Uno dei piaceri più frequenti di coloro che
abitano di fronte al mare, e quindi hanno un panorama cosiddetto lungo, è quello
di munirsi di un cannocchiale, o di un binocolo, e con questo osservare la
distesa che si perde fino all’orizzonte. Se si è “fortunati”, si ha la possibilità di
osservare “da vicino” spettacoli che diversamente sfuggono all’occhio nudo.
Io possiedo un binocolo Zeiss, con sopra
stampigliata una Stella Rossa con Falce e Martello, che comprai circa trenta
anni fa quando le prime bancarelle dei Polacchi traboccavano di materiale che i
venditori garantivano come proveniente dai magazzini dell’ Armata Rossa, dopo
la dissoluzione dell’Unione Sovietica e del suo impero. Con questo binocolo mi
piace di tanto in tanto osservare il mare: scandaglio a destra la zona di Capo
Colonna con il suo faro, il Villaggio Casa Rossa sulla destra e poi lentamente
sposto l’osservazione sulla sinistra, fino agli ultimi palazzi ed al "Lanternino", il faro piccolo, posto all’imboccatura del porticciolo turistico di
Crotone.
Alcuni anni fa, poco più di dieci se ben
ricordo, in un caldo pomeriggio d’estate, mentre il mio binocolo si spostava
lentamente sul paesaggio, la mia attenzione fu colpita da una scena particolare:
in fondo a sinistra, sulla terrazza dell’ultimo palazzo visibile, una signora
stava stendendo dei panni. Mi soffermai ad osservarla mentre, con straordinaria
lentezza, svolgeva la sua operazione ed ebbi la sensazione di conoscere quella
signora. Misi a fuoco il binocolo per osservarne meglio il volto e la mia
convinzione si rafforzò: io la conoscevo; non ricordavo chi fosse e dove
l’avessi conosciuta, ma non avevo dubbi. Incominciai a frugare nella mia
memoria, ma ogni tentativo fu inutile, anche se ero convinto che in qualche
circostanza della mia vita ero venuto a contatto con quella donna.
La quale intanto, convinta di non essere
osservata da nessuno, dopo avere steso i panni, dietro un lungo lenzuolo messo
ad asciugare, incominciò a spogliarsi. Lo capii quando la vidi riapparire con
un vecchio costume da bagno a due pezzi, che faceva evidente contrasto con il
suo corpo affusolato, ma non più giovane: alzò le mani, poi stiracchiò le
braccia, si guardò addosso, osservò in lontananza con lo sguardo apparentemente
perso nel vuoto, infine si diresse verso una sdraio, sulla quale si allungò con
l’intento evidente di prendere il sole e di abbronzarsi.
La mia curiosità era grande, come pure la
mia voglia di focalizzare quel volto. Il giorno successivo, più o meno alla
stessa ora, mi ritrovavo già con il binocolo puntato in quella direzione. Ma
rimasi deluso: la corda dei panni era desolatamente vuota, la sdraio del giorno
prima era raccolta ed appoggiata ad una parete e sul terrazzo non comparve
nessuno. Lo stesso il giorno successivo e poi per alcuni giorni, anche in ore diverse: quella signora sembrava
svanita nel nulla, tanto che incominciai a chiedermi se per caso il mio non
fosse stato soltanto un sogno o, forse, un’allucinazione favorita dal caldo
opprimente dell’estate. Dopo circa una settimana, invece, fui più fortunato: si
era verso mezzogiorno, io avevo appena puntato il binocolo, quando vidi aprire
la porta di un abbaino e la signora apparve con una piccola cesta di panni da
stendere. Si ripeté la scena della settimana prima: finito di stendere i panni,
la signora si mise sulla sdraio per prendere il sole.
