lunedì 3 dicembre 2018

La maledizione di Montecitorio di Marcello Veneziani


Un tempo, Montecitorio era l’anticamera del Quirinale. Saragat, Gronchi, Leone, Pertini, Napolitano prima di diventare presidenti della Repubblica furono presidenti della Camera. Poi, a un certo punto, entrammo nell’epoca della Camera Oscura. Ovvero la maledizione della presidenza di Montecitorio: chi diventava presidente poi spariva dalla scena politica o finiva ai margini. Fu così per tanti, da Violante a Bertinotti, dalla Pivetti a Casini a Fini, ora alla Boldrini. E la stessa cosa vale in fondo per Palazzo Madama.
Ma c’è una maledizione aggiuntiva che coglie ormai gli ultimi presidenti: contraggono una malattia che definirei delirio di onnipresidenza, variante istituzionale del delirio di onnipotenza. E cominciano a sclerare, a sconfinare da una presidenza della Camera a una presidenza del consiglio fino a sfiorare la presidenza della repubblica, si buttano tutti regolarmente a sinistra della sinistra, ricevendo il plauso d’incoraggiamento dei Grossi Giornali che è sempre un viatico di malaugurio. E dopo la parabola di gloria e cotillons affondano.
Per restare agli ultimi, fu così per Fini, fu così per la Boldrini, è così per Fico. Si credono investiti da chissà quale carisma speciale, si sentono al di sopra delle parti, e si mettono a fare politica in proprio e a punzecchiare chi governa, anche se è del suo stesso versante, lo ha mandato alla Camera e lo ha eletto alla Presidenza. Di Fico c’è poco da dire e non solo perché è da poco presidente, ma perché poco è l’eufemismo che ci viene di usare a suo proposito, per non dire il Nulla. Ma in quel poco-niente che ha dimostrato, si è già rivelato quel che è: la caricatura grottesca del vecchio sinistrismo; eco-pacifista, tardo-antifascista, filo-migranti, fico-permissivo. Insomma un vecchio petardo del ’68 rimasto inesploso, come le mine della guerra mondiale. Ma l’effetto della sua esplosione non è niente di drammatico, produce solo un po’ di rintontimento, come si può ben vedere. Se penso che il primo presidente della Camera quando il Parlamento era ancora a Torino e non era ancora Stato italiano, fu Vincenzo Gioberti, gran filosofo, grande spirito risorgimentale e grande cattolico, poi vedo Fico e capisco che Darwin va letto a rovescio… Nel senso dell’involuzione della specie, naturalmente, non dell’avvento delle scimmie.
Di fronte allo spettacolo di quel trittico avvilente che ci siamo ritrovati alla guida della Camera, ho coltivato una nostalgia indecente. Non l’abolizione della Camera, come a volte verrebbe di chiedere. Ma un ritorno al passato. Aridatece i comunisti. Alla presidenza della Camera, naturalmente. Ho nostalgia di Ingrao e della Jotti, di Violante e di Bertinotti, forse persino di Napolitano, almeno quando stava a Montecitorio e non alle Botteghe oscure o al Quirinale. Alla guida di Montecitorio mantennero uno stile e una dignità, non debordarono, non si ubriacarono, garantirono maggioranza e opposizione, seppero stare alle regole. Ci avrei visto bene pure Pajetta o Berlinguer, per restare nelle prime file… Non li avrei mai voluti al governo, e diocenescampi dai comunisti al potere, ora e sempre. Ma alla guida del Parlamento erano preferibili loro, avevano una cultura politica e una storia alle spalle, avevano modi civili nonostante la falce e il martello, erano intelligenti e realisti.
Ora si narra perfino di un’Alleanza Napoletana tra Fico e De Magistris, il sindaco vesuviano. Si tratterebbe di far fuori un Giggino e mettercene un altro, ma restando nel napoletano. Sarebbe un ticket vincente, nel senso di Totò e Peppino…
Però, se fossi alla guida dei servizi segreti farei un’indagine accurata su Montecitorio. Per vedere se hanno piazzato in qualche microspia qualche virus che colpisce alle meningi gli inquilini presidenziali…
M.Veneziani

domenica 28 ottobre 2018

Il mare proibito



        Dopo una lunga interruzione, da qualche giorno ho ripreso le mie fatiche di footing mattutino: 8-10 Km quasi ogni giorno da casa mia fino alla Casa Rossa  e talvolta anche più in là. Rivedo i soliti posti,  di cui ormai conosco a menadito ogni angolo, le solite case, i soliti lidi, posso dire anche le solite pietre, e noto che tutto è eternamente uguale a se stesso, tranne che per un particolare, cui in un primo momento non avevo fatto caso. Me ne sono accorto l’altro giorno, quando, dovendo appartarmi un attimo per sbrigare una “faccenda privata ed urgente”, ho notato che la deviazione verso il mare, dove già altre volte mi ero diretto alla ricerca di un gigantesco eucaliptus, testimone silenzioso e discreto delle mie irrorazioni,  era sbarrata da una siepe metallica.
Mi sono trattenuto ovviamente, pur con qualche disagio, ed ho cercato qualche altra deviazione. Inutilmente. Lungo la strada per Capocolonna, fino alla Casa Rossa e oltre, non c’è più un passaggio libero, che consenta di accedere comodamente e liberamente verso il mare. O almeno io non ne ho trovati e/o non ne ho visti. Dovunque cartelli vagamente minacciosi: “ Divieto di accesso”, “Proprietà privata” (foto2) e simili. E’ pur vero che in un paio di posti ho notato che qualcuno aveva malamente abbattuto o tagliato un pezzetto di siepe, fino a creare un varco, seppure malagevole e precario, dove il passaggio risultava comunque pericoloso, ma questo non cambia in nulla la sostanza del problema.
Foto2

Se poi ti soffermi a guardare oltre la prima rete di sbarramento, ti accorgi che è stata creata anche una seconda rete di sbarramento dal lato mare. E questa seconda rete in molti punti è a breve distanza dal bagnasciuga (foto 3), a non più di 3-4 metri dall’acqua, impedendo l’accesso anche sulla spiaggia.
Ci pensate? Le spiagge sono diventate private?! Ma una volta  tutta la zona fino a 150 metri dal mare, tranne casi particolari, non costituiva il demanio?! O le leggi sono cambiate? E, dopo aver venduto le spiagge, sarà anche possibile vendere il mare?
Mi rassegno all’evidenza, scatto qualche foto, prosieguo il mio allenamento, ma ciò non mi impedisce di riflettere. Per deformazione professionale mi tornano in mente tanti brani letti nel corso della mia vita.
Ma piú in là ancora l'occhio mio non poteva indovinar cosa fosse quello spazio infinito d'azzurro, che mi pareva un pezzo di cielo caduto e schiacciatosi in terra: un azzurro trasparente, e svariato da striscie d'argento che si congiungeva lontano lontano coll'azzurro meno colorito dell'aria… …D'improvviso i canali, e il gran lago dove sboccavano, diventarono tutti di fuoco: e quel lontanissimo azzurro misterioso si mutò in un'iride immensa e guizzolante dei colori piú diversi e vivaci. Il cielo fiammeggiante ci si specchiava dentro, e di momento in momento lo spettacolo si dilatava, s'abbelliva agli occhi miei e prendeva tutte le apparenze ideali e quasi impossibili d'un sogno. Volete crederlo? Io cascai in ginocchio……Adorai, piansi, pregai…(Ippolito Nievo, Memorie di un ottuagenario).
Il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole (Giovanni Verga, I Malavoglia)
Mi viene da pensare con un sorriso che, se a Crotone nascesse un nuovo Nievo o un nuovo Verga e dovesse raccontare una situazione del genere, sarebbe costretto a rinunciarvi o sarebbe costretto a cambiare la trama del suo romanzo.
Poi ritorno ad osservare la fila ininterrotta di siepi e qualche volta, su un rialzo, ho la possibilità di intravedere il mare recluso e lo sciabordio dell’acqua che, in un futuro prossimo venturo, vedo destinati ad essere goduti solo  da un pubblico pagante. Mi si stringe il cuore.
E’ un segno dei tempi, forse. In un mondo che si sta disfacendo, come su un Titanic destinato ad infrangersi, chi può, vuole accaparrarsi ciò che resta di liberamente fruibile, in una disperata rincorsa alla sopravvivenza, a spese di coloro che sono destinati ad essere sommersi.
Ma può darsi che io abbia una visione distorta delle cose ed è perfettamente possibile che tutto ciò che è accaduto sia lecito. Resta un’ultima domanda: è possibile chiedere a chi ha il dovere dei controlli, il Sindaco di Crotone, la Polizia Municipale, la Capitaneria di Porto, la Guardia Costiera, che non deve più raccogliere immigrati clandestini in mare e quindi ha molto più tempo a disposizione, di vedere se tutto è stato fatto nel rispetto delle leggi? Che nessun abuso è stato commesso? Questi lavori di recinzione sono certamente durati delle settimane. Possibile che nessuno ha visto? Possibile che nessuno ha da ridire su niente?
So che i tempi sono feroci e che non c’è tempo per i sogni e per la poesia. Ma deve essere proprio questo il nostro destino?
Foto3

