tutta la legna sotto il calderone,
mentre Antonio mi gridava di non preoccuparmi più di tanto perché aveva visto
casi peggiori. Poi risalii sulla scala e aiutai Peppe a scendere.
Ci fece impressione e restammo entrambi
allibiti. Mai in precedenza, nel corso della mia vita, avevo visto un essere
umano ridotto in quelle condizioni. Peppe, che già di per sé era piuttosto
magro, sembrava un pollo lesso e ora che il calore dell’acqua aveva sciolto
quel po’ di grasso che aveva in corpo, sembrava che la carne, ripiegata in
sacche flaccide e cascanti, stesse per abbandonarlo e stesse per staccarsi
dalle sue ossa.
Lo ricoprimmo con un lenzuolo, piano piano
lo portammo in casa e lo adagiammo su un letto, dove, con qualche difficoltà,
riuscimmo a rivestirlo. La sera, sul tardi, ritornammo lentamente a casa.
Dopo qualche giorno lo rividi di nuovo al
Bar Centrale.
-Ma poi la cura del pentolone ha avuto
effetto?, fu la prima cosa che gli chiesi.
Non rispose subito, ma, mentre prendevamo
insieme una birra, fece un sorrisetto e disse:
-Certo che ha avuto effetto. Sono
completamente guarito, guarito per sempre.
Sorrisi pure io nel sentirgli dire quelle
parole, ma ora, a distanza di tanti anni, quando ripenso a quel fatto e a
quelle sue parole finali, non sono poi tanto sicuro che le cose stessero effettivamente
come lui voleva far intendere. Forse era guarito veramente, ma non è da
escludere che la sua presunta guarigione fosse solo una conseguenza della sua
paura: la paura di dover ripetere l’esperimento e finire veramente lesso come
un pollo ruspante. Una cosa è certa: dopo d’allora egli non mi parlò più del
suo malanno, né mai ne parlò ad altri, né mai, a quel che ne so, si rivolse a
qualche medico. E da questo deduco che non è nemmeno da escludere che sia
guarito veramente e che nel fondo del suo animo abbia sempre conservato un po’
di gratitudine a me, che lo avevo aiutato nell’impresa, e soprattutto a Fratello
Antonio che di quella impresa era stato l’artefice e un indimenticabile
protagonista.
Quanto a Fratello Antonio aggiungo solo che
rimase a fare il guardiano nella nostra campagna per un paio d’anni ancora, poi, come
improvvisamente era apparso, altrettanto improvvisamente un giorno scomparve.
Dopo qualche mese che non lo vedevo, un giorno ne chiesi a mio padre.
-Come va con Antonio? E’ tanto che non lo
vedo e non ne so niente.
-Non ne so niente neppure io. Qualche giorno
fa siamo arrivati e non c’era. Lo abbiamo cercato e non c’era. E’ sparito ed ha
fatto perdere le sue tracce, senza un avviso, senza lasciare un rigo. Così, semplicemente.
Mi dispiace però. Aveva dei difetti, ma in fondo era una brava persona. E
almeno per un paio d’anni siamo stati tranquilli.
Ezio Scaramuzzino
Buona sera vorrei il suo numero di telefono per favore grazie
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