Ed intanto io mi arrovellavo per cercare di
ricordare chi fosse. Mi capitava di pensarci spesso, in tutte le ore del giorno,
ma niente: non riuscivo proprio a venirne a capo. Alla fine presi una
decisione: stabilita l’esatta posizione del palazzo, una mattina mi avvicinai
al portone d’ingresso e, senza che nessuno mi notasse, controllai l’elenco dei
nomi sul citofono. C’era una sola scala e al quinto piano, l’ultimo, confinante
col terrazzo, era indicato il cognome “Maggiolini”, senza l’aggiunta di altri
cognomi, dal che si deduceva che la signora viveva sola. Ancora niente: quel
cognome non mi suggeriva nulla. Il portone era socchiuso. Entrai con una certa
circospezione e diedi una controllata alle cassette postali. Anche lì, su una
di esse ed in corrispondenza del quinto piano, era indicato il cognome
“Maggiolini”, ma questa volta con l’aggiunta di una “S.”. S. Maggiolini: chi
era costei? S. Maggiolini…Fu un lampo: le tenebre della memoria furono
squarciate e tutto mi fu chiaro.
Silvia Maggiolini era stata la mia
professoressa di Storia dell’Arte, in Terza Liceo, al Pitagora di Crotone. Veniva da Firenze ed aveva avuto il suo primo
incarico annuale. A Crotone aveva preso in fitto un piccolo appartamento, dove
viveva insieme con il padre, un colonnello dell’esercito in pensione, che, dopo
essere rimasto vedovo con quell’unica figlia, la seguiva dappertutto.
Ora bisogna sapere che allora, erano gli
anni sessanta del secolo scorso, al Pitagora
la Storia dell’Arte era considerata poco più che una materia facoltativa, come
Religione o Educazione Fisica. Queste materie erano incluse regolarmente in
orario, alla prima o all’ultima ora, ma semplicemente non si facevano.
Quando la Maggiolini arrivò al Pitagora, ignara delle consuetudini, si
dimostrò piena di tanta buona volontà, ma, quando vide che gli alunni le
impedivano letteralmente di fare lezione, non protestò, non ne parlò col
Preside, decise di adeguarsi e rinunziò ad insegnare la sua materia.
D’altra parte lei era e si sentiva molto
giovane ed era arrivata a Crotone, non con il fuoco sacro dell’insegnamento, ma
con altre velleità e ben altre ambizioni. Era anche avvenente, aveva un
portamento naturalmente elegante e tutto questo la rendeva interessante. Lei
sapeva di essere osservata, se ne compiaceva ed aveva già deciso di prendersi
dalla vita quei piaceri, piccoli o grandi che fossero, che la sua giovinezza e
la sua bellezza non avrebbero mancato di farle intravedere. Unico ostacolo a
queste sue intenzioni era il padre, uomo all’antica, ancora legato ad un mondo
in via d’estinzione, che non mancava di sorvegliarla con un’assiduità ed un
rigore, che a lei apparivano soffocanti e ai quali d’altra parte si sentiva incapace
di ribellarsi apertamente.
A Crotone non era infrequente vedere la
professoressa accompagnarsi talvolta ad alunni, che sembravano avere la sua
stessa età, oppure aggirarsi disinvolta e felice a feste, ricorrenze e dovunque
ci fosse da divertirsi.
Io, la prima volta che la vidi arrivare in
classe, non potei fare a meno di apprezzarla, come tutti, dal punto di vista
fisico. Non mi aspettavo di imparare da lei la Storia dell’Arte, perché
immaginavo già come sarebbe andata a finire, e mi apprestai a seguirla con un
misto di curiosità e di ammirazione.
Durante le sue due ore settimanali di tutto
si parlava, tranne che di Michelangelo o di Picasso. Si parlava di gite
scolastiche, di feste, di amicizie e lei non mancava di far notare che a
Crotone la vita di relazione languiva e che in definitiva quella non era la
vita che lei si sarebbe aspettata di poter vivere, quando aveva accettato quel
trasferimento. Io, dal fondo della mia timidezza, mi limitavo ad ascoltarla, ad
ammirarla segretamente, senza dimostrare alcun particolare trasporto.
Allora a Crotone nascevano le prime
discoteche, ove si poteva ballare il rock e soprattutto il twist, l’ultimo
ballo alla moda. A me non piaceva ballare, che anzi quell’agitarsi frenetico al
ritmo di una musica ossessiva e ripetitiva mi dava l’idea di qualcosa di
vagamente stupido e paranoico. Però ogni tanto andavo nelle discoteche, qualche volta in
compagnia di un amico, perché quello, a Crotone, negli anni sessanta del secolo
scorso, era forse l’unico modo di conoscere qualche ragazza e sperare che ne
venisse fuori qualcosa.