Ezio Scaramuzzino

giovedì 18 ottobre 2018

Un eroe del nostro tempo



Chi è Domenico Lucano detto Mimmo, ormai lo sanno tutti: a Riace, nella provincia di Reggio Calabria, nella Regione Calabria, in Italia, in Europa, nel mondo intero, di là dei mari e di là dei monti, specie da quando  nel 2010 la rivista americana Fortune lo ha collocato al 40° posto tra i leader più influenti in tutto il mondo. Ma non è da escludere che prima o poi avrebbe primeggiato anche in eventuali graduatorie a livello di Sistema solare e, perché no, a livello della nostra galassia, di tutte le galassie e dell’universo intero.
Il tutto perché, da sindaco di Riace, ha riempito il suo paese di immigrati, affiancandone e, pare,  integrandone in maniera soddisfacente circa 500 su una popolazione complessiva di 2000 abitanti e suscitando l’entusiasmo di tutti coloro che smaniano dalla voglia di sconquassare l’Italia e brindano con voluttà quando vedono un barcone carico di migranti approdare sulle nostre coste.
Ora, sia ben chiaro, non è che il nostro Mimmo ha fatto quel che ha fatto grazie a donazioni private o ricorrendo ad aiuti disinteressati. No. Ha fatto tutto con i soldi pubblici, cioè con i soldi dello Stato, cioè con i soldi di tutti noi, anche di quelli che non sono d’accordo con la sua concezione dell’accoglienza a tutti i costi. E, nell’aiutare gli immigrati, non ha tralasciato di aiutare anche gli abitanti di Riace, che ormai quasi tutti campavano e campano con l’industria dell’accoglienza, cioè sempre con i soldi pubblici.
Però, si sa, quando maneggi troppi soldi, ogni tanto capita che perdi il senso della misura e quindi è capitato anche a Mimmo di usare quei soldi con una certa disinvoltura, per non dire altro, e di commettere qualche reato. Almeno così dicono i giudici, che stanno indagando su di lui e di recente lo hanno dichiarato decaduto dalla carica di sindaco, lo hanno messo agli arresti domiciliari ed in seguito gli hanno imposto il divieto di soggiorno a Riace.
E’ stata la fine del mondo per un certo mondo che gravitava intorno a lui e che ha un bisogno insopprimibile di crearsi dei miti, o almeno degli eroi, infischiandosene bellamente di Bertolt Brecht, che considerava beati quei popoli che non hanno bisogno di eroi. Anche se, diciamocelo pure, faceva un bell’effetto vedere Mimmo Lucano che salutava i suoi sostenitori con il pugno sinistro alzato a tre quarti, come eroe  ideale di una galleria ideale: da Marx, a Lenin, a Stalin, a Gramsci, a Berlinguer, a Mimmo Lucano. Ora questo mondo ha preso a sproloquiare di attentato al genere umano più che a Mimmo Lucano, di eroi che sono costretti a piangere, di dei che sono stati abbattuti dal loro piedistallo e gettati ingiustamente nella polvere.
E’ stata una sorpresa anche per il mondo che comunque non gravitava intorno a lui. Ti prendi la briga di sapere qualcosa in più su questo singolare personaggio e vai a consultare l’immancabile Wikipedia. Vieni così a sapere, tra tante altre cose banali, che il nostro Mimmo studia a Roma per diventare medico, ma dopo quattro anni abbandona l’Università, presumo perché acceso dal sacro fuoco della politica. Mi viene in mente Cocò, un personaggio con il quale il famoso meridionalista Gaetano Salvemini, agli inizi del ‘900, sferra un feroce attacco alla borghesia meridionale, incapace di concludere qualcosa di concreto all’università e soltanto capace di rincorrere un posto statale o un ruolo in politica.
Ed anche Mimmo si dà alla politica. Siamo nel pieno dell’invasione di  clandestini in Italia, lui diventa sindaco di Riace e  viene rieletto, riempiendo il paese di extracomunitari e facendo girare a pieno regime l’industria dell’accoglienza. Probabilmente, anzi certamente, finisce col credere pure lui in quello che sta facendo, anche se all’inizio si è mosso con qualche cautela,  perché non c’è niente di peggio che sentirsi dire continuamente “quanto sei bravo” da una pletora di clienti e sicofanti, che campano con gli stipendi che lui distribuisce.
Mimmo si monta la testa. Incomincia a considerare la sua attività sacra ed inviolabile, lui stesso si sente al di sopra della legge, perché spinto da una moralità superiore, che non può tener conto del ciarpame burocratico e legislativo. Nella sua qualità di sindaco celebra matrimoni irregolari, assegna appalti senza gare, non rendiconta il denaro ricevuto e speso, compie altre amenità del genere.
Lo vedi in TV mentre saluta dal balcone di casa i suoi sostenitori con il pugno chiuso di cui sopra, lo ascolti mentre recita la sua autodifesa. C’è qualcosa di falso nelle sue parole, quando parla di “reato di umanità”, di superiorità della legge morale rispetto alla legge scritta, come fosse un apostolo della non violenza, un Gandhi redivivo. E questo contrasto è alimentato anche da un paragone istintivo ed involontario, ma che non si può non fare e che finisce con l’alimentare una comicità irresistibile e feroce. Ricordi Gandhi nella sua magrezza, nel suo ascetismo, ricoperto solo dal khaddar, il particolare tessuto indiano adatto alla gente povera. A Riace invece ti ritrovi davanti una persona piuttosto in carne, con una pancia straripante, un volto sudaticcio e rintronato, una capigliatura scomposta e unta; una persona che parla di “Massimi Sistemi” con un accento marcatamente dialettale e al quale conferisce un caratteristico tono sibilante qualche dente, incisivi compresi, che non c’è più.
Ma ritorniamo a noi, perché l’avventura non è finita. Non sta a noi giudicare se Mimmo è colpevole o innocente dei reati per cui è imputato. A questo penseranno i giudici. Noi ci permettiamo di giudicarlo solo dal punto di vista umano e politico e, per quanto può valere il nostro modesto giudizio, personalmente dico che non ho difficoltà ad unirmi al coro dei suoi lodatori. Ma lo farò ad una condizione. Riace è un paese che nel corso della sua esistenza ha perso molti dei suoi abitanti, sparsi un po’ in tutto il mondo, compresi tanti giovani che vanno all’estero in cerca di un lavoro purché sia. Il giorno in cui Mimmo Lucano avrà speso anche solo la decima parte dei soldi spesi finora per gli extracomunitari, per far ritornare anche solo un centinaio di questi esuli, anche io sarò tra la folla plaudente che lo porterà in trionfo. Dico di più e mi voglio rovinare. Quel giorno per me Mimmo Lucano sarà il terzo Bronzo di Riace, molto, ma molto più importante degli altri due che si trovano al Museo di Reggio.
Ezio Scaramuzzino


venerdì 12 ottobre 2018

Colombo e i tordi progressisti di M. Veneziani


C’è una banda di cretini globali che ha preso in ostaggio Cristoforo Colombo e non lo rilascia nemmeno oggi che è vero il Columbus day, il giorno della scoperta dell’America. Non è una banda di indios ma di idioti. Considerano Colombo un precursore dei razzisti e degli sterminatori, una specie di Hitler da esportazione. E insistono a voler abbattere statue, monumenti e revocargli vie in sua memoria. Ora si profila un’altra banda di cretini che vorrebbe redimere Colombo considerandolo il primo degli emigrati italiani in America, una specie di Santo Protettore dei migranti. Non si rendono conto gli uni e gli altri, che Colombo era un esploratore, un navigatore, non un emigrato; non cercava accoglienza e pane ma portava la civiltà, portava la cristianità, se volete, portava l’impero, le missioni, la colonizzazione. Che era poi la globalizzazione dell’epoca. Entrambe le bande, guarda un po’, sono radical, progressisti, umanitari, insomma de sinistra.
Se fossi scemo come loro direi che Colombo è piuttosto un sovranista, nel senso che navigava nel nome della sua sovrana, Isabella di Castiglia. Ma non abbocco alla stupida tendenza di attualizzare la storia del passato, di adattarla ai temi del presente. Anzi quest’abuso di storia per giustificare il presente è una vera e propria miseria di un tempo storto e piccino che distorce e rimpicciolisce la storia.
Non mancano infatti precedenti alla riduzione di Colombo “ad usum cretini”. Enea è stato visto a teatro, in tv, in alcuni testi, come profugo e precursore degli immigrati clandestini, dimenticando che era principe e venne a fondare Roma, non a vendere fumo alla stazione Termini. Ulisseche naviga su un barcone nel Mediterraneo è stato visto come un antenato dei migranti salvato da ong mitologiche e avversato da mostri con le fattezze di Salvini. O al contrario, Dante, Shakespeare e Wagnersono stati censurati per le loro aspre opinioni sui giudei… E si potrebbe continuare sulla mania nociva e demente di attualizzare la storia e ridurla nelle piccole gabbiette del politically correct. Non si può giudicare il passato col metro del presente, e tantomeno forzare il passato per dominare il presente.
Giorni fa anche il Vangelo è stato usato per colpire i populisti: come un tam tam si è diffuso un tweet secondo cui nella prima consultazione “democratica” il popolo assolse Barabba il ladro e condannò il figlio di Dio. Chi lo ha veicolato non lo sapeva, ma era una battuta di Donoso Cortes, pensatore della Restaurazione ed ebbe molta fortuna tra i reazionari e i legittimisti; ora è sulle bocche dei dem e dei lib. Vorrà pur dire qualcosa…
In realtà il popolo, o meglio quella folla radunata davanti a Ponzio Pilato, si limitò a indicare una preferenza su chi graziare. Non dimentichiamo che a volere la condanna di Gesù Cristo fu soprattutto l’oligarchia del tempo – e del tempio – il sinedrio… I romani si limitarono a eseguire ambedue le richieste, e a metterci semmai la loro proverbiale durezza e il loro blasfemo sarcasmo.
E ancora. Qualche giorno fa, nel battibecco con Marine Le Pen, il compagno Bersani ha detto di vedere nei sovranisti nientemeno che quattro secoli di orrori e di guerre nazionali. Con lo stesso criterio dovremmo vedere in Bersani e nei suoi compagni cent’anni di comunismo, coi suoi orrori e i suoi crimini, compiuti in tempo di pace e nel nome della pace, contro le nazioni e i popoli. Ha fatto più morti, e in minor tempo, la pace comunista, la rivoluzione culturale cinese, la rieducazione sovietica dei popoli, la repressione del dissenso, che il resto. E la tragedia nel Novecento non sono stati i muri eretti per proteggere le città dalle invasioni ma i muri eretti per impedire ai propri cittadini di uscire dai loro paesi. Do you remember Berlino, i Vopos che sparavano a chi osava evadere da quei muri, la cortina di ferro, i fili spinati?
Detto questo, non mi sembra giusto caricare sui presenti il peso degli orrori del passato, nemmeno su gente come Bersani e Napolitano che è stata comunista finché c’è stato il comunismo, giustificando quegli orrori o tacendoli. Figuriamoci sugli altri che non hanno alcun rapporto col passato. Ma se dobbiamo caricare sul presente i mali del passato, allora diventa lecito e possibile anche quello.
Infine, una considerazione. Da quando è perdente, la sinistra ritiene che le maggioranze siano composte da pericolosi imbecilli, mentre la verità, il buon senso, la memoria storica siano appannaggio delle “minoranze intelligenti” (cioè loro). Visti gli abusi dementi di storia passata, ricordo loro che “In ogni minoranza intelligente c’è una maggioranza di imbecilli”. L’unico punto debole della citazione di Flaiano è che qui non si tratta di una minoranza davvero intelligente ma solo presuntuosa.
MV, Il Tempo 12 ottobre 2018