Una sera, in una discoteca, scorsi da
lontano la Maggiolini. Feci finta di non vederla, ma fu lei a notarmi ed a
venirmi incontro: era sola, o almeno così sembrava.
-Ah,
fece, che ci fai qui? Ogni tanto pure tu lasci i libri!
-Vero,
prof, anche io ogni tanto penso a divertirmi. Faccio quello che posso.
-Perché
non mi fai ballare? O ti chiedo troppo?
-Troppo?!
Anzi, sono lusingatissimo. Però io non sono molto bravo, ci tengo a dirlo.
-Non
importa. Ora mi serve che tu mi faccia ballare. Vedi quel tipo con i baffetti
ed i capelli tutti impomatati? Mi sta opprimendo da un’ora e debbo liberarmene.
Dai, datti da fare!
Quella sera ballai ininterrottamente con la
prof, che non accennava a mollarmi. Ogni tanto mi giravo a guardare intorno e
potevo notare il tipo con i baffetti, che lanciava occhiate di fuoco verso di
me e che non avrebbe esitato a strozzarmi, se solo mi avesse avuto tra le mani.
Alla fine ero stanco e felice e, da perfetto, precoce gentiluomo, non mancai di
accompagnare la prof a casa sua, salutandola cordialmente e rispettosamente
davanti alla soglia.
Quella serata era da me considerata un
capitolo aperto e chiuso, né avrei mai osato sperare che potesse ripetersi. Fu
la Maggiolini a riprendere quel discorso interrotto, quando un giorno,
all’uscita da scuola, mi sentii chiamare da dietro. Mi girai, era lei.
-Ezio!
-Dica,
prof!
-Perché
non vieni a trovarmi un giorno a casa?
-Non
oso farlo, prof, ma lei non immagina quanto mi farebbe piacere.
-E
adesso puoi farlo, sono io che te lo chiedo.
Ero emozionato per quella richiesta, non
tanto perché coltivassi delle illusioni, ma solo perché l’idea di poterle
essere vicino in ore che non fossero solo quelle scolastiche mi riempiva di
gioia e anche di un sottile sgomento. Concordammo per il pomeriggio di quello
stesso giorno. Lei continuò:
-Sai
che mio padre vive con me. Lui è molto rigoroso ed arcigno. Se per caso ti
chiede qualcosa, dirai che sei venuto per delle ripetizioni. Portati un libro e
l’occorrente per il disegno geometrico. Ciao.
-Buon
giorno, prof. Ad oggi pomeriggio.
Alle 16 in punto di quello stesso giorno
stavo bussando alla porta della famiglia Maggiolini. Fu lei stessa ad aprire e
ad accompagnarmi all’interno. Attraversammo una piccola sala dove, in un angolo,
seduto su una poltrona, un anziano signore stava leggendo il giornale. Era il
padre della prof, ovviamente, che io non avevo mai visto in precedenza, ma che
mi apparve proprio per come lo immaginavo. Sembrava una di quelle figure
rappresentate nei vecchi ovali che si usavano agli inizi del secolo. Era un
uomo anziano, precocemente invecchiato, con i capelli lisci e bianchissimi, il
volto sottile, gli occhiali a pince-nez. Mi vide e, senza tanti preamboli, puntandomi
con un bastone che teneva vicino, mi chiese:
-Chi
sei tu?
-Buon
giorno, colonnello. Sono un alunno di sua figlia, mi chiamo Ezio, Ezio
Scaramuzzino.
-Ah,
bene! E che sei venuto a fare?
-Avevo
bisogno di alcune ripetizioni e la professoressa sua figlia si è detta
disponibile.
-Ah,
bene. Buon giorno!
-Buon
giorno, colonnello.
La prof, con un po’ di trepidazione, mi
introdusse in uno studio, dove erano sistemate alcune sedie intorno ad un
tavolo. Ci sedemmo. La lezione, che io speravo la prima di una lunga serie e
che invece si sarebbe rivelata la prima ed ultima, incominciò a bassa voce.
-Mi
puoi chiamare Silvia, se vuoi. Almeno qui, fuori dalla scuola.
-Preferisco
chiamarla prof, se me lo concede. Non mi viene di chiamarla di nome.
-Vedo
che hai portato l’album. Come te la cavi col disegno?
-Male.
Non ho mai disegnato nulla e non saprei disegnare nemmeno un uovo.
-Non
è difficile. Basta esercitarsi e comunque ti insegno io.
Aprii l’album, afferrai una matita. Lei
prese la mia mano, dolcemente, la accarezzò. Il cuore mi batteva forte e credo
di essere arrossito, ma lei era tranquilla, parlava con voce suadente e
modulata. Io avvertivo il suo respiro sfiorarmi il volto, credevo di sentire il
battito tranquillo del suo cuore. Lei parlava, parlava, ma io non ascoltavo più
di tanto le sue parole e, se anche le ascoltavo, non capivo quel che diceva.
Avvertivo inoltre chiaramente, con un piacere talmente intenso da sembrare quasi
doloroso, il calore della sua gamba che, muovendosi lentamente, si avvicinava
ripetutamente alla mia. Lei mise la sua mano tra i miei capelli, li arruffò,
scompigliandoli. Poi la sua mano scese sul mio volto, lo accarezzò, lo girò
verso di sé ed appoggiò la sua guancia sulla mia, le sue labbra sulle mie.
Credo che quello che succede in genere
quando un marito trova la moglie in flagrante adulterio, non sia molto diverso
da quanto successe quel giorno, in quella stanza, quando improvvisamente la
porta si aprì e sulla soglia apparve il colonnello che si mise a gridare e
rovesciare tutto come un ossesso.
Io mi destai bruscamente e violentemente dal
sogno in cui mi stavo cullando e, istintivamente, pensai prima di tutto a mettermi
in salvo. Lasciai libro ed album e mi preparai alla difesa, mentre Silvia
correva a richiudersi in un’altra stanza, ben consapevole, probabilmente, di
quello che le sarebbe toccato. Il colonnello menava fendenti a destra e a manca
con il suo bastone e fortuna che era senza i suoi occhiali, perché tutti i suoi
colpi andavano a vuoto e per me fu molto facile evitarli, mentre ne pagarono le
conseguenze il tavolo con un vassoio sopra, che finì in pezzetti, ed alcune
sedie che finirono malconce.
Ad un certo punto il colonnello bloccò un’
uscita con una poltroncina e girò intorno al tavolo con l’intento evidente di
afferrarmi. Ma io scivolai sotto il tavolo e da lì riuscii a scappare,
spalancando la porta che era rimasta socchiusa e cercando di pormi in salvo. Il
colonnello, da perfetto stratega, capì che la battaglia con me era da considerarsi
persa, ma non si rassegnò e ricorse alla sua arma finale. Roteò il bastone e lo
lanciò contro di me. L’arma sibilò, mi sfiorò, mi mancò, ma finì tra i miei
piedi che stavano facendo di tutto, senza riuscirci, per evitarmi una brutta
fine. Incespicai, caddi disteso per terra e mi vidi il colonnello addosso. Mi divincolai,
feci per rialzarmi, ci riuscii, ma, contemporaneamente, avvertii la dolorosa
sensazione di un calcio assestato perfettamente nel didietro e di cui, ancora
oggi, a distanza di tanto tempo, conservo nitidamente il triste ricordo.
Non misi più piede in quella casa, non ebbi
il coraggio di affrontare con la prof il discorso del suo terribile padre e
d’altra parte anche lei si guardò bene dal parlarne. Alla fine dell’anno
scolastico ognuno prese la sua strada e, per quello che ne seppi in seguito, anche
la prof si trasferì verso altri lidi a lei più congeniali.
Tutti questi fatti erano avvenuti nel Marzo
del 1962. Ora, a distanza di oltre quaranta anni, mi ritrovavo a leggere su una
targhetta “S. Maggiolini” e tutto un mondo di ricordi, di illusioni, di sensazioni,
riaffiorava nella mia mente.
Avevo voglia di rivedere quella donna,
chiederle che cosa aveva fatto, come era vissuta, perché era ritornata a
Crotone. Nei giorni successivi studiai un piano che mi consentisse di rivederla
senza eccessive complicazioni. Le scrissi una lettera.
Alla esimia professoressa
Silvia Maggiolini. III traversa Interna Marina, 42 88900 Crotone
Sono un suo ex alunno di
Terza Liceo al Pitagora
di Crotone, Ezio
Scaramuzzino, e spero che
lei si ricordi di me. Ho saputo per caso che da qualche tempo lei vive a
Crotone. Mi farebbe tanto piacere rivederla. Se fa piacere pure a lei, può
chiamarmi al seguente numero 338….. Cordiali saluti.