venerdì 28 settembre 2018

La vendemmia del '52 (racconto inedito) di Ezio Scaramuzzino






Quando ero bambino, tre - quattro giorni all’anno, nel mese di settembre, erano dedicati alla vendemmia. Nei giorni precedenti, l’arrivo di questo evento era preannunziato da un fervore insolito a casa mia, dove  tutti erano indaffarati a preparare qualcosa.
Io mi limitavo ad osservare, pregustando in anticipo il sapore ed il frastuono allegro di quella che si preannunziava come una festa. Il colmo della felicità per me consisteva poi nel fare il tragitto tra il paese e la campagna sul dorso di qualche animale, unico mezzo di trasporto agricolo all’epoca. Ma ancora più felice mi sentivo quando, per non so quale motivo, venivo infilato in una delle due sporte che gli asini ed i muli, in lunga fila, trasportavano a destinazione.
Era un’operazione non facile questa. Bisognava trovare due bambini che avessero più o meno lo stesso peso, per equilibrare il carico ed evitare che le sporte si inclinassero pericolosamente. Ma, ad una certa ora, finalmente, si partiva. Si percorreva una parte del paese, che io guardavo compiaciuto ed orgoglioso, dall’alto del mio punto di osservazione, con lo stesso compiacimento e lo stesso orgoglio con cui qualcuno, al mondo d’oggi, esibirebbe in pubblico la sua Ferrari.
Poi si imboccavano sentieri di campagna e strade sterrate, che a volte si inerpicavano paurosamente e diventavano pericolose in caso di pioggia, perché gli animali potevano scivolare. Mio padre e mio fratello Nando, in questo caso, decidevano una deviazione attraverso una strada privata, più comoda,  che attraversava un aranceto in zona Broncalà, suscitando spesso le proteste dei proprietari, i Rota, che non tolleravano questi percorsi abusivi.
Una volta, quando ormai ero più grandicello, mi ritrovai ad essere fermato in paese da Pasquale Rota, uno  della famiglia.
-Eziu’, mi disse, devi dire a papà tuo di non far passare gli animali sulla strada dell’aranceto.
-Caro Pasquale, gli risposi, la strada è privata, lo so, ma, quando piove, siamo costretti a passare.
-Non è per voi, ma, se tutti prendono quest’abitudine, la strada diventa pubblica.
Pasquale protestava e forse non aveva tutti i torti, ma io non volevo darmi per vinto e, lì per lì, mi inventai una scemenza.
-Mi meraviglio, replicai. Broncalà significa forse Buona Calabria, perché la terra è buona, ma voi non siete buoni, siete cattivi.
Pasquale, che era una persona mite, sorrise ed andò via.
Lungo il tragitto i più grandi dicevano ai bambini in groppa agli animali quando e quanto dovessero piegarsi, per evitare di essere colpiti in viso dalle frasche che sporgevano pericolosamente dalle piante lungo i sentieri. Era un gioco quasi a rimpiattino, che mi coinvolgeva molto e mi rendeva felice. Io non andavo spesso in campagna, ma, quando ci andavo, osservavo tutto con un piacere che rasentava la voluttà.
Ed era normale che fosse così. Io non conoscevo la fatica che comporta la campagna, che per me restava solo uno spettacolo della natura da osservare e gustare con lo spirito incantato di un arcade redivivo.
Mi incuriosiva tutto. Osservavo i fiori, le piante, gli uccelli e continuavo a guardarli finché non sparivano alla vista, chiedendo ai più grandi, e spesso a mio fratello, i nomi di ciò che non ricordavo o vedevo per la prima volta.
Più raramente chiedevo a mio padre, che già allora, anche se non ne capivo appieno il motivo, vedevo impegnato ad intrattenersi con le donne, piuttosto che a seguire o preoccuparsi del lavoro degli altri.
Poi, finalmente, dopo un viaggio di poco meno di un’ora, si arrivava a destinazione, nella nostra campagna, segnata sulle mappe  con un anonimo e burocratico Manco Destro Ferrato, ma che tutti, già allora, chiamavano ed avrebbero sempre chiamato con l’affettuoso nome di Garruòpolo. Il punto di raccolta era la casetta in muratura, che era anche il centro ed il punto di raccolta della campagna circostante. Qui si  fermavano gli animali e si scaricavano le sporte vuote destinate al trasporto dell’uva; qui facevano una prima  e momentanea sosta tutti quelli che erano impegnati nella vendemmia.
Quando arrivavo io, per prima cosa cercavo di vedere chi fossero i presenti, quasi sempre gli stessi, da un anno all’altro. Ricordo soprattutto mia madre con un fazzoletto in testa per riparasi dal sole, i miei fratelli Salvatore, Ludovico e Ferdinando, mia sorella Rosetta, poi alcuni parenti, soprattutto quelli più stretti, tra cui le mie cugine Emma ed Eufrasia, mio cugino Franco, immancabile. Era anche immancabile Iuzza ‘i Giardino: Iuzza, diminutivo di Maria, di cui ricordo l’abbigliamento sempre a lutto ed il portamento austero ed altero, nonostante la sua vita da contadina. Tanti li ho dimenticati, tanti non ci sono più: eravamo quasi sempre una trentina di persone.
Quell’anno, era, credo, il 1952, notai con curiosità una presenza insolita. Si trovava lì anche una ragazza, una vicina di casa, Teresa Panza, figlia di Mario, di cui altrove mi è capitato di raccontare qualcosa. La ragazza, già molto cresciuta e piuttosto graziosa con i suoi capelli rossicci che le conferivano un tono civettuolo, non godeva di buona fama e si diceva fosse la croce della sua famiglia, come anche io, più volte, avevo sentito in giro.
Mi avvicinai a lei con curiosità.
-Che ci fai da queste parti?
-Fatti i fatti tuoi, moccioso.
-I fatti miei sono anche quelli di sapere che ci fai tu qui, dal momento che qui è proprietà di mio padre, se non lo sai.
-E invece ti stai facendo i fatti degli altri, non i tuoi, replicò, mettendomi una mano sulla testa e stropicciandomi i capelli, con evidente intento di dileggio.
Le tolsi via la mano con decisione e contemporaneamente mi accorsi che un’altra mano si era poggiata sulla mia testa. Mi voltai subito con fastidio e vidi che dietro di me c’era Giovanni, un mio parente, già grandicello, che si divertiva, anche lui, a scompigliarmi i capelli.
-Ma non hai niente di meglio da fare? Smamma!, mi disse sottovoce.
Ovviamente mi resi subito conto che, per la mia tenera età, non era il caso di litigare e, insieme con gli altri bambini, mi diressi correndo verso le vigne poco distanti.
Correvo allora, correvo sempre, perché da bambino non facevo che correre, come sempre avrei fatto fino ad una certa età. A camminare avevo l’impressione di sprecare del tempo, per un’ansia di vivere intensamente che sembrava non abbandonarmi mai.
Superai gli altri bambini ed arrivai per primo alle vigne. Alcuni erano già al lavoro, un lavoro metodico e  per lo più ben distribuito: le donne staccavano l’uva dai tralci e riempivano i cesti, gli uomini ed i maschietti trasportavano i panieri fino alle sporte, i bambini giocavamo a  nascondiglio dietro i pampini delle viti ed i cespugli ed ogni tanto, a seconda dell’età e della vigoria fisica, trasportavamo qualche piccolo paniere pieno d’uva.
Dopo qualche ora di lavoro, verso le 11, secondo le usanze dei contadini, si pensava già al pranzo. Le donne provvedevano a stendere delle tovaglie sull’erba, all’ombra di un ulivo centenario, e tutti, seduti o sdraiati  per terra davano inizio al rito. Giusto definirlo così, perché il rito era immutato da sempre e si svolgeva secondo un cerimoniale che sembrava sacrilego modificare. Il vino era abbondante e generoso; il primo era quasi sempre la famosa, mitica pasta al forno; il secondo era sempre a base di salsicce e carne di maiale; il contorno  a base di peperoni e patate. Bere acqua era quasi vietato per tutti, comprese le donne,  ed appena tollerato per i bambini, sicché dopo un po’ molti apparivano in preda ad una certa euforia ed inclini allo scherzo ed alle battute. Qualche volta i freni si allentavano e gli uomini  diventavano arditi nei confronti delle donne, che  non avevano paura di rispondere a tono. Ma tutto finiva lì, in un’atmosfera  di sana allegria che dava un senso ed un tono alla nostra voglia di vivere e di stare in armonia con il mondo circostante. E quel mondo, in quel momento, era il nostro, eravamo noi, riuniti sotto quell’ulivo secolare e felici di stare assieme e di volerci bene.
Ad un certo punto, quando i primi sintomi di stanchezza sembravano venire fuori, si udiva la voce di mia madre che, una volta all’anno, in quella circostanza, riteneva fosse giunto il momento di dare inizio al suo show personale.
Un anno prima, in un momento in cui forse si sentiva triste, mia madre mi aveva raccontato dei suoi sogni da ragazza. Mi aveva chiamato, mi aveva fatto sedere sulle sue ginocchia, mi aveva abbracciato e mi aveva raccontato una storia.