Dopo qualche giorno la chiamata ci fu e concordammo
una visita per il pomeriggio. Quando mi apprestai a premere sul citofono, mi
accorsi che ero perfettamente tranquillo e d’altra parte avevo anche io la mia
bella età ed era già da un pezzo finito il tempo delle passioni e delle
tempeste giovanili. Ero solo curioso, di sapere, di vedere, di ascoltare.
Quando lei venne ad aprirmi, avevo
intenzione di limitarmi a stringerle la mano, ma lei mi abbracciò e mi baciò,
costringendomi quasi a fare lo stesso. Quella che era davanti a me era la
famosa professoressa Silvia Maggiolini, chiaramente invecchiata e decaduta, ma
che ancora lasciava intravedere tra le prime rughe del volto e nella magrezza delle sue
dita affusolate gli ultimi tratti della bellezza perduta e del suo lontano
fascino giovanile.
Aveva una voce strascicata e quasi rauca e
mi parve anche di notare un leggero tremolio della mano sinistra. Vista da
vicino, proiettava fuori di sé quasi un senso di stanchezza dolente, una
rassegnazione, un senso di abbandono e di sfinimento, tipico di chi ormai non
ha o non vuole chiedere più niente alla vita.
Mi aspettavo tutt’altro e rimasi un po’
sconcertato. Silvia intanto mi accompagnava lungo il corridoio, fino ad un
soggiorno dove mi fece sedere, dicendo che andava a prepararmi un caffè.
Mentre ero solo, mi guardai attorno: per
quel po’ che avevo visto, dovunque avevo notato e continuavo a notare
confusione e abbandono, un senso di incuria e di indigenza, se non proprio di
povertà e miseria. Quando ritornò con il caffè, avrei voluto chiederle tante
cose, ma mi sentivo in imbarazzo, non sapevo da che parte incominciare e mi
accorsi che un nodo alla gola e un po’ di inattesa emozione mi impedivano di
profferir parola.
Fu lei che incominciò a parlare a briglia
sciolta, senza che io la interrompessi, e mi raccontò tutto.
-Io
mi ricordo molto bene di te, Ezio. Eri un ragazzo studioso, uno tra i più
studiosi, ma con me non c’era da studiare, perché io mi aspettavo che fosse la
vita ad insegnarvi quello che è indispensabile. Immagino che tu ti sarai
meravigliato di ritrovarmi in queste condizioni, delle quali un po’ mi vergogno
anche io, ma la vita non è stata clemente con me.
Quando, dopo solo un anno, sono andata
via da Crotone, ho avuto un incarico a Busto Arsizio. Crotone però ci era
rimasta nel cuore, nonostante tutto, e proprio qui, con i suoi risparmi, poco
prima della partenza mio padre aveva comprato, per fortuna, una casa, questa
nella quale oggi vivo e che è l’unica cosa che ho ereditato e che mi è rimasta.
A Busto Arsizio, come purtroppo spesso mi
capitava nella vita, incominciai ad annoiarmi e quasi ogni pomeriggio prendevo
il treno per Milano. Qui conobbi Carlo, uno degli esponenti di spicco della Mala milanese, la Mala di quel tempo, la Mala che si limitava ai furti, alle
rapine, alle truffe, quando l’uso della pistola era ridotto al minimo e
i tempi di Vallanzasca e di Turatello erano ancora di là da venire. Carlo era
bello come un angelo, era giovane, pieno di vita, generoso e, nonostante
sapessi perfettamente quel che faceva, me ne innamorai perdutamente e,
abbandonato il mondo della scuola, finii con sposarlo, con sommo dispiacere di
mio padre, che ne morì di crepacuore. Furono anni folli e noi eravamo belli e
dannati, come in un romanzo di Fitzgerald. Ma tutto finì in tragedia. Mio
marito morì sull’autostrada a 200 all’ora, mentre cercava di sfuggire ad un
inseguimento della polizia ed io stessa, che ormai ero entrata nel giro, poco
dopo finii in carcere per uso, detenzione e spaccio di cocaina. Quando, dopo cinque
anni, ne venni fuori, ero disperata e sola e, dopo essere vissuta di espedienti
per alcuni anni, decisi di ritornare a Crotone, a vivere in questa casa
ereditata. Ora vivo, si può dire, a spese della Caritas, che mi fornisce dei
vestiti per tutte le stagioni ed ogni tanto un pacco di viveri, con cui riesco
a tirare avanti, alla meno peggio. Di mio faccio poco: riesco a guadagnare
qualcosa vendendo immaginette sacre, che garantiscono miracoli. Anzi, ora te le
faccio vedere e ne devi comprare qualcuna anche tu.
Si alzò e riapparve poco dopo con uno
scatolo di scarpe. Ne tirò fuori immaginette di ogni tipo e di ogni dimensione.
-Ecco, vedi, questa te la raccomando, è
utile per i bambini, per proteggerli dalle malattie. Quest’altra, invece,
protegge dai tumori e dalle malattie del cuore. Costano poco e poi a te
qualcuna posso anche regalarla, in più.
Mi accorsi che farneticava, parlava a ruota
libera e non riusciva a trattenersi. D’altra parte non volevo umiliarla e
cercavo di dimostrare che non avevo fretta.
Mi finsi interessato alla sua mercanzia,
anzi feci finta di tirare anche sul prezzo. Alla fine le lasciai cento euro sul
tavolo e mi alzai, dicendo che per me era ora di andare. Dimenticai volutamente di prendere le immaginette. Avevo la morte nel cuore. Lentamente mi avviai verso
l’uscita e, giunto sulla soglia, l’abbracciai e la salutai. Mentre lei
biascicava alcuni saluti, mi affrettai a scendere le scale, invece di attendere l'ascensore, e intanto altri
ricordi, di altri saluti, riaffioravano nella mia mente. Mi rivedevo a diciassette anni,
dopo una serata in discoteca. Lei, giovane e bella, rientrava a casa ed io mi
allontanavo da lei, scomparendo nel buio della notte, con il dispiacere di
doverla lasciare.
Ezio Scaramuzzino
Ezio Scaramuzzino
Era meglio non rivederla, almeno il sogno rimaneva intatto e potevi immaginare un bel finale!
RispondiEliminaLa vita, purtroppo, prescinde dai desideri...
EliminaQuesto racconto è come la vita vera, privo di retorica, denso di rughe e di misurata disillusione.
RispondiEliminaGuardare al nostro passato come dentro un binocolo che ci consenta di afferrarne i particolari è operazione dolorosa, ma necessaria
Grazie, Giuseppe...
EliminaRacconto bellissimo,struggente,nostalgico emalinconico,
RispondiEliminadi stampo "Chiariano".
Ciao Ezio continua a farci dei regali simili.
Giovanni Pizzimenti
Giova', poi ti offro il caffè, o una pizza, a scelta. Un abbraccio.
EliminaPurtroppo è solo da poco che ti leggo. Peccato, chissà quante emozioni mi sono perse non potendo rivivere attraverso i tuoi racconti le mie angoscia, le mie pure, le mie gioie. A presto. Dimenticavo, in questi giorni è uscita la mia prima avventura letteraria " si giochi perduti edito Calabria letteraria. Fatti vedere c'è una copia che ti aspetta. Pietrino
RispondiEliminaTi ringrazio per il tuo lusinghiero commento. Comunque basta fare una ricerca interna nel mio sito e trovi tutto quello che ho scritto. Mi farò vivo, appena possibile, per la copia che mi aspetta e di cui ti ringrazio. Ciao.
EliminaBellissimo il tuo racconto, che ho letto con estremo piacere, intanto perché mi hai riportato indietro al periodo liceale e, in secondo luogo, perché sei riuscito a delineare magistralmente un personaggio piuttosto singolare, come la prof.sa Silvia, per certi versi simile al prof di Storia dell’arte della mia classe, Coscarella, che era quotidianamente preso in giro da quasi tutti gli studenti. Ma il tuo merito più grande risulta bene evidenziato dall’ottimo ed efficace intreccio con cui ha saputo intessere la narrazione di questa movimentata e sorprendente storia.
RispondiEliminaSperavo che ti piacesse, ma non fino a questo punto. Comunque grazie per l'apprezzamento.
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