-Al mio paese, a Casabona, c’era una ragazza che sognava di diventare cantante, perché sapeva cantare ed aveva una bella voce. Doveva partire per Napoli, dove avrebbe studiato l’arte del canto, ma si era in inverno, si ammalò e la partenza fu rinviata. Poi quella ragazza crebbe, aspettò inutilmente che fosse fissata una  nuova partenza, poi si sposò e  di quella partenza non si parlò più. Non so se l’hai capito, ma quella ragazza ero io.
        A distanza di tempo, durante la vendemmia, udii improvvisamente la voce di mia madre.
-Silenzio, per favore! 5 minuti di silenzio!
Tutti tacevano. Mia madre si rischiarava la voce con qualche colpetto di tosse, poi, a cappella, incominciava a cantare.
-Signorinella pallida, dolce dirimpettaia del quinto piano…
Non si sentiva una mosca volare e l’unico rumore percepibile era il soffio del venticello pomeridiano che accarezzava dolcemente i nostri volti. Sarà stato un caso, ma, all’attacco della canzone, perfino una cicala che fino a qualche momento prima ci aveva rintronati da un ramo vicino, improvvisamente aveva smesso di frinire. Mia madre cantava con una certa emozione, che a volte le intorbidiva la voce, ma che rendeva proprio per questo ancora più coinvolgente la sua canzone. Io la ascoltavo con una certa trepidazione, perché, non so per quale  motivo, avevo sempre paura che la voce la abbandonasse improvvisamente e lei potesse andare incontro ad una figuraccia. Sicché quando la sentivo arrivare all’ultima nota, ero il primo a dare inizio ad un applauso, che subito coinvolgeva tutti fino a sfociare, a torto o a ragione, in in’atmosfera di esaltazione e di trionfo.
Poi, a poco a poco, qualcuno si sdraiava all’ombra dell’ulivo e si concedeva una pennichella ristoratrice.
Quel giorno, mentre gli altri si stendevano per terra, io avvertii un certo imbarazzo al ventre e capii che avevo una faccenda da sbrigare, oltre tutto da sbrigare personalmente.
Mi misi a correre, come al solito, e mi diressi verso una zona della campagna che chiamavamo “La fonte”, per via di una polla d’acqua che dava origine ad un piccolo stagno e ad un ruscello che fungeva da confine con le campagne limitrofe. 
In quelle circostanze ognuno sbrigava le proprie “faccende” all’aperto, tutt’al più al riparo di qualche pianta o di qualche cespuglio,  e si era soli con se stessi in quei momenti, a parte le donne, che, per un minimo di prudenza, andavano in coppia e si alternavano nel fare la sentinella.
Esplorai velocemente la zona e mi riparai in un cespuglio che offriva al suo interno un comodo slargo, che riduceva al minimo i disagi e al contempo proteggeva da occhi indiscreti. Ero lì da qualche tempo e stavo per rialzarmi, quando sentii una pietra rotolare lungo un declivio della collina di fronte.
Le pietre normalmente non rotolano da sole e capii che, se era rotolata, ciò significava che qualcuno l’aveva smossa. Alzai timidamente la testa fino ad arrivare a filo della sommità del cespuglio e vidi Teresa Panza e Giovanni, mio cugino. Mi abbassai istintivamente e continuai ad osservarli, di tra i rami del cespuglio, senza essere visto a mia volta.
Giovanni e Teresa, che erano spuntati da chissà quale anfratto, scendevano verso La fonte, in maniera decisa ma senza precipitazione. Si tenevano per mano o meglio sembrava che Giovanni la sorreggesse lungo il declivio, per evitarle qualche caduta, e parlavano a bassa voce, come per non farsi sentire. Poi si fermarono dietro un albero, si appoggiarono al tronco  e si baciarono a lungo, con passione.
Il cuore mi batteva forte, in tumulto, e cercavo quasi di trattenere il respiro. Ebbi la possibilità di osservarli a lungo, ma non sempre li osservavo, perché un senso di vergogna e di colpa mi induceva a distogliere lo sguardo. Li sentii parlare, ridere e sorridere. Li sentii mentre si dicevano parole d’amore e tutto ciò, mentre mi procurava imbarazzo, sembrò  anche aprire uno squarcio su tante cose che mi frullavano in testa, su tante cose di cui avevo tante volte sentito parlare in maniera oscura e fumosa, aprivano uno squarcio e mi facevano intravedere un certo senso della vita, dell’amore, del pudore, del sesso.
L’atmosfera tutt’intorno sembrava sospesa, come se la natura avesse per un po’ interrotto il ritmo della sua vita ed anche io sembravo aver interrotto il battito del mio cuore. Quando mi ripresi, vidi che i due erano ancora là. In alto un falco immobile nell’aria doveva aver individuato una preda, mentre in basso si udiva appena il fruscio delle foglie ed il gorgoglìo dell’acqua del ruscello.
L’incanto di tutto ciò che mi circondava fu però improvvisamente interrotto da un fruscio improvviso alla base del cespuglio nel quale ero nascosto. Mi voltai di scatto e vidi per terra qualcosa di nero, lubrico e sinuoso, che strisciava inesorabilmente verso di me. Non c’erano dubbi: era un piccolo serpente che quasi certamente si dirigeva verso lo stagno per dissetarsi o per trovarvi qualche rana da divorare. Ebbi paura. Gridai. Chiesi aiuto. Scappai. Finii diritto nella mani di Giovanni e Teresa.
-Ecco quello che dice di farsi solo gli affari suoi ed invece viene a spiare quello che fanno gli altri. Fu la prima cosa che sentii, quando mi ripresi un po’.
- Pietà, aiutatemi, implorai. C’è un serpente di là.
- Tu il serpente ce l’hai nella testa, gridò Giovanni. E, oltre al serpente, che cosa hai visto?
-Io, niente, ve lo giuro. Non ho visto niente. Ero appena arrivato.
- E, se eri appena arrivato, come mai sei uscito fuori da un cespuglio? Continuò Giovanni, mentre Teresa, per tutto il tempo, mantenne un atteggiamento imbronciato e sdegnoso.
Mi resi conto che per me si stava mettendo male ed allora decisi di ricorrere all’unico mezzo nel quale mi ritenevo imbattibile, quello della fuga e della corsa. Mi divincolai con uno strattone e via, a correre a perdifiato.
Quando giunsi alle vigne, vidi gli altri che vendemmiavano allegramente. Finsi una certa indifferenza e mi misi a fischiettare, cercando di apparire disinvolto. Nessuno sapeva niente di quel che era successo, ma io avevo visto tutto e due avevano visto me. Bisognava stare attenti.
 La sera ritornammo tutti a piedi, perché gli animali trasportavano le sporte cariche di uva. Dopo le  scorribande della giornata, mi sentivo finalmente un po’ stanco e lungo i sentieri evitai di correre. In testa avevo ancora tutto quello che avevo fatto ed avevo visto durante la giornata. Ogni tanto mi veniva la tentazione di spifferare qualcosa, ma riuscii a stare zitto. E soprattutto, arrivato in paese, riuscii a non dire  niente al padre di Teresa, Mario Panza, famoso per le legnate  che era solito dare alla figlia, quando veniva a sapere sul suo conto qualcosa di sconveniente.
Il giorno dopo, all’alba, eravamo già tutti in piedi e di primo mattino percorrevamo le strade ed i sentieri per Garruòpolo. Giunti a destinazione, notai subito la presenza di Teresa, ma notai anche che Giovanni, per qualche motivo a me sconosciuto, non c’era. Evitai di fare domande e mi diressi verso le vigne. Incominciava subito il lavoro della vendemmia, di primo mattino, quando le foglie erano ancora bagnate di rugiada, destinata a dissolversi non appena il sole si fosse sollevato sull’erta del cielo.
Le donne erano già tutte intente a raccogliere l’uva nei cesti e nei panieri. Diversamente da quanto aveva fatto il giorno prima, Teresa mi chiamava continuamente perché prendessi il suo paniere, ogni volta che risultava pieno. Non mi dispiaceva farlo ed io, anche con una punta di malizia, incominciai a starle vicino ed a seguirla, man mano che lei avanzava lungo i filari. Lei con una certa perizia passava il coltello sul gambo del grappolo, lo tagliava e si faceva cadere il grappolo nella mano aperta, infine lo depositava con grazia nel paniere.
Io la seguivo con ammirazione, ma stando di proposito in silenzio ed in attesa di qualche sua parola che certamente non sarebbe tardata ad arrivare.
-Ti debbo parlare, mi disse ad un certo punto.
-Dimmi, risposi con sicurezza e soprattutto consapevole del fatto che, dopo quel che avevo visto il giorno prima, avevo il coltello dalla parte del manico.
-Non mi interessa sapere che ci facevi ieri alla Fonte. Ma, che cosa hai visto?
-Ho visto tutto quello che c’era da vedere e forse anche qualcosa in più.
-E cioè?
-Ho visto non solo quello che facevate, ma anche da dove venivate.
-Ci hai seguiti?
-No, ma, dopo che sono scappato, aggiunsi dicendo una bugia, sono andato anche ad esplorare l’anfratto nel quale vi eravate rintanati e lì ho trovato le vostre tracce.
-Ma non è che hai spifferato qualcosa!?
-Questo non l’ho fatto, stai tranquilla. E, soprattutto, non ho detto niente a tuo padre, anche se potevo farlo, perché ieri l’ho visto al paese, conclusi, aggiungendo un’altra bugia.
-Sei un tesoro e ti meriti un premio.
-Che mi dai?
-Ti do un bacio. Posso?
-Certo che puoi.
-Ma non qui. Ci possono vedere. Ci vediamo oggi pomeriggio alla Fonte, alla stessa ora di ieri, finì lei, scompigliandomi dolcemente i capelli.
Ebbi l’impressione di ricevere un colpo in testa, da cui stentai a riprendermi, e smisi di trasportare panieri. Quel giorno non trasportai più alcun paniere, né di Teresa, né di nessun’altra. Girovagai a lungo per la campagna  e di tanto in tanto ritornavo verso le vigne, per chiedere l’ora ai pochi che avevano la fortuna di possedere un orologio. Una volta  mi misi a frugare anche tra la roba di mio padre e, sempre per vedere l’ora per l’ennesima volta, ne trassi fuori una grossa cipolla da taschino di cui egli era gelosissimo e che io maneggiai con molta circospezione, per evitare di fare danni.
A pranzo mangiai  di fretta e voracemente, pur di non perdere tempo e, dopo la solita esibizione canora di mia madre,  che quel giorno ebbe il pregio di essere molto sbrigativa e veloce, sgattaiolai furtivamente e mi diressi verso La fonte.
        Non mi misi a correre, anzi camminavo a passi piuttosto lenti, per allungare il più a lungo possibile il piacere dell’attesa. Ogni tanto mi giravo indietro e ad un certo punto mi accorsi che Teresa mi stava seguendo, a circa cento metri di distanza. Mi fermai ad aspettarla e proseguimmo insieme, fianco a fianco e in silenzio.
        Mi era difficile dire qualcosa e, in particolare, avvertivo che mi era anche difficile capire davvero quello che io sentivo in seno, mentre la campagna tutt’intorno era sprofondata in uno strano silenzio ed una sparsa nuvolaglia, apparsa improvvisamente in cielo, sembrava preannunziare un temporale estivo.
Quando arrivammo alla Fonte, prima Teresa si diresse dietro un folto cespuglio, poi riapparve rassettandosi e si avvicinò a me. Io ero quasi paralizzato, mentre lei, come era solita fare, mi metteva le mani tra i capelli e li scompigliava amorevolmente.
-Avvicinati, mi disse.
Ed io mi avvicinai a lei il più possibile, fino a sentire il contatto delle sue gambe.
-Chiudi gli occhi, aggiunse.
Ed io chiusi gli occhi. E nello stesso tempo mi sollevai sulle punte dei piedi, nella speranza che così  il mio volto potesse almeno arrivare all’altezza del suo collo. Ero in attesa del bacio fatale che avrebbe aperto le cateratte del cielo, avrebbe scatenato le gerarchie degli angeli e dei demoni ed infine avrebbe dovuto sconvolgere per l’oggi e per il futuro l’equilibrio della mia esistenza.
Ed il bacio arrivò, non sulle labbra, nonostante mi fossi sollevato sulle punte dei piedi, ma sulla fronte. Fu un bacio dolce, ma rapido  e quasi sbrigativo.
-Ma tu stai tremando e la tua fronte scotta, esclamò Teresa.
-Io non sto tremando e la mia fronte non scotta. Sei tu che non capisci niente, risposi seccato, mentre già le prime gocce di pioggia cadevano tutt’intorno.
Ci mettemmo a correre tutti e due. Io ero più veloce, ma rallentai di proposito, per non lasciarla indietro e, dopo alcuni minuti, con qualche affanno e quasi ansimanti, con i vestiti molli di pioggia, arrivammo alla casetta dove già tutti gli altri avevano trovato rifugio ed erano preoccupati per la nostra assenza. Rassicurammo tutti con qualche bugia e instaurammo tra noi due una sorta di complicità che mi faceva presagire per il futuro una catena di delizie e di ulteriori piacevoli progetti.
Fuori intanto la pioggia continuava a cadere tra scrosci, lampi e tuoni  e durò fino a sera, quando, ormai sulle soglie del buio, tutti ci mettemmo in fila e, scivolando tra l’erba bagnata e le gocce che continuavano  a cadere dalle foglie degli alberi, finalmente ci avviammo verso il paese.
Il giorno successivo, terzo giorno di vendemmia, quando la carovana degli uomini e degli animali arrivò alla casetta, mi balzò subito agli occhi l’assenza di Giovanni, ma anche quella di Teresa. Qualcuno aveva saputo e riferì che, durante la notte, la ragazza aveva avuto un attacco di febbre e che per questo i genitori le avevano impedito di venire.
Ero scontroso e irascibile, in guerra con tutto e con tutti, con la vita, con gli uomini e anche con Dio. Girovagai in lungo ed in largo per la campagna, sconfinando anche in quelle limitrofe e senza mai avvicinarmi alle vigne. Arrivai fino al limite delle proprietà dei miei zii e zie, fino all’ultima, che era quella di zia Elena. Lì, potei vedere, incredibilmente vicina, la sagoma della nave di Santa Severina che si stagliava netta sullo sfondo. C’era un burrone, oltre quel limite, e io mi avvicinai pericolosamente, fino quasi a penzolare nel vuoto. Quel burrone, con la sua valle scoscesa e profonda, mi attraeva incredibilmente ed io provavo quasi un senso di vertigine.
Mi feci rivedere solo all’ora di pranzo, al quale non mi sentivo di rinunziare e che consumai in fretta e con la solita voracità. Poi di nuovo in giro, ad esplorare anfratti e dirupi, ad inseguire lucertole, a distruggere tutto quello che si poteva umanamente distruggere. Nel mio folle girovagare rividi anche La fonte ed il posto preciso in cui Teresa, il giorno prima, mi aveva dato quel primo, timido bacio.
Il giorno successivo era il quarto ed ultimo giorno di vendemmia, di norma riservato alle ultime incombenze. Non partii nemmeno per la campagna, perché sapevo che quell’ultimo giorno era sempre caratterizzato da un senso di disincanto e di malinconia, come normalmente avviene alla fine di ogni festa. Si raccoglieva tutto, si sistemava ciò che c’era da sistemare e si ritornava mestamente a casa, al grigiore della vita di ogni giorno. In più, alla mia età, all’idea della fine della vendemmia si associava un’altra idea: quella dell’inizio dell’anno scolastico e del ritorno a scuola, con i compiti da fare, lo studio, la disciplina.
Così io vivevo allora il rapporto con la campagna. Era per me l’età dell’innocenza non ancora perduta e che mi induceva a credere ostinatamente in un mondo che forse non esisteva più, o che almeno era sul punto di non esistere più. Ma quell’innocenza stava per dissolversi e si dissolse definitivamente un paio di anni dopo.
Si era in un mese di agosto particolarmente caldo ed arido. Allora, come sempre, non erano infrequenti gli incendi nelle campagne. Solo che allora non c’erano i pompieri o i Canadair e l’unica lotta agli incendi era quella dei volenterosi chiamati a raccolta dal suono delle campane. Era motivo di onore e di orgoglio poter aiutare gli altri, nella speranza che, in caso di bisogno, anche gli altri corressero in aiuto.
Quell’anno toccò a noi e al suono delle campane seppi che Garruòpolo era in pericolo. Ero un bambino di dieci anni allora, ma non ci pensai due volte. Scattai come una molla e mi misi a correre disperatamente. Lungo quei sentieri che avevo già percorso tante volte, l’unica mia ossessione era quella di arrivare presto, come se tutto dipendesse dalla mia presenza.
La polvere si sollevava fino a formare nuvole tortuose ed un paio di volte mi capitò anche di cadere.  Mi accorsi che il mio volto era bagnato e pensai si trattasse di sangue, ma, quando sollevai la mano a toccarmi, capii che quelle che rigavano il mio volto erano soltanto lacrime. Correvo e piangevo e ad un certo punto mi venne anche di pregare: Gesù , fai che Garruòpolo non bruci, fai che non diventiamo poveri. Ave Maria…
Quando arrivai in campagna, c’erano già tante persone che, armate di pertiche, frasche e bastoni, lottavano contro le fiamme. Anche io diedi il mio seppur modesto contributo, quando, prima di far ritorno a casa, spensi con la mia pipì una piccola fiamma che si ostinava a bruciare. Ritornai a casa sfinito.
A casa c’era solo Franca, la nostra domestica, che io consideravo come una sorella o una seconda mamma. Mi chiese allarmata:
-Com’ è andata, Zinnì (così mi chiamava)?
Ma io non avevo nemmeno voglia di parlare, tanto mi sentivo stanco. Allora Franca mi prese in braccio, poi si mise a sedere, mi strinse a sé e incominciò a cullarmi, sussurrando:
-Dormi, Zinnì,…dormi, dormi, Zinnì…
Ezio Scaramuzzino

(Nella foto: Tempo di vendemmia di Francesco Gioli)





venerdì 7 settembre 2018

Modesta proposta per l'avvenire




Mi permetto di parafrasare il titolo di una famoso libro di Giuseppe Berto, che nel lontano 1971, con la sua orgogliosa indipendenza e la sua capacità di andare contro corrente, si permetteva, a ragione, di non disperare e di lanciare una sua proposta per il futuro.
Oggi, almeno dal punto di vista giudiziario, non è che la situazione sia migliore e la recente sentenza della magistratura genovese sui conti della Lega, fino al recupero immediato dei famosi 49  milioni di Euro, appare una clamorosa conferma del marasma legislativo e dell’arbitrio che sembrano caratterizzare la nostra democrazia (democrazia?).
Intanto qualche precisazione, per avere una quadro passabilmente chiaro del problema.
1-I fatti risalgono a circa dieci anni fa, quando segretario della Lega era Bossi e l’amministratore era Belsito.
2- I soldi contestati sono poco più di 300.000 Euro, ma i giudici pretendono il recupero di 49 milioni di Euro, cioè l’intero ammontare del finanziamento pubblico ricevuto dalla Lega negli anni 2008- 2010 (ora il finanziamento pubblico non esiste più), contestandone l’invalidità di principio per l’intero ammontare, perché considerato infedele.
3- In un caso analogo il partito La Margherita, con Rutelli segretario e Lusi amministratore, non fu tenuto a rimborsare i soldi rubati e anzi fu considerato parte lesa e risarcito.
4-Bossi e Belsito sono stati condannati solo in primo grado, ma i giudici non si sono fermati davanti ad una simile quisquilia, pretendendo il recupero immediato dei soldi e condannando la Lega di Salvini a morte certa per asfissia.
5-E’ la prima volta che un fatto del genere avviene in una democrazia occidentale. Ma L’Italia è ancora una democrazia o per molti aspetti si è avvicinata alla Turchia di Erdogan e al Venezuela di Maduro, dove i partiti vengono sciolti per sentenza di un giudice?
Fatte queste premesse, altre considerazioni sono di rigore. Conosciamo tutti le traversie giudiziarie di Salvini per il caso della nave Diciotti e, per quanto Salvini appaia sicuro ed a tratti spavaldo, non è per nulla sicuro che alla fine egli possa uscirne vincente contro l’universo mondo della casta dei giudici e dell’oligarchia giudiziaria. Certo, la storia si ripete e non è per nulla consolante il riandare a note, malinconiche e tristi vicende che vedono in ballo la destra politica in Italia.
L’ex Presidente della Repubblica Giovanni Leone, considerato di destra ed inviso alla sinistra politica, fu coinvolto in un processo per tangenti (Caso Lockheed) e fatto fuori con un processo grottesco ed umiliante, che  alla fine lo vide completamente innocente (quando ormai però era troppo tardi). L’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, anche lui considerato di destra ed inviso al PCI, deriso e considerato pazzo, fu coinvolto nel caso Gladio, minacciato dai giudici in vario modo ed infine costretto a dimettersi prima della scadenza del mandato. Di Berlusconi nemmeno parliamo. Accusato di tutto, tranne che dello scoppio delle Guerre Puniche, fu demonizzato dalle sinistre, che alla fine, non riuscendo a toglierlo di mezzo, decisero di farsi dare una mano dall’amico partito dei magistrati. E questi lo condannarono per evasione fiscale (lo stesso era avvenuto con Al Capone) e ne provocarono l’espulsione dal Senato.
Ora è il turno di Salvini, il quale però ha un grande vantaggio rispetto ai suoi illustri predecessori. Intanto è un tipo tosto e, soprattutto, non può essere ricattato, perché non ha nulla da perdere: non è ricco, non ha industrie, non ha ville. Le uniche sue ricchezze sono la dignità, la decisione, il coraggio e, soprattutto, un grosso seguito popolare, che attualmente lo pone alla testa del primo partito italiano (almeno nei sondaggi). Certo, Salvini è molto amato, ma è anche molto odiato, di un odio profondo, viscerale, bestiale, che gli fa correre qualche pericolo, anche fisico.
Intanto c’è da chiedersi perché l’Italia debba sottostare per l’eternità ad una legge non scritta, ma da tutti conosciuta, che la rende per molti aspetti figlia di un dio minore. E questa legge dice che nel nostro Paese la sinistra deve sempre governare, con le buone o con le cattive e che, quando la sinistra è in difficoltà e non riesce a vincere con il gioco elettorale della democrazia, allora è lecito ricorrere all’ausilio dei giudici che provvedono a rimettere le cose a posto.
E’ una storia vecchia, logora, ormai nauseante, che potrebbe indurre alla disperazione o alla rassegnazione, ma che questa volta è auspicabile possa avere una clamorosa smentita.
La storia, diceva qualcuno, non si ripete sempre allo stesso modo. Una prima volta si ripete come tragedia, la seconda volta, il più delle volte, come farsa. E la vicenda Salvini, con le grottesche accuse sul caso della nave Diciotti e ora con il sequestro di milioni che non esistono se non nella mente malata di qualche giudice, promette di avere tutti i contorni di una vicenda allucinante e risibile.
E con queste mie considerazioni non considero chiuso il caso. Io non so che cosa decideranno Salvini e lo stato maggiore della Lega. Ma intanto, per l’immediato futuro, voglio dare un consiglio, magari modesto e per giunta non richiesto. La lega non imiti il cavalier Berlusconi, che si faceva approvare le leggi per sfuggire ai giudici, che poi sistematicamente gli smantellavano o aggiravano le leggi  approvate. La Lega non pensi di salvarsi cambiando nomi, o ricorrendo ad altri sotterfugi. I giudici sono spietati, utilizzano un codice speciale contro tutto ciò cha ha un vago sentore di destra e si divertiranno a giocare come il gatto con il topo.
La mia modesta proposta per l’avvenire è questa: semplicemente la Lega restituisca quei 49 milioni di Euro, detratti ovviamente i 3 milioni già confiscati. E come restituirà quei soldi, se non ce li ha? Semplice. Elementare Watson, direbbe Conan Doyle. La Lega oggi è stimata al 32% nelle intenzioni di voto, il che significa che ha un seguito di circa 13 milioni di persone tra seguaci, attivisti, votanti, simpatizzanti. 49 milioni : 13 milioni =3. Basta aprire una sottoscrizione ed ognuno di quei 13 milioni di simpatizzanti sarà disposto a dare non 3 €, ma 33 €. Saranno restituiti tutti i soldi del debito e ne resteranno anche per la futura attività politica.
Un’ ultima proposta, anche questa modesta e non richiesta. Una volta raccolti i 46 milioni del debito residuo, la Lega non li mandi alla procura genovese (la stessa che indaga per il crollo del ponte. Campa cavallo. Non c’è fretta!) tramite bonifico, postagiro, assegno o roba simile. Niente di tutto questo, no. La lega organizzi una bella manifestazione silenziosa davanti al tribunale di Genova. Lì ognuno dei manifestanti verserà le sue palanche in una carriola e, quando la carriola sarà piena, sarà svuotata davanti alla porta e alle finestre dei magistrati. Accontentiamoli!
Ezio Scaramuzzino

giovedì 2 agosto 2018

Un giorno di ordinaria follia



File all'Ufficio Anagrafe di Crotone per il rilascio della nuova Carta d'Identità Elettronica.









Sono andato all’Ufficio Anagrafe del Comune di Crotone per il rinnovo della Carta d’identità. Capita ovviamente. Una volta ti scade la Patente, una volta il Tesserino fiscale, poi è il turno della Carta d’identità. Mi piace razionalizzare i tempi e quindi, prima di recarmi in ufficio, ho provveduto diligentemente a documentarmi. Ho appreso così che il Comune di Crotone, tra i primi in Italia, rilascia solo la CIE, la Carta di Identità Elettronica per chi ancora non avesse familiarizzato con l’acronimo, allo scopo di adeguarsi ai tempi e soprattutto allo scopo di rendere più semplice la vita dei cittadini.
Il sito internet del Comune ci tiene a far sapere che “Per l'emissione della nuova CIE occorrono circa 20 minuti (salvo problemi tecnici)”. Ho fatto quindi i miei bravi calcoli sul tempo da ripartire tra i vari impegni della giornata e, dopo aver preparato i pochi documenti da esibire, baldanzoso e fiducioso mi sono presentato. Appena varcata la soglia, sulle prime ho temuto di avere sbagliato indirizzo o orario: una ventina di persone, tra le quali molti extracomunitari, stava in fila dietro una porta chiusa in atteggiamento tra il rassegnato e/o il disperato.
Mi ci è voluto un po’ di tempo e qualche domanda ai presenti per capire che quello era proprio l’ufficio che cercavo. C’era poco da fare: bisognava soltanto rassegnarsi e mi sono messo diligentemente in coda. Bastava solo considerare in aggiunta che i circa 20 minuti di media, di cui si parlava nel sito del Comune, andavano ovviamente moltiplicati per il numero delle persone.
Nelle code, come nelle sale d’attesa, in genere le persone sono un po’ più disponibili, quindi il mio vicino di fila ha subito provveduto ad aggiornarmi. Ho così potuto sapere che la porta, in quel momento chiusa, si apriva solo all’espletamento della pratica precedente, in media ogni mezz’ora, e che bisognava sperare di rientrare nel numero dei fortunati, perché  all’ora di chiusura la porta non veniva più riaperta. Mi ha fatto sapere infine che era lì in coda per la terza volta, perché la prima volta era stato escluso dall’orario di chiusura  e la seconda volta perché la foto non andava bene.
Non nascondo che ad un certo punto, un po’ per il caldo eccessivo, un po’ per le notizie fornitemi, ho avuto una sorta di mancamento che deve  avermi fatto barcollare, perché il mio interlocutore mi ha chiesto con insistenza se mi sentivo bene. L’ho rassicurato e mi sono fatto forza. Poi ho chiuso gli occhi.
Mi sono rivisto in un famoso film del 1993, Un giorno di ordinaria follia, con Michael Douglas. Nel film un ex marine rimane bloccato in un ingorgo stradale mentre sta entrando a Los Angeles. Esasperato, impazzisce, prende un mitra e scorrazza per la città compiendo una strage di persone inermi e innocenti. Beh, a quel punto anche io sono uscito dall’Ufficio Anagrafe, sono corso in macchina, ho preso una pistola gelosamente custodita, la mia Beretta 7,65 e mi sono diretto verso il Municipio. Ho scansato con uno strattone un agente di guardia sul portone, ho preso le scale e mi sono diretto verso l’Ufficio del Sindaco al primo piano. Ho dato una spallata alla porta, sono entrato, l’ho visto, ho sparato.
Mi sono sentito toccare. Era il mio vicino di fila che ritornava a chiedermi se mi sentivo bene, perché mi aveva sentito ripetere con un filo di voce “Pum, pum!”.
Ho riaperto gli occhi. Contemporaneamente  una gentile donzella usciva per avvisare che, a causa di una interruzione della connessione internet, tutto era rinviato al giorno successivo. Me ne sono andato anche io, come tutti, con qualche mugugno.
Qualcuno vorrà sapere come è andata a finire. Beh, qualche giorno dopo, al secondo tentativo, di pomeriggio, mi è andata bene: sono stato l’ultimo prima della chiusura. Ma avevo già deciso che, in caso di fallimento, avrei rinunciato per il futuro e sarei entrato nella categoria dei clandestini. Con le centinaia di migliaia che ne circolano liberamente nel nostro Paese, uno in più o in meno avrebbe cambiato poco.
Ezio Scaramuzzino